Fandango
2017
9788860445292
Nella Casa, nessuno dei bambini possiede niente, niente di niente, tolto qualche vestito, una saponetta per il viso e uno spazzolino. Qualcuno è orfano, qualcuno è stato abbandonato. Quando si arriva a tredici anni, si va altrove, in una Casa dei ragazzi. Fino a quel momento, chi ha più di nove anni è un grande, chi ne ha di meno è un piccolo. Il gioco preferito è il gioco dei ricordi: è come “sognare e ricordare insieme”. I bambini si sdraiano, uno attaccato all'altro, come tasselli del domino, e chiudono gli occhi. In silenzio, cercano di ritrovare immagini e parole della vita prima della Casa. Qualcuno inventa, altri proprio no; o forse no. Le regole della Casa sono diverse dalle regole dei giochi, le ha fatte il Direttore. Uno che conosce i nomi di tutti i bambini. Uno che ripete che fuori, là fuori, al di là delle mura e del cancello, non succede proprio niente, niente di niente. Uno che vuole che i bambini studino e si comportino bene, punto. Ad aiutarlo, ci sono le mamme e ci sono le maestre, e c'è il vecchio custode. I bambini non sanno se possono fidarsi degli adulti: è troppo fresca e urticante la ferita dell'abbandono, è troppo ripetuta e umiliante la ferita del rifiuto, di quei genitori che vengono a fare la selezione, prendono un altro o non prendono nessuno, poi se ne vanno. Ci sono bambini, come Sandro, Nuto e Dino, che cercano spesso di scappare, perché vogliono vedere cosa succede davvero là fuori, perché non credono alle storie del Direttore e delle maestre. Ce ne sono altri, come l'astuto Giuliano, che hanno deciso che stanno bene dove stanno, per adesso. Nuto è rosso di capelli, ha il collo corto e robusto, è forte e veloce, e un giorno viene scelto e se ne va. Sandro è biondo, magro e ha gli occhi chiari, e racconta tante storie. Dice di avere avuto una sorella, “prima”; qualcuno non ci crede. È sciancato, si sente segnato. Dino è tutto secco, pallido, sempre agitato. In stanza ha un pupazzetto di legno che non potrebbe tenere. Poi ci sono tutti gli altri. Passa qualche anno e ci ritroviamo fuori. Fuori c'è la guerra. C'è un partito che va contro i ribelli; questi ribelli hanno nomi da partigiani. Nuto adesso ha sedici anni, e non sa da che parte stare; per lui la giustizia è morta parecchio tempo prima. Il destino sta per chiedere un tributo a tutti i vecchi bambini della Casa, e forse alla Casa intera...
Terzo libro di Michele Cocchi, scrittore pistoiese classe 1979, “La casa dei bambini” [Fandango, 2017; euro 15, pp. 264] è un romanzo drammatico diviso in tre atti; nel primo, osserviamo i bambini dell'orfanotrofio nel momento di maggiore sofferenza e maggior cameratismo, e massima solidarietà e più feroce antagonismo; coincide con l'infanzia, si ferma un morso prima dell'adolescenza. Nel secondo, osserviamo i ragazzi che giocano alla guerra senza forse essere del tutto consapevoli che di gioco non si tratta, che in quella guerra si finisce morti ammazzati, o ci si ritrova costretti al tradimento, a rinnegare le amicizie, o la propria storia. Nel terzo, osserviamo qualcuno di quei ragazzi superstite alla guerra civile, forse non del tutto incolume. C'è qualcuno che ha una fantasia da “Enrico IV” di Pirandello e qualcuno che è diventato vecchio senza riuscire ad essere adulto.
In epigrafe, Cocchi ha piazzato un passo del celeberrimo “Signore delle mosche” di Golding, che potrebbe essere parzialmente fuorviante: non c'è proprio niente di distopico in questo romanzo, al limite c'è qualcosa di fortemente simbolico; c'è invece uno sguardo molto sensibile alle sofferenze e alle contraddizioni dell'infanzia, e dell'adolescenza, e al rapporto complicato con l'autorità – in senso lato, con le figure adulte (completamente assenti in Golding, per dire). Come già nel precedente romanzo, “La cosa giusta”, c'è qualche scelta allegorica che merita di essere indicata: non vengono nominati i luoghi, né i paesi; a giudicare dagli scarsi riferimenti agli autoveicoli nei paraggi, si intuisce che potremmo essere in qualche momento del Novecento; le altre tecnologie sono relativamente assenti. Sulla base di queste caratteristiche sommarie, non possiamo nemmeno considerarlo un romanzo “ucronico”: è semplicemente un romanzo simbolico. I padri e le madri non hanno nome; in questo caso particolare, il “partito” e i “ribelli” che a un certo punto si scontrano non sembrano ideologicamente riconoscibili, hanno qualche elemento addirittura interscambiabile (classicamente, entrambi sembrano volere, per supremo paradosso, la pace): in generale, escluderei qualunque velleità di rappresentare il disastro della guerra civile combattuta qui in Italia esattamente tre generazioni fa. Se mai c'è stata questa intenzione, è rimasta una velleità (meglio così).
Cocchi mantiene, del suo esordio, una discreta capacità descrittiva e una buona compostezza nella narrazione (alla Cassola, circa, o comunque su quella falsariga. Un Cassola psicologo dell'infanzia); buoni i dialoghi, spesso così serrati da risultare più teatrali che narrativi; notevole nella rappresentazione della complessità psichica dei bambini, Cocchi è invece debole o molto debole nella rappresentazione del mondo adulto, fragilissimo o blando e fumettaro in quella della guerra (la generazione mia e di Cocchi non ha quell'esperienza in comune con la generazione di Golding: e si vede. Noi forse possiamo restituire gli psicodrammi mediatici degli attentati). Chi va cercando un romanzo che vada estetizzando, con sensibilità e con garbo, il microcosmo dei bambini (e di un orfanotrofio, e dei suoi confini), e sappia restituire una storia di amicizia, di tradimento e di fratellanza, può trovare soddisfazione; chi va a cercare letture politiche, distopiche o ideologiche non può che restare disorientato e frastornato, e forse deluso. Nella bandella Fandango, si legge, a un tratto: “Il romanzo su un'Italia possibile, che anticipa il prossimo secolo”: no, assolutamente. Invece “una storia di amicizia, sopravvivenza e scoperta, la storia di un gruppo di bambini” è più leale (forse più semplice; più semplice, quindi, come spesso accade, più bello; e comunque più nelle corde dell'artista).
Gianfranco Franchi, novembre 2017.
Per approfondire: La Nazione commemora Michele Cocchi (31 dicembre 2022)
Il gioco preferito è il gioco dei ricordi: è come “sognare e ricordare insieme”. I bambini si sdraiano, uno attaccato all’altro, come tasselli del domino, e chiudono gli occhi.