Montedit
1998; 2000
“Er geht wie den kein Walten / Vom Rücken her bedroht. / Er lächelt, wenn die Falten / Des lebens flüstern: Tod! / Ihm bietet jede Stelle / Geheimnisvoll die Schwelle; / Es gibt sich jeder Welle / Der Heimatlose hin” (Hugo von Hofmannstahl, “Lebenslied”).
“Kwaheri”: Arrivederci, addio.
“Sukkal”: Messaggero.
Le prime due raccolte della letterata siciliana Laura Caroniti, poetessa, critica letteraria e narratrice classe 1979, sono state pubblicati a distanza di due anni, tra 1998 e 2000: la struttura – a suggerire la fratellanza tra i due testi – è analoga: incrina e spezza il bianco una premessa dell’autrice: a seguire, rispettivamente 23 e 24 componimenti. La diciottenne autrice di Kwaheri è post-romantica e frammentaria; cosciente d’essere sull’orlo del passaggio della linea d’ombra, sintetizza “ricordi sbiaditi di treni diversi, addii, partenze, ritorni”. Dalla premessa: “Ho in bocca parole non dette, mezze frasi recise, ambigue, confuse sui margini di qualche quaderno in sensazioni precise, oltre righe banali, cumuli d’incognite ch’ammalano fin troppo le ore, e…paure”.
Il nemico è il dolore: si canta dell’inquietudine figlia del distacco, della luna e del mare. Si riconosce un precoce talento per la cristallizzazione e la sospensione delle immagini: la Caroniti è lirica e visiva, come in questo “Testamento ancestrale”: “(…) Che i miei occhi / siano cielo di rame, / delirio di nembi vaganti / squassati dai tempi. // Lampeggerà il livore / nell’ubriaca sera, / ove il respiro sarà stanco…/ …ove respiro sarà vento / che insiste (…)”. Versi che giocano sulla musicalità interna: le “r” e le “s” a scandire il ritmo, prima rabbioso poi suadente e sussurrato.
La visione è scolpita nei versi centrali di “Intermezzo”, evocativi e allucinati: “È qui che le meduse di vetro / si sfaldano in lacrime antiche / sospinte da venti di pietra / in cieli di leggere rovine”: meduse sfaldate rubate da un vento – di pietra – vivono vinta apoteosi tra nuvole specchio del tempo, e della grandezza indimenticata e perduta: è la giovinezza d’una cultura, e non l’adolescenza, che la poetessa va cantando; quel vento che canta è “alito perpetuo / di ore senza vita”: l’eternità che si ribella alla decadenza del nostro tempo frenetico e confuso, che poco esalta, niente riconosce e troppo tace. Quando è invece la biografia d’un’adolescenza e dei suoi amori a pretendere spazio e dedizione, all’amato che forse non più potrà tornare si minaccia: “Sentirai il mio respiro / in un’unghia, sulla pelle, / come fiato negli occhi / di un’onda” (“Non è futuro questo tempo passato”); passione incandescente e promessa d’avere la violenza dell’acqua – inattesa e invincibile, a strappare al presente l’esule dal sogno. È un libro d’addii, e di memorie – soltanto la notte risponde (rivelando, spergiurando, scoprendo il domani) e infine alla propria terra si dedicano i versi più vivi – quelli che rimarranno: “Ama, mia terra, / questo quasi poeta felice / che ha sangue di mare / consunto in antica saggezza / dal moto ritroso / di onde fuggiasche; / questo quasi poeta felice, dal giovane cuore / ancorato ai tuoi lidi / che canta gli addii / cadenzati di storie / ingloriose” (“Ama, mia terra…”). Senza più voltarsi indietro, fino all’avvento del Messaggero: Sukkal.
“I grew up bent over / A chessboard. / I loved the word endgame. / All my cousins look worried. / It was a small house / Near a Roman graveyard. […] / The white King was missing / And had to be substituted for” (Charles Simic, “Prodigy”).
“In principio era l’Addio. E poi vennero gli Angeli. In bilico sull’argine di un mare interrotto…presenze. Fantasmi di preghiere oscillanti, follie di visioni-velluto. Onde a inghiottire croci passate, ancore lievi a pesare su nuovi silenzi: bianco disagio di ossa……de profundis” (Premessa a “Sukkal”). Viene il tempo di inondare il lettore d’altra luce – sprigionata dalle gabbie dell’adolescenza e da un rimpianto inespresso: l’artista è “metafora d’alba sgozzata” (“Preludio”), dell’inganno vuole fare religione: sporca di purezza il mondo, e maschere infine indossa, per piangere la morte del suo dio.
Questa raccolta ospita poesie splendide come “Urobori”: d’una violenza impressionante e tracimante, d’una densità estranea alla Kwaheri, perché s’attinge a fonte nuova – e si conosce diversa disperazione, e non umano incanto: “Se disumana locusta di donna divento / oscurando il Lazzaro oblio delle diaspore vive / e vampire che ancora la bocca ricorda, / il cordoglio vischioso dei fumi d’incenso, / di anni perduti e raccolti intorno al mio volto, / le stagioni disperse di spine morenti rivivo / in derive d’abbracci bambini; / amara ritorno mercante di morsi infiniti / sull’argine vuoto di sensi infecondi, di ossa / pentite oltre voci di baci digiuni e gonfi di pianto” (“Urobori”).
Nella raccolta, segnaliamo versi dedicati a Marguerite Gautier, a domandarsi se la pace che la insegue nel sonno sia porto non detto, e se l’attesa salvezza infine sia giunta; l’omaggio a Sylvia Plath (“Pacem in inferis”), “A te l’allodola cede il suo prezzo / in lobole crude e papaveri rossi / come i miei occhi sottili di schiena / per cavi di nera memoria / che uccido / assassina io grassa di stigmate mute” e ancora una danza di Matisse, “di sabba in sabba moderni”: più vicini al cielo di quanto non sembri.
La presenza-assenza è quella d’una figura sconosciuta, “respiro d’altrove” fuggito da una dimensione all’altra; il messaggero sembra aver promesso la sconfitta della dannazione – insinuando sogni nel tempo, annunciando deliri di luce. Il resto è passionalità, talento e sensibilità: capacità d’insegnare a guardare le stelle dopo aver rubato una scintilla all’inferno; l’inganno è rifugio, il sogno è Babele. La promessa è stata ascoltata e intesa; attendiamo adesso che canti ancora – perché questa è musica che rigenera e nutre l’anima, e privarsene è sconsiderato.
PAROLE D’AUTORE (di Laura Caroniti)
«Hai scelto le prime due raccolte. Sono così lontane…la prima soprattutto. Qualcuno forse direbbe che non le sento più mie e sarebbe un bugiardo. Le sento come un’eco lontana, una luce leggera, ma restano mie. Sono righe frignone, alcune, come io ero frignona evidentemente a quel tempo. E non è detto che non lo sia ancora, solo un poco poco diversa. Sono parole mie, dunque, anni miei cui guardo anche con leggero pudore. Leggere la tua recensione con due occhi ciclopi: il primo vergognoso e vergognato, dovrebbe essere così quando qualcuno parla di te, di quel che hai fatto, di quel che hai vissuto; e il secondo quello da lettore che plaude al critico Franchi perché ha dosato tutto, pagine e righe, sapientemente e con dei salti che solo l’autore, io qui, avrei potuto riconoscere. Che dirti, amico? Che la scrittura è in te, comunque, qualsiasi sia il soggetto. Le parole. Vecchio cantore parolaio e m’immagino tra 50 anni a scriverti ancora mezza rimbambita e a non trovarti cambiato di netto, solo la giusta progressione del tempo. Sorpresa, dunque, sì» (MLC, marzo 2005).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Laura Caroniti (Messina, 1979), poetessa e scrittrice italiana. Laureata in Lettere Moderne con una tesi in Letteratura Italiana dal titolo: “Fare accadere le cose: lettura di Baudolino di Umberto Eco”.
Laura Caroniti, “Kwaheri (la raccolta degli addii)”, Il Club degli Autori, Milano 1998.
Laura Caroniti, “Sukkal (e poi vennero gli angeli…”, Il Club degli Autori, Milano 2000.
Gianfranco Franchi, marzo 2005.
Prima pubblicazione: Lankelot.