Castelvecchi
1994
9788861923119
La critica letteraria? Una questione di lupi. Oggi, che sembra “i libri non abbiano nulla a che fare con il dolore, con il fatto elementare che noi tutti facciamo esperienza delle cose a partire dal nostro smarrimento”, Trevi ribadisce che la critica s'è perduta in glaciali astrazioni, in una lingua indecifrabile, in una autoreferenzialità inaccettabile, smettendo di intuire e sospettare, di aprirsi all'umanità, di parlare la lingua di tutti – non certo quella dell'accademia, né quella di certo giornalismo culturale, sua provincia prima, e molto fedele. E allora, “si può recensire un tramonto?”, domandava, nell'ormai celebre incipit dell'opera, Emanuele Trevi a Marco Lodoli, destinario di questa lunga lettera, composta tra dicembre 1993 e febbraio 1994. Si potrebbe e si dovrebbe, è la risposta retorica, per provare a riallineare le anime alla letteratura, le intelligenze al loro ruolo (di condivisione e sostegno all'armonia; di generoso ascolto e reciproco aiuto; di accettazione della necessità del silenzio, in certi frangenti, e dell'importanza dell'accessibilità). Ma non avviene, non accade, non succede.
Il critico letterario romano sosteneva che la critica fosse “un modo di amare le cose della vita” facendo leva su una reticenza: quella della bellezza, che tende a restare inespressa, a mantenere vivo un segreto, un mistero. Trevi ricordava che la missione della Letteratura era ricordarci che non esiste nessuna verità se non nel sogno di una verità: e che comunque per la verità ci si deve battere, perché semplicemente questa è una battaglia che va combattuta (p. 35). Trevi ricordava che dovevamo tornare a fare silenzio dentro noi stessi, farci semplice luogo di transito delle cose belle, rinunciando alla psicologia (p. 48). Ribadiva la centralità dei sentimenti, delle emozioni, delle sensazioni. In altre parole, dell'umanità.
“Con le Istruzioni ho cominciato a sperimentare le potenzialità di un linguaggio critico naturale, non condannato ad essere compreso solo da altri critici. In definitiva, penso di avere impiegato meno tempo a imparare il linguaggio specialistico della critica che, in seguito, a disimpararlo” scriveva nelle “Nuove istruzioni”, qualche anno dopo, chiarendo e definendo il senso dell'opera.
“Istruzioni sull'uso del lupo” nel 2009 ha compiuto quindici anni: la situazione non è cambiata, la percezione della fatiscenza della dialettica critici-autori e dell'incomunicabilità critici-lettori è sempre più netta. Recensioni, monografie e saggi accademici rimangono creazioni di un circuito ristretto, ridotto ed estraneo al pubblico non specialistico; pubblicato, non è un caso, da editori tendenzialmente universitari, protagonisti di un mercato arricchito dai denari di studenti costretti ad apprendere quella lingua, quel codice, quei concetti. Ingiustamente, provvisoriamente, funzionalmente. Fosse una questione di intelligenza, di selettività, di disciplina, di sacrificio, non sarebbe male: il punto è che sembra trattarsi di una questione di prepotenza, di presunzione, di cecità rispetto alla realtà, di volontaria autoghettizzazione. E così chi potrebbe aiutare i cittadini a orientarsi nel mare magnum delle pubblicazioni di narrativa e di saggistica, e dell'editoria, si ostina a dialogare con i colleghi parlando una lingua fumosa e iniziatica, rivelandosi – come il genio della lampada – una tantum in polverose e semideserte presentazioni dal vivo. Trevi dice, abbastanza direttamente, che certa critica si sta parlando addosso, e come se non bastasse ha perduto sentimenti e spontaneità. Innamorandosi dei sofismi, della propria retorica, del nozionismo, di questioni strutturali e non concettuali.
Basterebbe poco per cambiare certi equilibri. Ossia creare contesti nuovi per permettere agli accademici di dialogare con i cittadini comuni; per aiutarli ad abbandonare la torre d'avorio; per insegnare loro quanto sia fondamentale un'altra e diversa interazione con le intelligenze. Tutto questo contribuirebbe a rianimare la letteratura. È nelle cose.
Qual è la morale della favola, allora? Trevi insegna: “(...) il più furbo era proprio il primo dei tre porcellini. Ricordi? Quello che costruiva la sua casa con la paglia. Perché il lupo, in un modo o nell'altro, deve arrivare. Si spreca una vita a immaginarselo, questo lupo, e a fare delle case solidissime. Mentre, con la sua paglia, quel genio del primo porcellino voleva esprimere la sua semplice verità: che senza il lupo, senza la sua splendida giustizia, non vale nemmeno la pena di esistere.
Sarebbe ipocrita dire che il lupo non è così brutto come lo si dipinge. Anzi, è molto peggio. Il lupo è la verità della vita di un uomo, e la verità della vita di un uomo sta in ciò che più teme. Io non ho perso di vista, caro Marco, la critica letteraria. Ma il lupo non ha mai perso di vista me, in compenso” (pp. 22-23).
Forse non è una questione privata.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Emanuele Trevi (Roma, 1964), giornalista, critico letterario e scrittore romano. Collabora a “Il Manifesto” e “La Repubblica”.
Emanuele Trevi, “Istruzioni per l'uso del lupo. Lettera sulla critica”, Castelvecchi, Roma 1994. Collabora a “Il Manifesto” e “La Repubblica”. L'introduzione, “Nuove istruzioni”, appare nella nuova edizione (2002).
Gianfranco Franchi, febbraio 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.
La critica letteraria? Una questione di lupi.