Guanda
1995
9788877468246
IN TEMPESTA IO MATURO (CRESCO, E MI PLACO)
“Irradiazioni” è il diario della seconda guerra di Ernst Jünger: il suo “contributo intellettuale” all'atrocità commessa dall'uomo a metà del secolo scorso. Nell'introduzione, l'artista tedesco spiega che si tratta di un “sestetto di diari nati negli anni della Seconda Guerra Mondiale. La presente raccolta comprende le quattro parti centrali, mentre la prima è già comparsa col titolo 'Giardini e strade', e l'ultima ha ancora bisogno di un periodo di ulteriore maturazione”. Uscirà come “Die Hütte im Weinberg”, qualche anno dopo.
Più avanti, scopriamo il senso del titolo: “Irradiazioni: con ciò s'intende prima di tutto l'impressione che il mondo e i suoi oggetti hanno provocato sull'autore, il sottile intreccio di luci e di ombre che questi oggetti formano (…). Esistono irradiazioni chiare e scure. Completamente scure sono quelle zone di terrore che, con la fine della Prima Guerra Mondiale, cominciarono a gettare la loro ombra sul nostro tempo e si allargarono paurosamente (…). Irradiazioni: il processo va inteso anche come effetto che l'autore opera sul lettore” (pp. 5-6).
Il compito di queste pagine, spiega EJ, non è politico ma pedagogico, “in senso superiore, autodidattico” (p. 8). Perché l'autore dà al lettore la possibilità di partecipare al suo sviluppo, convinto che dall'uomo, e non dai sistemi o dalle ideologie, debba crescere il nuovo frutto.
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L'opera è strutturata in frammenti; si parte dal primo diario parigino e ci si ritrova a Kirchhorst, nell'arco di quattro anni. Jünger, in questo periodo terribile della storia dell'occidente e dell'umanità, vivrà due drammi famigliari dolorosi e deprimenti come la morte del padre (1943) e quella, innaturale, del figlio, Ernestel, caduto appena diciottenne a Carrara nel 1945 (pp. 495-496). “Irradiazioni” è dunque uno spaccato della tragedia del popolo tedesco, della nazione tedesca e della famiglia Jünger: dei popoli del mondo, delle nazioni del mondo e delle famiglie tutte, a ben guardare. È un libro intenso, doloroso, caotico e vivo, profetico ed estremamente letterario.
Quando l'autore scrive che si tratta di pagine dal compito “non politico” non sta mentendo; tuttavia, come ci si può attendere da chi ha scritto “Sulle scogliere di marmo” e da chi – proprio in quegli anni – stava scrivendo il trattato-pamphlet “La pace”, il giudizio su Hitler e sul nazismo è a dir poco sprezzante. Vediamo assieme perché.
Si parte da un frammento del 1942: EJ racconta d'una lettera ricevuta dal fratello Wolfgang, e riferisce questo passo:” Ieri sono andato in trasferta a Sorau, nel Lausitz (…). Là dovetti fare una visita anche al manicomio, dove incontrai una donna la cui sola fissazione consiste nel mormorare ininterrottamente: Heil Hitler. Comunque una pazzia conforme ai tempi” (p. 61). Sempre a Parigi, 8 febbraio 1942:
“Non c'è alcun dubbio che vi sono singoli che bisogna ritenere responsabili della morte di milioni di persone. Sono le tigri assetate di sangue. A parte gli istinti plebei, vi è palese in essi una volontà satanica, un freddo godimento della rovina degli uomini, anzi forse dell'umanità. Una violenta sofferenza sembra assalirli, una irritazione, forse ululante, quando sentono che una qualsiasi forza vuole impedir loro di divorare tutto quello che bramano” (p. 73).
Caucaso, dicembre 1942: “Durante la discesa H. raccontò della fucilazione di alcuni partigiani. Sentii ridere l'interprete vicino a noi. Lo guardai bene in faccia. Mi parve di scorgere quel non so che di incartapecorito nella pelle e quella fissità dello sguardo che ho riscontrati tante volte nei visi dei sanguinari. L'automatica abitudine di uccidere provoca le stesse devastazioni fisionomiche che provoca l'automatismo nella pratica della vita sessuale” (p. 186). Germania, novembre 1943: “Quando in Russia si cominciarono a bruciare le chiese e in Germania le sinagoghe, quando si gettarono i propri simili nei campi di concentramento senza ragione e senza processo legale, allora si capì quel che doveva accadere. Si era giunti al punto in cui le cose gridano vendetta al cospetto del cielo” (p. 367).
Caucaso, fine 1942: “Chi ha conosciuto certi singoli destini e considera quali siano le proporzioni delle stragi, che si consumano in questi nidi di carnefici, si sente naufragare in un mare di sofferenza senza speranza. Allora mi assale lo schifo delle uniformi, delle spalline, delle decorazioni, del vino, delle armi, di cui un tempo tanto amai lo splendore. La vecchia cavalleria (…) è finita per sempre” (pp. 198-199). Questo, spiega EJ, è il tempo della paura e della tecnica:
“Col massacro della borghesia russa, dopo il 1917, e con l'assassinio sistematico di milioni di persone chiuse nelle cantine (avvenimenti di cui oggi si sono poi vantati), il piccolo borghese tedesco è stato preso dal panico, e si è fatto terribile. E così è venuto da destra quel che minacciava, in una forma ancora più spaventosa, la sinistra. (…). L'uomo si sente in una grande macchina, da cui non può scappare. Dappertutto regna la paura; l'oscuramento, la smania grottesca di tenere tutto segreto, la diffidenza che regna dovunque, sono tutte manifestazioni di questa paura. Il sospetto avvelena qualsiasi incontro e si manifesta già al primo saluto” (p. 200).
Parigi, maggio 1944: altra memoria delle atrocità comuniste. “(...) Manuale dei Partigiani, nella terza edizione del 1942, un prontuario di battaglia russo. Quivi, nel capitolo “ricognizioni”, si legge che i cadaveri dei nemici devono essere 'mimetizzati'. Ingegnoso sinonimo per seppellire” (p. 418).
Eppure (Parigi, 1943): “Mi accade di imbattermi in persone, anche donne, che si vantano di non essere affatto turbate dalla crudeltà, e, in particolare, dalle uccisioni in massa dei nostri tempi; vi vedono, anzi, qualcosa di comprensibile, di naturale, di desiderabile, anche, di famigliare” (p. 251).
Informazioni su quanto accadeva agli ebrei non mancavano. Germania, giugno 1943: “Sembra che la resistenza degli ebrei nel ghetto di Varsavia sia terminata con il loro annientamento. Sono avvenimenti, questi, sui quali soltanto il tempo farà luce. Per la prima volta, essi hanno qui combattuto come contro Tito, o come durante le persecuzioni delle Crociate. Come sempre (…), anche ora alcune centinaia di tedeschi si sarebbero messi dalla loro parte” (p. 274).
Parigi, ottobre 1943: “Frattanto affluiscono di continuo dai paesi occupati sempre nuovi ebrei. Per eliminarli, sono stati costruiti, vicino ai ghetti, alcuni forni crematori. Le vittime vi vengono portate in automobili che si dice siano una trovata del nichilista capo Heydrich: in esse il gas dello scappamento è portato nell'interno, tramutato così in cella mortuaria. Si dice che ci sia una seconda maniera di maciullare le vittime: denudate, prima della cremazione vengono condotte su una grande lastra di ferro, nella quale viene immessa una corrente ad alta tensione. Si è passati a questo metodo, perché si è visto come gli uomini della SS destinati a sparare alla nuca abbiano subito alienazioni mentali e si siano, alla fine, rifiutati di eseguire gli ordini. Per questi forni crematori abbisogna poco personale; qui, effettuano il loro lavoro una sorta di infernali mostri e garzoni. Qui, dunque, scompaiono in massa quegli ebrei che, con la scusa del trasferimento, vengono spediti da ogni parte d'Europa” (p. 351).
Peccato manchino tanti vecchi documenti. Sembra che EJ li abbia bruciati dopo una perquisizione in casa avvenuta nei primi anni Trenta. In questo passo spiega perché. Parigi, settembre 1943: “Credo si cercassero in casa mia lettere del vecchio anarchico Mühsam, che era allora acceso per me da una puerile simpatia, e che poi fu ucciso in maniera tanto spaventosa. Egli era uno dei migliori e più bonari uomini che abbia mai incontrati” (pp. 329-330)
Francia, agosto 1944. EJ ha ricevuto la notizia che Hitler vuole distruggere Parigi prima di ritirare le truppe. “Egli è senza dubbio l'uomo che ha decretato il più gran numero di uccisioni e di distruzioni conosciute nella storia. Certo, tutto questo doveva precedere una svalutazione dell'uomo e una minorazione della sostanza sacra. Siffatti spiriti di volpi e di iene si fanno avanti soltanto dove c'è odore di cadavere” (p. 450).
Conclusione? Germania, marzo 1945. Dopo terrificanti bombardamenti, dei quali parleremo a breve: “Si deve anche tener presente che questi macelli producono soddisfazione in alcune parti del mondo. La situazione del tedesco è oggi del tutto simile a quella dell'ebreo, una volta, in Germania. Tuttavia, meglio questo che vederlo padrone di una forza ingiusta. Alla sua miseria si può prendere parte” (p. 519). Ecco: EJ aveva le idee eccezionalmente chiare sul senso delle tragedie comandate dal nazismo e da Hitler e sulle nefaste e mostruose conseguenze sofferte dai tedeschi tutti. Ed era così pieno di vergogna e di dolore per quanto accaduto che domandava miseria piuttosto che grandezza per il suo popolo. Impressionante.
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Bombardamenti. Purtroppo in Italia, come in Germania, ne sappiamo sinceramente poco. È per una strana forma di pudore nei confronti delle forze alleate se, sin qua, non mi sembra siano state prodotte opere letterarie o saggistiche di qualità destinate a far luce sul senso, sui significati, sul numero reale delle vittime e sui danni prodotti dai bombardamenti angloamericani. Ecco dunque che le testimonianze raccolte nel momento da EJ si rivelano straordinariamente potenti.
Partiamo da quando annota in Germania, nell'ottobre 1942: “A mezzogiorno sono passato per Colonia. Dal vagone ristorante ho visto i suoi quartieri distrutti. Tutte queste case e file di case in rovina assumono la cupa grandezza di palazzi, una grandezza che non ha niente a che vedere con la loro vita di un tempo. Ci si passa in fretta davanti, come se fosse un mondo più alto e più freddo. Ivi dimora la morte. Anche Dusseldorf aveva un aspetto triste. Le rovine recenti e le molte chiazze rosse sui tetti ricordavano il fuoco caduto dal cielo. Anche questo è uno dei gradini che portano all'americanismo: al posto delle nostre antiche culle, avremo città ideate da ingegneri. Ma forse soltanto greggi di pecore pascoleranno tra le rovine, così come si vede nelle antiche figurazioni del Foro Romano” (p. 155). Parigi, luglio 1943. Notizie da Hannover. “Il centro della città è stato devastato; sono crollati il Teatro dell'Opera, il Castello Leine, la Chiesa del Mercato, con gran parte dei vecchi vicoli e delle loro case Rinascimento e Barocco. Finora non è riuscita a sapere niente dei suoi genitori. Mai mi è stato altrettanto evidente, come leggendo queste righe, che le città sono sogni. Facili a svanire quando il giorno albeggia, vivono tuttavia ancora nel nostro intimo con un'insospettata e tangibile intensità. Di fronte a questo, come di fronte ad alcuni altri avvenimenti dei nostri giorni, mi accade come se vedessi in fiamme, dinanzi a una cena, un sipario bellamente dipinto in prospettiva, ma che tuttavia proprio così mi si rivelasse la profondità dinanzi alla cui invulnerabilità esso tremava” (p. 301).
Parigi, settembre 1943. “Così il dottor Otte di Amburgo mi scrive che il 30 luglio è stata distrutta, assieme coll'intero mercato del pesce, anche la sua farmacia. Con essa sono scomparsi tutti i beni passati in eredità dai tempi del bisnonno e i locali dove teneva i suoi documenti su Kubin. Ora ha improvvisato una farmacia di fortuna in una tabaccheria: 'Mi basta soltanto di non andarmene da Amburgo. Io devo vivere qui, se no muoio'”. (pp. 322-323)
Parigi, ottobre 1943. “Si annuncia un nuovo attacco aereo su Hannover, questa volta pare con fosforo. Così l'ansia ci perseguita come un'ombra. La diabolica speranza di 'rappresaglia' nutrita dalla propaganda sogna mezzi per la completa distruzione, come per esempio la pioggia di fuoco, il raggelamento, grandinate di esplosivo e batterie di razzi, sotto il cui effetto intere popolazioni dovrebbero venire sterminate. Così, di recente, un parroco me l'ha riferito per certo”. (pp. 346-347).
Parigi, novembre 1943. Si parla di Amburgo. “Nei quartieri in fiamme la gente è miseramente perita, in gran parte soffocata dalla mancanza d'aria, in parte perché l'ossido di carbonio ha invaso le cantine. Da questi particolari si può comprendere meglio il numero delle vittime. Similmente a quel che riferisce Plinio descrivendo la distruzione di Pompei, una mostruosa nuvola di cenere faceva della città del giorno notte” (pp. 263)
Germania, dicembre 1944. Si parla di Friburgo; in venti minuti, un'incursione ha distrutto la vecchia e bella città. Venti minuti.
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Come spesso accade nella produzione di Jünger, appaiono qua e là passi dal sapore aforistico. Si sente vivere la lezione del suo amato Rivarol, rinnovata e adeguata al proprio tempo, e alla propria personalità. Ne ho scelti diversi. Partiamo da uno dal sapore immortale: “Ciò che non ci toglie la vita, ci rende più forti; ciò che ci toglie la vita, ci rende immensamente forti” (p. 48). Questo è un buon esempio di spiritualità.
Sulla prosa: “La buona prosa è come il vino: continua, come quello, a vivere anche dopo che è stato riposto in cantina. Così vi sono frasi che non sono ancora vere, ma che, da una loro intima vita segreta, vengono portate alla verità. Inoltre, la prosa fresca è ancora un po' ruvida: soltanto il volger degli anni le dona la patina adatta” (p. 239)
Sullo stile: “Lo stile si basa, in fondo, sulla giustizia. Soltanto il giusto può sapere come va pesata la parola, la frase. Per questa ragione non si vedranno mai le penne migliori al servizio di una cattiva causa” (p. 75).
Sui manoscritti: “Il manoscritto è simile a una figura magica, nella completazione della quale sta il lavoro vero e proprio. Le migliaia di esemplari, nei quali poi si diffonde, sono soltanto repliche” (p. 357).
Sulla popolarità: “La popolarità è una malattia, che minaccia di farsi tanto più cronica quanto più avanti negli anni si rivela” (p. 299).
Sui celti e sulle antiche etnie: “Cosa ci può essere in noi ancora di celtico? Come in castelli, frammenti di vecchie architetture, così nelle nazioni sono intessuti elementi di stirpi estinte. In sogno, si accostano al nostro letto dimenticate nutrici” (p. 420).
Sul dolore: “Il dolore è come una pioggia, che si disperde dapprima nella sua massa per poi penetrare lentamente nel terreno. Lo spirito non lo comprende tutto in una volta. Siamo ora entrati a far parte anche della vera, dell'unica comunità di questa guerra, nella sua segreta confraternita” (p. 496).
Pizzicata misogina: “Dagli esseri umani possiamo esigere soltanto quel che possono dare. Così dalle donne, amore e non giustizia” (p. 50).
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“Irradiazioni”, infine e soprattutto, è il grande libro delle letture, delle reminiscenze, degli studi e degli omaggi letterari di EJ. Siamo di fronte a un lettore formidabile, estremamente erudito ma mai noioso e autoreferenziale, che con pazienza e amore annota tutti i libri acquistati, ricevuti in prestito, glossati e criticati. L'elenco completo pretenderebbe molte pagine di questo articolo; mi limito a una (ricca) selezione di quanto – di quanti – troverete nominati nell'opera, in più di un frangente.
Paul Morand (“Vie de Guy de Maupassant”); Conan Doyle, meditando che “La nostra vita dura settant'anni”; Proust; il “Malleus Maleficarum” di Sprenger; Poe, Melville, Holderlin, Tocqueville, Dostoevskij, Burckhardt, Nietzsche, Rimbaud, Conrad, Leon Bloy (amato e odiato), Kierkegaard, Huxley, Jules Lermina (“Reine”), Gide, Voltaire (con pellegrinaggio alla tomba), Anatole France (“Sopra la pietra bianca”), Giono (“Pour saluer Melville”), Thomas Mann (“Un giorno nella vita del vecchio Goethe”), Drieu La Rochelle (incontrato e ricordato post suo suicidio, come uomo giusto: p. 453), Malraux (“La condizione umana”), Huysman (“A vau l'eau” e altri), Remi Quinton (“Le massime”), Cocteau (caro amico), Boissiere (“Fumée d'opium”), Goncourt (“La Faustin”), Kubin (“L'altra parte”), Louis Thomas (“Le général De Galliffet”), Chamfort, Gogol (“Anime morte”), le novelle di Tolstoj, James Riley (“Il naufragio del brigantino americano”), l'abate Profillette (“Le martyrologie de l'église du Japon”), Lautreamont, Montherlant (“Le jeune fille”), Picasso, Hans Jakob, Renan (“La vita di Gesù”), Robert de Traz (“La famiglia Bronte”), Schlegel (“Lucinde”), Byron, Defoe, la povera Mansfield, Erdmannsdorfer (“Mirabeau”), Maria Gévers (“Plaisir des météores”), Friedrich Georg (“Passeggiate nell'isola di Rodi” e “Lettere da Mondello”), Horst Lange (“Il fuoco fatuo”), Trakl, Kafka, Kipling (“Storie semplici”), Lons (“Il lupo mannaro”), Goncourt, Céline (con memorie dei suoi rapporti con le prostitute, che avrebbe dovuto curare, e di come sperperava il denaro), Faulkner (“Pylon”), Washington Irving, Rozanov (unico russo che sente profondamente vicino). Unico italiano, Silvio Pellico.
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“Nelle lettere degli ostaggi fucilati che sto traducendo, come documenti per i tempi futuri, vedo che le due parole più frequenti sono 'coraggio' e 'amore'. Forse più frequente ancora è 'addio'. Sembra che in queste condizioni l'uomo senta benissimo nel cuore una forza benedicente e una sovrabbondanza, e comprenda la propria missione come quella di una vittima, di un donatore” (Parigi, dicembre 1941; p. 58).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Ernst Jünger (Heidelberg, 1895 - Wilflingen, 1998), scrittore e filosofo tedesco. Esordì pubblicando “Nelle tempeste d'acciaio” nel 1920. Studiò Filosofia e Scienze Naturali a Lipsia.
Ernst Jünger, “Irradiazioni. Diario 1941-1945”, Guanda, Parma, 1983. Traduzione di Henry Furst. Collana “Biblioteca della Fenice”.
Prima edizione: “Strahlungen”, 1955.
Approfondimento in rete: WIKI It
Gianfranco Franchi, gennaio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.