Alacran
2010
9788863610239
Primo romanzo di Mauro Garofalo, giornalista e scrittore capitolino classe 1974, alle spalle un fortunato libro-intervista con Morgan (“In pArte Morgan”, Eleuthera 2009), “Iolavorointivu” (Alacran) è una vita agra catodica e ribelle, dominata da una impressionante capacità di assimilazione del lessico ultrainglese dell'informatica, del marketing e della comunicazione, capace d'essere a un tempo libro satirico di denuncia delle condizioni dei cittadini lavoratori nelle aziende contemporanee, a un tempo libro drammatico di sintesi e trasfigurazione delle nuove forme di alienazione contemporanea, a un tempo diario di ascolti, visioni, letture ed esperienze. È un romanzo in cui molto spesso il narratore prende e riflette sul proprio linguaggio, osservando in più di un frangente che certo lessico sembra più un codice per addetti ai lavori che parola viva, vera e condivisa. È una storia in cui un trentenne si domanda perché abbia deciso di abbracciare professionalmente qualcosa di estraneo, e perché abbia deciso di abbracciare un mestiere senza contratto, né prospettiva, né aspettativa diversa dalla sopravvivenza, in linea di massima. La risposta a questa domanda la conoscono la stragrande maggioranza dei lavoratori nati negli anni Settanta e Ottanta: perché molto spesso non c'è alternativa. Siamo a questo punto. Di non ritorno.
Mauro Garofalo ci insegna cosa significa fare televisione. “Significa creare l'immagine. Di chiunque, e in qualsiasi modo” (p. 16). La cosa importante, in realtà, non è “dare contenuti ai format: la cosa importare è riempirli, a qualunque costo” (p. 82).
Lavorare in televisione significa, dopo un po' di tempo, “ragionare solo in funzione del programma” (p. 62): ne sarà contenta la Direzione. Man mano, il lavoratore capisce che “Non riesco a fare altro che lavorare. Ogni altra cosa mi sembra una distrazione” (p. 77). Ancora: “Si lavora molto, a volte anche fino a sera tardi. Le serate non sono tutte uguali, però. C'è quella in cui va via la luce, e tutti gli studi televisivi sono al buio con gente che scherza sull'imminente attacco terroristico e millanta di conoscere il proprio lavoro, mentre io invece vedo solo tutte le lacune lasciate dagli anni. Altre sere invece hanno tutti qualcos'altro da fare, tranne te […]. E poi ci sono i giorni, come questo, in cui non solo non mi va di parlare ma mi sto proprio rompendo i coglioni” (p. 25).
A forza di lavorare – e di concentrare ogni proprio pensiero sul lavoro, qualche distrazione a parte – il professionista della tv sente di non avere quasi più bisogno di dormire. “Allora dormo cinque, sei ore, mai di fila. Inizio anche a vantarmene. Tra qualche anno anch'io potrò arrivare a dormire tre ore per notte, e così ridurre drasticamente questa mia dipendenza inefficiente. Ma la mia è una ribellione scientifica. Otto ore al giorno sono otto su ventiquattro, divisibile per otto. Uno su tre. In media passiamo un terzo della nostra vita a letto. Allora mi voglio educare a dormire il necessario. Come nelle migliori pratiche zen” (p. 31). E certo.
Non basta. Garofalo scrive che lavori talmente tanto che ti identifichi col prodotto che vai assemblando, e perdi ogni forma di creatività. Le giornate diventano una forma di ripetizione di “gesti consueti, fabbricati con il solo scopo di essere produttivo” (p. 33). E la vita del pensiero non ne è immune. Garofalo spiega che il sovrapprezzo si paga anche in questo ambito. Insomma, non rimane più spazio. Non c'è più nessuna voglia di lavorare piano. Altro che “Lavorare con lentezza”. Morale della favola: “La tivu non rende solo alienati. Tutto ciò che potrebbe distrarti lo elimini mentalmente, fai finta che non esista. Lo rimuovi. E questa non è alienazione. Devi. Diventare. Uno. Stronzo. Egoista. Si tratta semplicemente di questo” (p. 69).
Contratto o meno – il contratto è bello che sia così, è più avventuroso: una chimera, una leggenda dei nostri padri, una fantasia onirica – il narratore del romanzo è una partitaiva. E come partitaiva sa che paga il 47% di tasse al governo. Non ha diritto alla malattia. Non ha ferie pagate. Nessuno gli versa i contributi. Non ha altro dio all'infuori di lui. Intanto fa almeno due lavori, per riuscire a guadagnare una condizione di vita almeno dignitosa. Già, quale dignità profonda e incontrovertibile, quella della sparizione del pensiero puro, quella della chiusura in stanza, pensando ai programmi del giorno dopo. Così vanno le cose.
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Incontriamo il narratore. È uno che ama l'illusione dell'anarchia applicata. E odia i sogni e la televisione (si sarà inteso). È fidanzato, e si direbbe sereno della sua vita di coppia. Lei non è un diversivo, è qualcosa di fondamentale. Con le altre persone, sa di essere “bravo a deludere” le aspettative (p. 27). Ha spesso la sensazione di girare a vuoto. Ha capito che l'unica cosa che valga la pena dire è “grazie” (p. 42). Sarà che come secondo lavoro fa il PR.
Non ama l'autorità. Non sa parlare con l'autorità. Sa che l'autorità non ha bisogno di conferme e smentite. L'autorità è, semplicemente. D'altra parte lui è stato ufficio stampa di un gruppo rock e quindi ha interiorizzato qualche aspetto cardine. Che altro? Fisicamente somiglia a Lo Cascio. Non ne è del tutto contento, perché questa cosa non lo aiuta a mimetizzarsi. Invece mimetizzarsi è fondamentale, perché “scomparire è un'arma per pochi” (p. 45). E così forse può riuscire a parlare con le persone, non con i “ruoli”. È da un pezzo che ha la sensazione di stare là a parlare con “ruoli”, non con nomi e cognomi. Purtroppo questa cosa succede di default, non random. Curioso.
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Che c'è di buono nell'esperienza trasfigurata in questo libro? I pochi colleghi individuati col nome, guarda caso, come Karim e Solly. Sono due esseri umani vivi, intelligenti, sensibili e collaborativi. Scintillano in uno scenario di miseria spirituale incontenibile, a dispetto della relativa semplicità delle loro interazioni. Tutto il resto è indifferenza, lassismo, superficialità. Plastica.
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L'io narrante del romanzo di Mauro Garofalo è un creativo che prova ad applicare la sua fantasia, la sua conoscenza e la sua intelligenza alla televisione, illudendosi forse che la fusione tra web e tv possa dar vita a qualcosa di diversamente democratico, credibile, umano (spendiamola, la categoria dell'umanità, è ora). In un certo senso, da questo punto di vista, è un idealista; un rivoluzionario che prova a entrare in una casamatta per far cambiare rotta a qualcosa, a qualcuno. Naturalmente, fallisce. Fallisce non perché sia creativo, non perché sia più o meno umile, o più o meno duttile. Fallisce non per le sue competenze informatiche, e non per la sua abnorme passione per le tecnologie. Fallisce perché non può che essere così.
Perché è entrato in una dimensione reale che assomiglia troppo al virtuale. E non solo perché hanno smesso di girare soldi. Fallisce perché sta sperimentando cosa significhi perdere l'invulnerabilità dell'adolescenza e della giovinezza, quel momento in cui tutto sembrava possibile, a portata di mano, bastava servirsi della propria intelligenza e comportarsi nel modo giusto e alè, tutto sarebbe cambiato. Fallisce perché, pur con tutta la sua dedizione al lavoro, rimane se stesso. Scelta sacrosanta, ma scelta costosa. Fallisce perché è un outsider, e agli outsider piace pensare alla poetica della battaglia, o al limite della sconfitta, non allo psicodramma metamorfico del successo.
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Credo in questo libro da quando era virtuale. Da quando ho potuto leggerne le prime bozze, tempo fa. Credo in questo libro e nella personalità autoriale, da scrittore e da giornalista, di Mauro Garofalo. Credo in questo libro e nella possibilità che possa evitare la perdita di qualche mese di vita, a costo zero o giù di lì, a parecchi laureati in scienze della comunicazione o in lettere; l'alternativa, e cioè l'invenzione quotidiana delle proprie giornate, prevede almeno una buona parte di tempo dedicata a qualcosa di personale e di creativo. Certo, è disorientante e stomacante perdere il lavoro per troppo tempo. Ti sbalestra. Ma forse è più disorientante ancora decidere di annullarsi senza che i propri sacrifici vengano riconosciuti. Escludo che questa vita agra catodica possa costituire un invito a entrare nel favoloso mondo dei contenuti televisivi. Sono convinto, invece, che invecchiando diventerà un documento; un documento dello stato dell'arte della tecnologia nel 2010, e della fatiscente e indegna condizione dei lavoratori del nostro tempo; un documento della trasformazione in corso della lingua italiana; un documento dell'alienazione nuovissima che stiamo conoscendo. Somiglia a qualcosa d'antico eppure è nuova, servirà nominarla a dovere per poterla governare, decifrare e rovesciare. A questo serve, e servirà, il libro di Mauro.
Buona la prima.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Mauro Garofalo (Roma, 1974), giornalista, reporter e scrittore italiano. Collabora con Il Sole 24 Ore-Nòva sui temi dell'underground; ha scritto format scientifico-tecnologici per la RAI. Ha seguito, come inviato, Subsonica e Baustelle.
Mauro Garofalo, “Iolavorointivu”, Alacran, Milano 2010.
Gianfranco Franchi, giugno 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.