Iperborea
2003
9788870911121
Esordio dell’allora giovanissima (appena venticinquenne) Hrafnhildur Hagalín, “Io sono il Maestro” è un dramma breve in cinque atti. Tre personaggi, una sola stanza. Due ex studenti del Conservatorio, diplomati in chitarra classica, convivono. La ragazza, Hildur, è una ex bambina prodigio. Adesso veste elegante, insegna musica ai bambini e non si esercita più. Fuma per immaginare d’essere fumo, per tornare ad essere leggera. Crede che nessuno possa diventare un genio se non fa nulla. Il suo compagno, Thór, è ambizioso e presuntuoso. Non ha il talento e la velocità d’esecuzione di Hildur, può soltanto ammirare le sue mani e invidiare il suo spirito. Crede che un artista sconosciuto non sia nemmeno un artista. E che nessuno sia abbastanza bravo per arrivare secondo. Sono poveri. Passano le giornate a parlare del loro amore, dell’insegnamento, della musica, della vita sognata che sembra non voler cominciare. Apparentemente.
Hildur sembra volersi rifugiare nella mediocrità e volersi drogare d’abitudinarietà per dimenticare d’aver talento, e d’essere musica. Non sembra innamorata del suo compagno: sembra volere assecondare la sua predisposizione al possesso. Thór intuisce e adora l’arte di Hildur: ma sente di poterla e doverla controllare e dominare. Non potendo interiorizzarla e rinnovarla, intende neutralizzarla e spegnerla. L’invidia dell’artigiano sta uccidendo l’artista. Assopita in una camera senza colore e senza finestre, cristallizzata nell’attesa di sublimarsi in fumo, come il messianico Perelà di Palazzeschi, Hildur lascia che Thór si nutra della sua carne e dei suoi sogni.
Ambizione soffoca arte e annichilisce amore; l’irrefrenabile e atroce gioia del disordine, nel momento del ritorno dell’antico Maestro, scardina equilibri e pregiudica la quiete: per intervalli di memoria e di coscienza, Hildur torna ad essere quel che poteva e doveva divenire.
Il Maestro parla con tono musicale e suadente. Ha una rosa nascosta dietro la schiena. Lei era sua allieva da quando aveva sei anni. Le diceva: “Quando suoni, tu sei la musica”. Il Maestro è un daimon, e un mentitore. Torna nelle esistenze dei suoi allievi per restituire Hildur all’arte, e affidare Thór alle volgari lusinghe della contemporaneità, e consegnarlo al mondo.
Sostiene che sua moglie se ne sia andata con un musicista, poi divenuto un rilegatore di libri, quindi daccapo un musicista. In ogni caso, non ne soffre. Cerca ospitalità per qualche giorno. Il Maestro sembra essere un vagabondo in incognito: tornato dall’unica allieva che avesse mai amato, dall’unica in cui si fosse riconosciuto, prima di concludere la sua parabola esistenziale.
HILDUR: (freddamente) E i tuoi allievi? (un breve silenzio)
MAESTRO: (finisce il drink) Senza speranza.
HILDUR: Non è straordinario? Sembra che sia un trend quello degli studenti di oggi, essere senza speranza. Una specie di ultima moda dei senza speranza.
MAESTRO: È una moda eterna. Era, è e sarà. (un breve silenzio). C’è solo una persona nell’arco di una vita che giustifica tutte le altre. Solo una che tieni in un posto segreto del cuore. Ed è questa persona che cerchi quando ti chiedi perché. (Atto II, p. 31)
Danzano un valzer, Maestro e allieva: è la danza del Minotauro che riconosce la sua immagine proiettata in uno specchio (in uno spettro): e quando Hildur suona, suona con tutto il suo corpo; suona la tenerezza, leggera e soffice, come una nuvola. Creature di fumo si riconoscono e s’appartengono: derivano da una comune origine, eternità, e il senso dell’esistenza è immortalità. Thór può parlare di musica. Può scriverne, e può eseguirla. Non essere: avere. Il Maestro e Hildur conoscono il precoce codice di Dio: il loro spirito esiste per aderire alla Musica, per essere e rivelare. Liberarsi infine dalle pastoie della carne: sono creature di fede.
MAESTRO: La fede pesa sulle spalle di ogni uomo pensante. La fede unisce e non divide, come le scarpe che ancorano gli uomini alla terra. Troppa libertà può essere dannosa. Tu capisci. (Atto II, p. 48)
Il Maestro ha la strana abitudine d’indossare scarpe colorate e stravaganti, preferendo non privarsene neppure quando dorme. Perché altrimenti tornerebbe a essere una nuvola. Ripete che l’artista deve dare la vita per l’arte. Le scarpe soltanto possono uncinarlo alla terra. È un’illusione deliziosa. Ogni mattina, parla con Dio della musica. Hildur ascolta il messaggio del Maestro. Due concerti, da lì a un mese, da tenere a Londra. Non accetta. Non sente più volontà, è prigioniera dell’abitudine. Il Maestro ricorda che la volontà può spezzare l’abitudine, e svincolare dalla prigionia dei ricordi. Deve tornare a suonare: sospendersi nel non luogo che loro appartiene da sempre. Esistere e scintillare di luce, come musica. E abbandonare il suo compagno, geloso del talento, dell’arte, della bellezza di lei: geloso del Maestro, e della misteriosa e splendida comprensione che li unisce. Incapace d’altro che non sia possesso, e culto dell’immagine.
Thór si sente solo. Vorrebbe che le mura fossero vive per poterle picchiare. Infine, nella frattura che separerà – per incolmabile divario esistenziale ed estetico – i due ex allievi ed ex innamorati, il sorriso del daimon menzognero: i concerti di Londra non erano mai esistiti, e la sua presenza aveva senso perché lo spirito della musica tornasse a dominare Hildur. Reminiscenza governa rotta e intreccia destini: arte come ponte per liberazione, conoscenza, dominio della volontà. Essere musica: come Dio.
MAESTRO: La chitarra è come una donna. La tieni fra le braccia. È nuda e silenziosa. Hai una completa familiarità con lei, con le parti più segrete del suo corpo, coi suoi punti più sensibili. La guardi per un attimo, poi chiudi gli occhi. Non hai bisogno di guardarla. La conosci a occhi chiusi. Inizialmente la sfiori con cautela, attento a non disturbarla. Lei è in silenzio. Poi cominci a giocarci. La tocchi, la accarezzi dappertutto e lei comincia a cantare, è in tuo potere. Puoi fare di lei quello che vuoi, puoi farla ridere, sospirare, miagolare, sussurrare, e il suo canto è il riflesso del tuo tocco. Lei canta il tuo tocco. Tutto questo è la chitarra» (Atto II, p. 44)
A proposito del teatro in Islanda, Maifredi nota, nella premessa: “Reykjavík ha una popolazione di circa centomila abitanti e i biglietti venduti a teatro sono quattrocentomila ogni anno. Quattro biglietti per ogni abitante. Qui il teatro è necessario. Necessario per salvare una lingua millenaria, parlata da 285mila persone, che rischia di essere spazzata via dall’inglese. E i drammaturghi islandesi sono in prima linea in questa battaglia, così come i teatri che della drammaturgia nazionale fanno l’ossatura portante della loro programmazione e come il pubblico che va a teatro chiedendo storie nuove” (p. 9)
È una tradizione, quella del teatro, profondamente radicata nella cultura islandese: Einarsson, nel saggio ospitato in appendice, ricorda che la parola leikari, “attore”, viene menzionata nel più antico testo giuridico islandese, risalente alla prima metà del XII secolo.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Hrafnhildur Hagalín (Reykjavík, 1965), scrittrice islandese. Diplomata in chitarra classica, studia Letteratura francese alla Sorbona.
Hrafnhildur Hagalín “Io sono il Maestro”, Iperborea, Milano, 2003. Traduzione dall’islandese di Cristina Argenti e Silvia Cosimini. Premessa di Sergio Maifredi. In appendice: “Il teatro in Islanda”, di Sveinn Einarsson e “Gli anni recenti” (1975 -2000) di Árni Ibsen. A cura di Sergio Maifredi.
Prima edizione: “Ég er Meistarinn”, Mál og Menning, Reykjavík, 1990.
Questo dramma si è aggiudicato il Premio della Critica Islandese nel 1991 e il Premio Scrittori di Teatro Nordici nel 1992. L’opera è stata rappresentata in Inghilterra, Danimarca, Finlandia, Australia e Stati Uniti.
In Italia, “Io sono il Maestro” ha debuttato al Teatro della Tosse di Genova il 6 maggio 2003, per la regia di Sergio Maifredi. Con Paolo Graziosi, Lisa Galantini, Aldo Ottobrino. Si è trattato del primo copione islandese messo in scena nel nostro Paese.
Gianfranco Franchi, giugno 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.