Formazione scientifica (chimico), professione: editore, traduttore (Weisbecker, Kaufman) e talent scout. Incontriamo Marco Vicentini, anima di Meridiano zero, casa editrice di qualità, orgogliosamente indipendente.
GF: L’attività nasce attorno al 1996, la prima pubblicazione risale al 1998: fase eroica, budget ridotto e tanto entusiasmo, stando alle sue dichiarazioni in proposito. Cosa ricorda in particolare di quel periodo? Cosa sognava Marco Vicentini, decidendo di dedicarsi all’editoria? Quanti di quei sogni ha realizzato, e quanti vorrebbe ancora realizzare?
MV: Il sogno era quello di delineare una linea editoriale che privilegiasse la narrazione di storie, che aiutasse a far riscoprire l’arte della scrittura attraverso la magia della fabulazione.
GF: A chi dobbiamo la scelta del nome della casa editrice? Cosa voleva suggerire, e cosa voleva evocare? Insomma – se c’è una bella storia dietro, questo è il momento di raccontarla.
MV: Non c’è nessuna storia dietro, temo. Ci ho messo circa un anno a scegliere come chiamare la casa editrice, andando in giro con le tasche piene di foglietti dove scrivevo tutti i nomi che mi colpivano. Ricordo che quando ero al cinema, e scarabocchiavo al buio qualche parola che aveva catturato la mia attenzione, poi in genere non riuscivo né a leggerla né a ricordarla, e facevo impossibili ricerche sul dizionario di tutte le parole che collegavo al film per poterla ritrovare. Nessun risultato. Finché non mi ha affascinato l’espressione “meridiano zero” da un testo di Heidegger che leggeva un amico. Ricordo che si avvicinava la fine del millennio e Meridiano zero mi sembrò molto adatto a rappresentare il nuovo inizio di attività.
GF: Esiste – esisteva – un modello per Meridiano zero? Quali sono gli editori o le collane italiane ed europee che più apprezzava? Quali sono gli editor e i consulenti editoriali che riteneva più vicini alla sua idea di editoria? C’era qualcuno a cui voleva ispirarsi, o che avrebbe voluto la affiancasse nel suo progetto?
MV: Non esiste esattamente un modello. Il punto di riferimento erano i miei gusti letterari, rappresentati dalle scelte che ho fatto in questi anni. Editori che ho ammirato molto sono stati Anabasi, che ha chiuso purtroppo molti anni fa e l’inglese Serpent’s Tail, perché l’intervista con il suo fondatore Peter Ayrton, che avevo letto sulla rivista australiana Australian Book Review, mi ha fatto per la prima volta nascere la voglia di provarci.
GF: La collana “Primo Parallelo” è dedicata alla narrativa contemporanea: domando la storia della sua ideazione, gli artisti principali, i rimpianti, le soddisfazioni e le speranze. Tra gli artisti: Balocchi, Bosonetto, Burnside, Donoghue, Kaufman, Mazzitelli, Morici, Shepard, Steinke, Weisbecker.
MV: La collana “Primo Parallelo” è il naturale prolungamento di quella noir: leggevo troppi libri che volevo – ma non potevo – pubblicare, non avendo una collana di narrativa. E quando ci ho provato ugualmente, come nel caso dell’esordio di Andrej Longo, con “Più o meno alle tre”, quel libro in molte librerie è finito tra i gialli, per l’automatica attribuzione in funzione della collana. Le delusioni sono quelle legate agli autori che secondo me potevano rappresentare delle vere e proprie scoperte, come Jack Allen o Susan Musgrave, che purtroppo non hanno avuto le vendite travolgenti che avrebbero meritato. Le soddisfazioni sono invece dovute al caso opposto, ai pareri entusiasti di chi ha scoperto Carrino con “Acqua Storta” e le quattro ristampe che ne abbiamo fatto in 3 mesi.
GF: Qual è la storia della (seducente) collana “Questa non è un pipa”? Perché è stata sospesa? C’è qualche opera, in particolare, che vorrebbe restituire all’attenzione del pubblico? Nel catalogo, al di là di Audiberti, mi sembra scintillino un France d’antan (“La rivolta degli angeli”) e l’esordio di Permunian, idolatrato dalla critica. Sempre reperibili?
MV: La collana “Questa non è una pipa” purtroppo ha avuto poca fortuna presso i lettori: non ha venduto molto (eufemismo che immagino tutti sapranno leggere correttamente). Una curiosità che mi è rimasta è quella relativa all’impressione che ne potevano aver ricavato i lettori forti. Voglio dire che la collana era chiaramente diretta a loro, non al pubblico generalista, a chi è interessato a scoprire piccole chicche letterarie anche presso i piccoli editori, e non solo con i grandi. Non ho mai capito se fosse la proposta a non essere ritenuta interessante o se era il solito problema di scarsa circolazione delle informazioni. I libri della collana sono ancora tutti reperibili perché cerco di rimandare il più possibile il momento (inevitabile) di inviarli al macero. Ha tutto il sapore di una condanna a morte, il macero, che cerco di rimandare all’infinito.
GF: Vicentini traduttore: c’è qualche sorpresa in arrivo? Cosa le è rimasto di queste esperienze? Che rapporto ha avuto con gli autori?
MV: Sì, c’è un libro che dovrebbe essere pronto tra poco, ma dipende molto dalla mia capacità di staccarmi dagli altri lavori e pensare solo alla traduzione. Non lo nomino per pura scaramanzia, nella speranza di riuscire a dedicarmici completamente e poterlo annunciare fra poco. Il rapporto con gli autori è molto stimolante: molte volte si parte dalla richiesta di un piccolo chiarimento su una scena o una frase e si finisce con il discutere delle diverse realtà e modi di esprimere i concetti nelle nostre lingue. Sono sempre pronti a spiegare tutto il processo che li ha portati a fare certe scelte o a decidere di saltare o evidenziare determinati passaggi narrativi. Discutendo con loro si intravede anche la differenza tra quello che intendevano in realtà trasmettere e quello che viene percepito dal lettore. E infine si capisce che certi problemi editoriali non sono solo italiani: alcuni autori non hanno conosciuto nessun intervento di editing nell’edizione originale e sono grati del suggerimento di interventi chiarificatori.
GF: Collana “Meridianonero”, colonna portante della casa editrice: domando la storia dell’ideazione, gli artisti di riferimento, i rimpianti, le soddisfazioni e le speranze.
MV: L’ideazione parte dal mio grande amore per il noir, quello che affonda le sue radici nel cinema noir francese, poi trasmigrato nella narrativa di genere americana, e che conta principalmente sull’atmosfera e sul ritmo, non invece sulla violenza e sulle sue esasperate descrizioni, come spesso veniva frainteso in Italia. È per questo che ho pubblicato nella collana noir alcuni capolavori come “La fiera dei serpenti” di Harry Crews, un libro apparso invece come ‘narrativa’ negli USA, ma che ha le atmosfere plumbee e la tensione drammatica che sono il vero spirito del noir. Gli artisti di riferimento sono Derek Raymond, Hugues Pagan, Harry Crews e molti altri. I rimpianti sono dovuti alla lentezza nel far scoprire e apprezzare autori come il già citato Crews o Buddy Giovinazzo, le speranze sono di poter comunque arrivarci in breve tempo.
GF: Distribuzione e promozione: vi affidate rispettivamente a PDE e PEA. Siete soddisfatti della visibilità garantita da questi gruppi? Ritenete che esistano disparità – questione-cardine della tiratura a parte – nel trattamento riservato agli editori piccoli e medi di qualità, nelle librerie, rispetto ai quattro grandi gruppi? Quali sono le responsabilità, in questo senso, e quali le prospettive?
MV: Sono soddisfatto della promozione e distribuzione, ma la visibilità non sono loro che la garantiscono: sono le librerie. E ci sono certamente grosse disparità nel trattamento riservato agli editori piccoli e grandi, ma non mi sembra corretto parlare di responsabilità. La responsabilità delle librerie è di far funzionare bene un esercizio commerciale, badando – come fanno effettivamente – a privilegiare i libri che hanno un’alta rotazione di magazzino. Le responsabilità di tipo culturale non fanno parte dei compiti della libreria, sono un quid pluris che consente di esercitare una funzione culturale e di curare un certo tipo di clientela (un po’ come le sale cinematografiche… che sono esercizi commerciali, e la scelta di essere una sala d’essai o commerciale dipende dalle politiche di ognuno, – che partono spesso dalle passioni personali, certo). A una parte di lettori (la più piccola, purtroppo) fa piacere ricordare quando le aziende che operavano nel mercato editoriale, fossero librerie o case editrici, erano dirette e portate avanti da persone che oltre alla finalità commerciale avevano degli obiettivi culturali prioritari. La situazione è cambiata per effetto del mercato: saltando le analisi delle probabili cause economiche e sociali che ci porterebbe via troppo spazio (e tempo), il mercato è comunque diventato così asfittico che ora chi privilegia l’aspetto culturale non riesce a trovare una base di lettori sufficientemente ampia (il consenso che ha portato alla nascita trionfale della Adelphi, in questi anni temo non sarebbe possibile). Noto en passant che è lo stesso fenomeno alla radice del deperimento culturale del cinema, della musica, della televisione, del fumetto…Ci sono così tante sfaccettature che la discussione può diventare immediatamente una torre di Babele, dipendendo da quale aspetto ognuno decida di evidenziare sugli altri, ma secondo me cultura e intrattenimento non sono in contraddizione, bensì possono supportarsi a vicenda. Bisognerebbe però accennare anche alla funzione della comunicazione che è diventata sempre più determinante nel decidere i consumi e le opinioni (da quelle politiche a quelle culturali) di una nazione. La comunicazione, per distinguersi, deve alzare sempre più la voce, attingendo abitualmente a disponibilità finanziarie di cui le piccole aziende (librerie o case editrici) non dispongono. Rispetto a tutte queste componenti, che seguono il mercato e le sue leggi economiche, gli unici che potrebbero decidere di uscire da questa logica – e in quest’ottica forse si potrebbe quindi parlare di responsabilità – sono i lettori (o spettatori di film, o ascoltatori di musica, o fruitori di spettacoli televisivi, o votanti, se mi permettete la deviazione), che potrebbero decidere di non seguire il flusso delle informazioni che proviene dal mercato e elaborarsi un tragitto più personale.
GF: Redattori e collaboratori storici in dieci anni di Meridiano Zero: a chi è rimasto più legato, e chi vorrebbe ricordare? Recentemente, il vostro Cojazzi ha pubblicato un bel romanzo d’esordio: come avete festeggiato la sua affermazione?
MV: Non vorrei fare preferenze perché sono rimasto legato a tutti, senza distinzione, a partire proprio da chi mi ha aiutato nei momenti più difficili, quelli della partenza della casa editrice. Il successo di Cojazzi è stato una grande soddisfazione per tutti noi: ricordo ancora quando, anni fa, mi aveva fatto leggere e avevamo discusso il racconto che poi, con elaborazioni e riscritture è diventato il bel romanzo che è stato pubblicato.
GF: Nel futuro di Meridiano Zero: Le domando qualche anteprima e qualche primizia. Cosa ci aspetta in libreria?
MV: In libreria vi aspetta una piccola rivelazione nell’hard boiled americano, “La gabbia delle scimmie” di Victor Gischler. Un autore che potrà diventare (speriamo) un degno successore di Elmore Leonard, unendo ritmo duro e serrato e un senso del comico e della commedia degno di un grande scrittore. Questo è il suo romanzo d’esordio e ha una copertina veramente accattivante, che si può vedere in anticipazione sul sito della Meridiano zero. La Meridiano zero in questi anni ha accompagnato molti autori, italiani e stranieri, nei primi passi sulla strada verso il successo, da Andrej Longo (da Meridiano Zero a Adelphi), Francesco Permunian (da MZ a Rizzoli), Marco Archetti (da MZ a Feltrinelli), Robert Wilson (da MZ a Longanesi e Garzanti), David Peace (da MZ a Tropea e Saggiatore). Gischler sarà il prossimo.
GF: Qual è il suo rapporto con la stampa? È soddisfatto della visibilità dei libri di Meridiano Zero? Trova che ci siano differenze sostanziali tra l’atteggiamento delle webzine e quello dei quotidiani e dei periodici? Quanto sente che influiscano nelle scelte del pubblico?
MV: Il rapporto con la stampa è travagliato, come tutti quelli dettati dalle leggi del mercato. Anche qui, i giornali non fanno cultura, ma trasmettono informazione, e sono prima di tutto delle aziende che devono generare un profitto. Se perdiamo di vista questo principio, i termini della questione si accavallano e si sfaldano. La stampa (e anche la televisione, per quello che riguarda l’immediata visibilità che può dare a un libro se sceglie di dedicargli attenzione) devono badare alle copie vendute (o all’audience) perché è il metro più efficace per valutare la bontà della propia gestione. La capacità di calibrare l’ampio spazio riservato agli avvenimenti più commerciali il cui successo è già determinato e la piccola nicchia riservata agli avvenimenti più stimolanti e culturali è la chiave per inquadrare le diverse testate.
Le webzine sono mosse da istanze molto meno commerciali, anche perché è spesso sulla proposta di qualcosa di diverso che si sono create una ragion d’essere. Il problema se le recensioni influiscano o meno nelle scelte del pubblico è da sempre dibattuto, ma mi sembra che la questione di base sia molto semplice. Io ho ricavato due regolette: le recensioni hanno un’utilità in funzione della visibilità di un libro, e in subordine, della visibilità della casa editrice. In altre parole, se un libro non è visibile in libreria, la recensione per quanto grande o importante possa essere, non funziona. Mentre se un libro è ben esposto sui banchi delle librerie, la recensione ha un effetto concreto. E nel caso il libro sia poco visibile, la recensione può avere comunque un effetto in funzione della visibilità della casa editrice. In altre parole, la bella recensione di un libro Adelphi è efficace comunque, anche in presenza di una scarsa presenza in libreria, perché viene comunque letta e ricordata, grazie al nome della casa editrice. Per capire bene le conseguenze di questo discorso, bisogna ricordare che la vita media di un libro in libreria è sull’ordine del mese (massimo due mesi), dove con vita media intendo il tempo medio di esposizione “di faccia” sui banchi, non il tempo in cui il libro può esserci ancora, ma disposto di dorso sullo scaffale. E ricordare anche che l’acquisto in libreria è in genere un acquisto di impulso, per qualunque lettore, quindi un acquisto che è determinato in gran parte dall’aver visto il libro di faccia. Ora, ritornando all’effetto delle recensioni, si può intuire perché quelle che compaiono nel mese o al massimo nei due mesi di uscita del libro, possono avere un effetto, mentre quelle che compaiono sei mesi dopo la pubblicazione, non ne hanno nessuno…
GF: Parliamo della concorrenza. Quali sono le sue collane preferite, in questo momento, nel panorama italiano? Quali sono i progetti che più la convincono, quali quelli che ritiene destinati a restare nel tempo?
MV: Questa è una domanda da fare ai lettori, non ai piccoli editori che passano il tempo più a leggere manoscritti da pubblicare che libri già pubblicati… Comunque ho una grande ammirazione per case editrici come Iperborea, collane come “Strade Blu” della Mondadori e chiunque riesca a far vedere la sua personalità attraverso le scelte che compie.
GF: Infine… a cuore aperto. Le domando quali sono i dieci libri che ha più amato nella sua vita. Quelli che hanno cambiato il suo rapporto con la Letteratura, o hanno giocato un ruolo fondamentale nella sua esistenza.
MV: Ah… bene. Mi voglio togliere la soddisfazione di non sbandierare i nomi dei classici, perché quelli li conosciamo tutti e lo sappiamo già che chi ha letto per la prima volta Flaubert, Faulkner o Dostoevskij ne ha ricavato comunque un’impressione che non lo abbandonerà per tutta la vita. Invece citerò Salgari, perché mi ha dato lo stimolo a leggere. Ricordo ancora quando avevo sei anni e aspettavo che mio padre tornasse a casa dal lavoro per leggermi, ogni sera, un capitolo di “I misteri della giungla nera”. E ricordo la soddisfazione di quando sono riuscito a leggerne l’inizio di un capitolo, e come quello ha dato la stura a una lettura divorante, appassionata di tutti gli altri. Poi ricorderò “Dracula” di Bram Stoker perché mi ha fatto scoprire il fascino del romanzo gotico; e “Il pianeta dimenticato” di Murray Leinster, che mi ha fatto scoprire e amare la fantascienza; e Brett Halliday, autore dei primi gialli che ho letto e che mi ha fatto scoprire a ritroso Hammet, Chandler e tutti gli altri; e i libri di Ralph König, un grande scrittore che ho letto nella traduzione spagnola perché purtroppo non conoscevo il tedesco (ma finalmente è adesso tradotto in italiano). Non dico niente di König perché chi non lo conosce già forse sarà incuriosito e lo andrà a scoprire); e infine “Giles ragazzo capra” di John Barth, uno dei tanti libri americani letti e riletti. Mi rendo conto che non sono esattamente i dieci libri che ho più amato, ma in realtà io non credo molto a “le dieci cose da portare su un’isola deserta”, perché ogni volta che ricompilassi la lista sarebbe invariabilmente diversa (e per fortuna, aggiungo). Diciamo che sono alcuni tra i libri che ho amato e che hanno contribuito a formare un percorso. Come? Non sono dieci? Allora aggiungerei almeno Aldo Busi della “Vita standard di un venditore provvisorio di collant” e Cormac McCarthy di “Cavalli selvaggi”.
GF: La ringrazio molto per la sua disponibilità. Un’ultima domanda, prima di concludere. Macchina del tempo: se Marco Vicentini potesse tornare indietro nel tempo, sino al 1997, prenderebbe la stessa strada? Da lettore, sono convinto di sì. Ma vorrei una conferma e una spiegazione… cambierebbe qualcosa? Ciò detto… carta bianca: scriva tutto quel che preferisce. Grazie di cuore, a nome di Lankelot. Sito amico di Meridiano Zero.
MV: Se prenderei la stessa strada? Molto sinceramente sì. Mi sono chiesto spesso se cambierei qualcosa, potendo ritornare molto più indietro, quando sono passato dal liceo classico alla laurea in chimica fisica, dalla ricerca al CNR al lavoro nell’industria metalmeccanica, per varare infine questo progetto editoriale, ma ho capito di no. Le scelte che faccio adesso, l’amore per un certo tipo di immaginario e di narrativa, nascono da tutto il mio percorso finora svolto e non cambierei niente. Gli errori sì, certo, mi piacerebbe evitarli, ma quelli purtroppo non è possibile cancellarli… Un argomento che mi piacerebbe toccare (o meglio, sfiorare…) è l’effettiva potenza del Web riguardo alla distribuzione delle notizie e alla comunicazione. La mia impressione è che sia in realtà sopravvalutata, salvo particolari eccezioni o campi a raggio limitato di competenza (negli argomenti molto specifici credo che il Web possa funzionare bene). Il Web mi sembra passivo, un po’ come un’immensa biblioteca, con una classificazione all’antica: un ricercatore sa che lì dentro probabilmente c’è quello che cerca, ma ci può mettere così tanto a trovarlo da rendere in molti casi dubbia la convenienza della ricerca. È proprio la sovrabbondanza delle informazioni a renderle così difficoltose, le ricerche. È scontato (e non ci spendo parole) che la prima cosa da fare è imparare “come” fare una ricerca, ma quello che ho detto resta valido, temo. L’esistenza on line di informazioni a diversi stadi di aggiornamento cala purtroppo su tutte un velo di inaffidabilità. E per quello che riguarda i libri e l’informazione libraria, il Web non aiuta molto perché gli strumenti non ci sono. L’unica cosa che esiste è l’enorme polifonia di voci singole, ognuna con la sua idea o visione. Se si avesse il tempo sufficiente per leggerle, questo potrebbe dare una ricchezza non indifferente e potrebbe contribuire a far intravedere il disegno sottostante, in continuo mutamento, ma è un po’ come cominciare a intuire il disegno di un mosaico partendo da un tassello e esplorando tutti quelli circostanti. Strumenti più articolati dei motori di ricerca, non ce ne sono ancora. E le ultime – ma non recentissime – novità, come i blog, le librerie online, le biblioteche virtuali, sono tutti contributi all’informazione collettiva tramite l’offerta di informazioni riguardo a se stessi, in altre parole siamo ancora molto distanti dall’aver trovato uno strumento per esplorare veramente il Web…
Gianfranco Franchi intervista Marco Vicentini, aprile 2008.
Prima pubblicazione: Lankelot.