In piedi e seduti

In piedi e seduti Book Cover In piedi e seduti
Leo Longanesi
Longanesi
1996
9788830413429

“In piedi e seduti” [1948] è un memoir concentrato sul periodo più delicato, controverso e doloroso del nostro Novecento italiano: 1919-1943. Quello dell'Italia “proletaria”, figlia di Vittorio Veneto, “in piedi” per volontà e comando del suo inatteso leader ultrasocialista romagnolo; e quello dell'Italia sconfitta, fuggiasca e a un passo dalla Guerra Civile, improvvisamente e totalmente seduta. Seduta e impegnata a leccarsi le ferite, e a spararsi addosso, e poi a ricostruirsi.

Finita la Prima Guerra Mondiale, l'Europa è un continente pieno di questioni insolute: la questione irlandese, quella baltica, quella adriatica, quella armena, quella turca. L'antico equilibrio è andato a pezzi e le nazioni, vecchie e nuove, sembrano guardare soltanto a Wilson e Lenin, Usa e Urss, per orientarsi sul futuro; è come se non avessero più le energie e l'intelligenza per plasmarlo autonomamente.

In Italia, la decadenza figlia corruzione e disordine. Lo Stato è indebitato per 83 miliardi e mezzo. I socialisti domandano la fine della monarchia. I reduci di guerra, intanto, s'aggirano inquieti in cerca di rappresentanza: non sembrano poter essere soltanto socialisti. Scrive Longanesi: “Il socialismo italiano, estremista e rivoluzionario, non ha fatto la guerra; conosce solamente la tecnica degli scioperi, dei comizi e degli ordini del giorno, non si è aggiornato su Clausewitz, come Lenin, e crede nella forza delle parole. Ma le parole sono ancora una forza della borghesia. La borghesia non ha idee precise, come sempre, ma guarda con occhi benevoli i suoi figli che indossano ancora la divisa militare e non vogliono rinunciare alla Vittoria. In realtà, quella del 1915 è la prima grande guerra vinta dalla borghesia italiana” (p. 17).

Questa borghesia sceglierà d'essere rappresentata da qualcosa di diverso. Il borghese Longanesi racconta così, per farci capire cosa accadde, l'humus dell'Italia passata per una guerra vinta; e quindi ci accompagna nella sua scelta giovanile e romantica di aderire al pnf, motivandola parte per il disprezzo nei confronti della volgarità dell'ateismo, parte per la sua distanza abissale dal socialismo, parte per la diffidenza nei confronti della parola “massa”, usata strumentalmente da certi partiti.

L'artista ci ricorda, en passant, che quando D'Annunzio prese e partì per l'impresa fiumana, per andare a riscattare i nostri compatrioti rimasti al di là dei confini della nuova Italia, la borghesia non casualmente rimase incerta: e però “nel suo animo nascostamente amava il poeta, il suo bizzarro poeta che da trent'anni dominava il cuore e il costume del paese” (p. 22). Perché la borghesia amava i suoi figli “viziati e ribelli”, nonostante fosse distratta e indolente. Questi ribelli avrebbero assunto presto un nome nuovo.

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Complice la pesante crisi economica, nei giorni del dopoguerra, e ancora post Fiume, si percepiva (proprio come oggi...) “un disgregamento negli stessi organi dello Stato”. Tra i vecchi borghesi erano subentrate tante nostalgie: delle istituzioni solide, delle abitudini modeste, dell'estraneità all'illusoria categoria del progresso. La carica rivoluzionaria dei socialisti non era quella dei borghesi: l'espressione della borghesia era diventato il fascismo, nel 1921, “legalitario e illegalitario a seconda delle circostanze di tempo, di luogo, di ambiente”, per dirla con le parole del suo capo. Antisocialista ma non antiproletario. Un capo che parlava del suo “movimento”, non di un suo partito, per poter essere più libero di plasmarlo; consapevole, forse, che il fascismo fosse, nella bella definizione di Longanesi, “l'ultimo slancio sentimentale della borghesia” (p. 98). Leo chiosa: “come scrisse Renan, i profeti non sanno mai quel che fondano” (p. 57).

E così, tramite il fascismo, la borghesia interiorizza e applica la lezione tragica di Sorel. Avallata, nel 1922, da Don Luigi Sturzo: Sul “Popolo Nuovo” del 5 novembre 1922, scriveva, post formazione del governo Mussolini: “Oggi vi è un governo: il capo mostra volontà ferma; si sente uno che comanda: dopo circa due anni che non si sentiva la parola 'voglio', c'è un uomo che vuole. L'Italia ha bisogno di chi comandi e di chi voglia, e dimentichi i torti”. Peccato che il fascismo non avesse ideologia precisa, che fosse “un fatto nuovo”, per dirla coi liberali: e che salendo al potere avrebbe portato via con sé la democrazia. A partire dal proporzionale [1923].

Fiancheggiato dagli ex colleghi giornalisti, Mussolini monta una propaganda senza precedenti; “gli antifascisti, perplessi e sconcertati, cercano ancora con molto candore di studiare il fenomeno fascista e di interpretarlo: sembra loro impossibile di essere stati battuti da un giornalista” (p. 98). Un giornalista leader di un movimento che non ha nulla di definito: “tutte le contraddizioni che vi si scoprono sono quelle del suo capo” (p. 99).

Trotzky la vedeva diversamente: “Mussolini ha fatto una rivoluzione, egli è il nostro migliore allievo” (p. 104, Corsera 27 aprile 1924). Il New York Times, in lui vedeva un ibrido tra Mazzini e Cavour (11 maggio 1924). Per il Morning Post del 29 ottobre 1928, eravamo a un passo dal miracolo fascista.

La morte di Matteotti mette in crisi la borghesia. Dura poco, nessuno riesce a prendere in mano la situazione: il delitto Matteotti diventa “affare Matteotti” (p. 108). Da lì alla nascita della dittatura il passo è breve: 3 gennaio 1925. Passano anni, incredibilmente “monotoni e felici”, scrive Longanesi, in cui la burocrazia diventa alleata del fascismo e il fascismo diventa grande burocrazia: “lo Stato funziona”, “le cose marciano”, il funzionario è diventato milite dello Stato (p. 112). Mussolini cerca di accontentare tutti, massoni, cattolici, liberali e socialisti, e ogni iniziativa culturale trova “consenso e appoggio del Duce”. Detenuti politici sono, bontà sua – si fa per dire – pochissimi: appena 698 confinati nelle isole nel 1927, a fronte di 1541 diffidati e 959 ammoniti (p. 118). Nel 1929 arriva il Concordato e a sentire Longanesi non c'è più traccia di antifascismo, se non nelle barzellette (p. 124).

E poi c'è Wall Street, la crisi economica, lo Stato sempre più assistenzialista, “grande datore di lavoro del paese”; e infine i primi passi verso lo strapiombo dell'alleanza con l'infamia nazista tedesca, evitata sulle prime con una disinvolta strategia diplomatica con le grandi democrazie; e la sempre più macabra discesa negli inferi della guerra, attraverso le leggi razziali, il baratro cupo delle aggressioni imperialiste, la drammatica disfatta.

I soldati italiani, infine, tornano a casa: dismessa la divisa, tornano a vestire i panni dei borghesi. Longanesi racconta tutto questo senza rabbia, senza rimpianto, senza acredine, senza malizia: con la semplicità del cittadino che ha vissuto e testimoniato un'epoca, col dolore sordo di chi non ha condiviso certe scelte, con il bello stile del letterato che è sempre stato, sotto regime e sotto repubblica: irregolare, spiazzante, cattivo, onesto.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Leo Longanesi (Bagnacavallo, 1905 – Milano, 1957), giornalista, disegnatore ed editore italiano. Fondò e diresse "Il Libraio" (1946-1949) e "Il Borghese" (1950-1957); diresse diversi quotidiani e collane editoriali.

Leo Longanesi, “In piedi e seduti”, Longanesi, Milano 1980.

Prima edizione: 1948.

Approfondimento in rete: Wiki it
Gianfranco Franchi, maggio 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.