Laterza
2011
9788842096207
“Il tai e l'arte di girovagare in motocicletta. Friuli on the road” è un singolare ibrido tra un memoir, un reportage, un'antiguida e un omaggio pieno di sentimento alla propria terra, al proprio fiume, il Tagliamento, e al proprio popolo. L'artista friulano Flavio Santi, classe 1973, racconta cosa significa essere friulani: quali sono i talenti della sua gente, quale l'indole, quale lo spirito. Assieme, non nasconde grane e problemi d'una regione che, negli ultimi decenni, ha sofferto per la cementificazione selvaggia e per tutta una serie di stravaganti e incomprensibili speculazioni economiche: se sulle prime Santi, ormai lombardo d'adozione, sembra guardare alla madrepatria con la nostalgia e l'entusiasmo che annunciano un ritorno a casa, man mano lascia intendere che quel ritorno, in un certo senso, non è più possibile, perché la campagna tanto amata non più esiste; né tantomeno è sopravvissuta la vita comunitaria raccontata dai nonni. In compenso, è pienamente superstite il lato oscuro della vita di campagna, e di provincia estrema, vale a dire un tedio sconfinato e una sincera e autodistruttiva tendenza all'alcol, e alle droghe leggere.
“Il tai e l'arte di girovagare in motocicletta” è un'antiguida, dicevo, forse anche per questo. Sbaglia di grosso chi s'attende un invito a tornare alle origini, sic et simpliciter, e a rallentare: a decrescere, ad aspettare. Naturalmente Santi, con questo scritto, si schiera con grazia, onestà e orgoglio contro le speculazioni economiche, contro la falsa equivalenza tra cemento e progresso, contro il consumismo, contro la massificazione e lo snaturamento del territorio, e delle abitudini dei cittadini. Ma non riesce a trovare medicine e antidoti diversi dal buon senso e dalla controinformazione, non riesce a risvegliare quella rabbia che pure potrebbe e dovrebbe essere necessaria: risveglia la combattività, al limite, che è diverso. E diciamo che è come se a un tratto volesse comunicarci che l'unica speranza di rigenerazione è il precipizio. Perché sembra proprio che la nostra società occidentale, e in questo senso il Friuli non è diverso dall'Italia, stia smaniando per mandare in malora la natura, e per diseducare il popolo al rispetto della terra, e del prossimo: “è la mafia dei colletti bianchi e dei dolcevita, che non uccide, non fa agguati, non manda sicari, non si sporca le mani, se non con l'inchiostro degli assegni e dei soldi, contati freneticamente. Lavora con la luce soffusa degli schermi di pc e telefonini, con il silenzio aziendale dei conti correnti, con la reticenza polverosa di registri e libri mastri. E l'edilizia è il migliore dei mondi possibili per coltivare questa pace riciclando montagne di denaro sporco” [p. 104]. E inquinando tutto quel che capita, per trasformarlo in denaro. Come ben sappiamo. Già: stiamo soffocando.
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Detto ciò, la buona notizia è che Santi scrive bene, come sempre, con personalità e con bella letterarietà: dissemina reminiscenze letterarie di livello con la disinvoltura del grande artista, e alè Flaiano e Chiara, e Sgorlon e Boccaccio e Pasolini, mescolati come niente fosse. La buona notizia è che per tutti i friulani questo libro è come manna: perché è onesto e ruvido come loro, è antiretorico e orgoglioso come loro. È decisamente rappresentativo. E questo lo dico da sanguemisto giuliano, non da lettore o da letterato. La buona notizia è che non è finita, per il Friuli e per i friulani, e questo non solo perché hanno ritrovato un artista loro compatriota capace di raccontarli e sintetizzarli. Non è finita perché c'è sempre la speranza che il Friuli, come l'Occidente, riesca a frenare la sua caduta nel cemento e nel consumismo esacerbato prima che sia troppo tardi. E questo libro ne racconta, di cose belle da cui partire o da cui ripartire. L'approccio di Santi alla vita, per esempio: memore della lezione dell'arpinate, sa che non c'è uomo più felice di chi abbia una biblioteca e un giardino: “libri e campagna: cultura e natura, un po' la cifra della mia esistenza, da sempre”. L'artista sente di dipendere dalla campagna. Trovandosi a vivere in Lombardia, complici le cose della vita, ha scelto una casetta con orto e giardino che ricorda quella da cui viene, quella di Colloredo di Montalbano. E dalla sua terra si fa mandare le cose buone da mangiare, salumi e formaggi, farina e gubana, grappa e cren. Casa, così, è un po' meno lontana. Non così i pensieri cupi su chi ha fatto certe scelte assurde, a casa sua. Per dire, come quelli che hanno seminato il mais ogm. Triste primato friulano: la loro è stata la prima regione italiana dove s'è seminato qualcosa che non fa il gioco del popolo, né del futuro benessere.
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E poi, per esempio, Santi racconta come il suo popolo ha sconfitto l'orco. Il terremoto: l'Orcolat: qualcosa capace di inghiottire 32mila abitazioni, danneggiarne 157mila, ammazzare 989 persone e ferirne 2400. Il Friuli ha reagito così: “Cosa serve piangere, qua bisogna ricostruire, si diceva. Ecco tornare il grande senso della natura: dalla morte non si poteva che rinascere alla vita. Come sempre. Dopo una tempesta o una grandinata si ritorna a coltivare e seminare. La terra alla fine, se le sei fedele, non ti tradisce. Poteva essere un requiem, divenne una sinfonia di vita” [p. 52].
E fu la sinfonia di vita dei tanti borghi contadini che circondano Udine, unica vera città friulana. Fu la sinfonia di vita dei “paesuts”. E uno dei paesani, per dire, era il cugino del nonno di Santi, Gino. Eccolo qua, eternato: “Era un uomo che dentro gli soffiava la vita. La vita semplice, essenziale, dei gesti quotidiani: alzarsi, appoggiare prima il piede destro, poi il sinistro sull'impiantito, sgranchirsi, lavarsi la faccia col sapone profumato di Marsiglia, fare colazione, pensare alla giornata che verrà, uguale a tante altre, rassicurato e felice del flusso costante della vita” [p. 36].
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Ho scoperto la scrittura di Flavio Santi con qualche anno di ritardo: ma qualche mese fa, complice la pubblicazione del romanzo-pamphlet “Aspetta primavera, Lucky” [Socrates, 2011], finalmente ho potuto cominciare ad apprezzare senso e portata della sua letteratura. C'è una cosa, al di là dell'eleganza e dell'intelligenza della sua scrittura, che mi ha colpito: la grande umanità. Diciamo che prima di leggere questo suo omaggio al Friuli, questo “tai” (e non certo tao: diciamo il tao dei tai, e cioè dei bicchieri di vino) del suo amore per la sua terra, immaginavo già parte di quel che avrei trovato in queste pagine. Nostalgia, onestà, buone invettive, sensibilità sociale, e il fantasma di Pier Paolo Pasolini, su tutto. Così è stato. Sono un lettore soddisfatto: e un cittadino più triste, e un po' più sconfortato. Ma questa è un'altra storia, e non dobbiamo parlarne qui. Viva il Friuli.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Flavio Santi (1973), narratore, poeta, traduttore e libero docente universitario italiano. Vive in campagna alle porte di Pavia. Ha esordito, in narrativa, pubblicando “Diario di bordo della rosa” (PeQuod, 1999).
Flavio Santi, “Il tai e l'arte di girovagare in motocicletta. Friuli on the road”, Laterza, Bari 2011.
Gianfranco Franchi, giugno 2011.
Prima pubblicazione: Lankelot.
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SEMPRE A PROPOSITO DE "IL TAI E L'ARTE DI GIROVAGARE IN MOTOCICLETTA. FRIULI ON THE ROAD"...
Friuli on the Road. Friuli, capiamoci bene: vale a dire Udine e Pordenone e Gorizia: niente Venezia Giulia. I lettori friulani e giuliani già sanno che non si potrebbe e dovrebbe equivocare mai, il resto dei nostri compatrioti non s'accorge nemmeno di quanto sbagliato sia confonderli tra loro. Storie diverse, dialetti diversi, culture diverse: da distinguere con la dovuta puntualità. Sensibilizzatevi a queste differenze, non è mai troppo tardi.
A raccontare, interpretare e restituire spirito, dignità, contraddizioni e fascino di un grande popolo come quello capace di rinascere dall'Orcolat, vale a dire dal terribile terremoto del 1976, è un poeta e un narratore friulano doc, Flavio Santi da Colloredo di Montalbano. Il suo "Tai e l'arte di girovagare in motocicletta" è un ibrido tra un delicato e intenso memoir, un'antiguida, un drammatico atto d'accusa contro cemento selvaggio e contro la prepotenza e l'aggressività dell'edilizia: Santi non si limita, insomma, a raccontare quanto magnifico e seducente sappia essere il verde della sua terra, Santi prende e denuncia quanto increscioso e cattivo sia sporcarlo di centri commerciali e villette a schiera all'americana, e quanto queste speculazioni possano finire per contaminare terra e popolo, e per deprimere una gente nobile e dignitosa. Il tutto, condito da una grande letterarietà e da piacevoli reminiscenze.
Per dire: il titolo è decisamente ludico, e non può non ricordare "Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta di Pirsig". Il discorso è che quel “tai” che campeggia in bella evidenza non è niente affatto un refuso: no, niente “tao”, proprio “tai”. Il tai è l'unità di misura principe, da quelle parti, nel Friuli che non nasconde d'avere sempre amato osterie, locande e bar. Il tai è il bicchiere di vino – un gran bicchiere di vino – da scolarsi più volte durante la giornata, come si conviene. Andrebbe fatto con la dovuta moderazione e col dovuto senno: Santi sa spiegarlo. Sa spiegarlo, e per spiegarlo ha il fegato di ricordare a chiunque legga quanto male possa fare l'alcolismo, nella sua regione come nel resto del Paese, e quanta alienazione e sofferenza esso finisca per rappresentare. Piccolo grande libro.
Gianfranco Franchi.
Prima pubblicazione: BlowUp, giugno 2011.
Un ibrido tra un delicato e intenso memoir, un’antiguida, un drammatico atto d’accusa contro cemento selvaggio e contro la prepotenza e l’aggressività dell’edilizia…