Adelphi
1999
9788845914935
“Tutte le predisposizioni sono in me micidiali, mi ha detto una volta, pensai, tutto è stato predisposto in me in maniera micidiale da coloro che mi hanno generato. Wertheimer ha sempre letto dei libri in cui si parla di suicidi, di malattie e di morti, pensai mentre ero in piedi nella sala della locanda, libri nei quali è descritta la miseria umana, la mancanza di ogni via di scampo, l’insensatezza e l’inanità di ogni sforzo, libri nei quali tutto è sempre e continuamente devastante e micidiale” (pp. 60-61)
“Il soccombente” è il romanzo dell’irrimediabilità: della dannazione, dell’elezione, della predestinazione. La scrittura di Thomas Bernhard è plumbea, cupa e febbrile; un inarrestabile monologo d’un io narrante, un tetro stream of consciousness d’un condannato a morte. Morte che ha strappato via le anime dei suoi antichi compagni: Wertheimer, e Glenn Gould.
Il termine “predisposizione”, che s’è ritenuto opportuno enfatizzare nell’incipit di queste brevi pagine, è una concessione alla speranza che l’umanità possa correggere quel che invece, nel testo, appare inevitabile: per questo, leggendo e analizzando l’opera, sembra di interiorizzare un romanzo incentrato non sulla “predisposizione”, ma sulla predestinazione. Tre personaggi: il narratore è superstite, testimone ed ermeneuta del senso e dei significati delle loro esistenze. Glenn Gould è morto di morte naturale a cinquantuno anni; Wertheimer si è suicidato poco tempo dopo. S’erano incontrati ventotto anni prima, allievi del Mozarteum, giovani rampolli dell’alta borghesia (medio-alta nel caso del narratore), pianisti segnati dalla dedizione all’arte e dal sacro fuoco dell’entusiasmo, esasperati dall’opposizione delle rispettive famiglie alla loro scelta esistenziale e dalla mediocrità degli insegnanti conosciuti fino a quel momento. Finalmente conoscono, nel corso d’una breve ma intensa e determinante estate, cosa significhi poter godere della guida e del sostegno d’un maestro (potrebbe rivelarsi fascinosa, a questo proposito, la comparazione tra questo romanzo e il dramma breve dell’islandese Hrafnhildur Hagalín: “Ég er Meistarinn”): Horowitz. In quel periodo, l’insonnia di Gould diventa irreversibile; i tre amici non si interessano più neppure dell’alimentazione, limitandosi a nutrirsi, e spontaneamente i due austriaci tendono a confrontarsi con questo canadese d’incredibile talento: Glenn aveva una malattia polmonare, e soltanto nella musica si sentiva vivo. Il suo “invasamento per l’arte” è salutato come “radicalismo pianistico” dal narratore: che non nasconde d’averne intuito sin dal principio l’irripetibile genio, e d’averne sofferto. La percezione dell’abisso che divideva Gould dai suoi compagni era irrefutabile: e così, quando anche i giornali s’accorsero delle sue qualità, dopo i primi concerti, Wertheimer mise all’asta il suo piano, dedicandosi allo studio della scienza dello spirito; mentre il narratore, dopo aver regalato il suo strumento a una bambina, si ripiegò nella filosofia, vivendo “rattristato”, cosciente dei suoi limiti, detestando a morte il piano.
Il talento di Glenn Gould innesca le tendenze suicide dei suoi amici: e tutto quel che afferma a proposito dell’arte, dalla sua professione di fede nell’autodisciplina, al suo paradosso legato a quanto poco sappia ogni artista della propria arte, dal culto per il dilettantismo, al disprezzo e al disinteresse per il pubblico, va a cristallizzarsi nelle loro anime. Incidendo, e decidendo le loro sorti. Mentre Glenn Gould, dopo 34 concerti in due anni, si ritira a vita privata, barricandosi in un appartamento di New York dove suona dalle otto alle dieci ore al giorno, i suoi vecchi compagni di studi arrancano. Quello che chiamava “il soccombente”, per la sua aria d’andare sempre più a fondo, Wertheimer, si dedica a stilare schede e a scrivere un libro con quel nome, che rimaneggia e rimaneggia di continuo, cancellandone in sostanza il contenuto a intervalli regolari di tempo. Quello che chiamava “filosofo”, il narratore, scrive libri che non pubblica, e non riesce nemmeno più a leggere: detesta le descrizioni, trova pace solo in qualche frammento dei pensieri di Pascal. Si sente un “esperto di visioni del mondo” (p. 49).
L’incontro con un dio vivente ha fatto deragliare i due giovani musicisti: nessuno tra loro sembra essersi mai più ripreso da un’esperienza vissuta con ammirazione e disperazione allo stesso momento; non Wertheimer, che viveva leggendo segni di caducità, di morte e di malattia in ogni frangente, e che salutava nelle biblioteche degli istituti di pena per i grandi spiriti; e non il narratore, che non trovava il coraggio di pubblicare i suoi scritti perché non si sentiva autentico, e si concedeva il brivido masochistico della distruzione di tutto quel che creava (p. 72). Quel che illumina a un tratto il testo è la descrizione della risata di Glenn Gould. I suoi compagni non sapevano ridere, non conoscevano l’innesco che sprigiona l’essenza.
Wertheimer pativa una smania di competizione che lo soffocava: voleva sempre e soltanto primeggiare, ma non v’era mai riuscito (p. 90). Anni dopo, non ricordava più neppure come si strimpellasse: annaspava, precipitando nell’amarezza della coscienza della sconfitta.
A far da sfondo alle memorie del narratore, l’Austria contemporanea, decadente e claustrofobica, che Bernhard amava odiare e maledire; ombra nell’ombra della Mitteleuropa, popolata da cittadini ottusi e freddi e solcata da città che soffocano ogni ispirazione, come Salisburgo e Vienna. Il romanzo sembra essere il documento della rassegnazione di chi ammette, impotente, di non avere realizzato nessuna delle sue ambizioni, e di non aver concretizzato nessun sogno; può al limite cantare le luci della sua giovinezza e la penombra schiacciante della sua maturità, e silenziosamente infine discendere nel niente; sentendo dentro sé la musica divina di chi naturalmente incarnava ed era arte, quel pianista canadese-americano che nient’altro voleva che essere musica.
Il passato dell’Austria è stato tanto grande che vederlo così negato e vinto è assurdo, impronunciabile, inaccettabile; questo libro è scritto nella rabbia e nel risentimento e nella malinconia d’un presente che avvilisce e castra ogni talento; e sfuma la predisposizione in predestinazione, modellando un manuale d’un suicidio: d’una generazione, e d’una cultura.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Thomas Bernhard (Heerlen, Olanda, 1931 - Gmunden, Austria, 1989), poeta, romanziere e drammaturgo austriaco. Esordì pubblicando il romanzo “Frost” nel 1963.
Thomas Bernhard, “Il soccombente”, Adelphi, Milano 1985. Traduzione di Renata Colorni.
Prima edizione: “Der Untergeher”, 1983.
Gianfranco Franchi, 15 ottobre 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.