Mondadori
2016
9788804668015
Questo romanzo è uno spaccato della natura umana. Tragico e pessimistico, come poteva essere nella Weltanschauung di chi aveva conosciuto l’orrore di una guerra mondiale, e aveva alterato irrimediabilmente la sua percezione della realtà e dell’alterità. “Il Signore delle Mosche” è l’opera prima di William Golding, scrittore originario della Cornovaglia, sorprendente premio nobel del 1983 ai danni dell’allora più quotato Graham Greene. Il romanzo appare nel 1954, una decade dopo il termine del servizio dell’artista anglosassone nella Royal Air Force; e immediatamente riscuote successo nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America; con il solito, fisiologico ritardo di qualche anno appare in Italia. È una lettura dolorosa, sconfortante, amara: proprio perché sembra rappresentare la degenerazione e la corruzione di un sogno adolescenziale, la rivisitazione archetipica d’una vita edenica d’una giovane comunità di ragazzi in un’isola deserta. In un momento storico sicuramente contemporaneo ma ancora fortunosamente ben lontano dall’essere verificato, in uno scenario bellico probabilmente post-atomico, un aeroplano con a bordo dei giovani studenti inglesi precipita; i ragazzi, stratificati inizialmente in un’ampia fascia d’età che pare variare dai cinque ai sedici anni, si trovano dunque abbandonati a loro stessi in un contesto naturale splendido, paradisiaco.
Approfondiamo proprio da questi primi passi iniziali la struttura e le contraddizioni del romanzo. La comunità che precipita sull’isola è, in primo luogo, orfana di figure adulte. Questo, da un lato, può significare emblematicamente il vuoto di figure genitoriali o autoritarie proprio delle ultime generazioni, costrette ad adattarsi a simboli, e non a comunicare e a confrontarsi direttamente ed autenticamente con chi li ha generati.
La giovane comunità, infatti, emula, direi quasi scimmiotta, istituzioni e atteggiamenti e gerarchie della società che si appresta ad ospitarli e li stava allevando prima dell’incidente aereo: ma si tratta pur sempre di un artefatto e contraddittorio atteggiamento speculare, privo di qualsiasi velleità critica o di qualsiasi tratto innovativo. Un letterariamente raffinato, dunque, spettacolo di marionette è quanto viene rappresentato, nelle prime pagine, da Golding. Una società composta da bambini che tenta di sopravvivere giocando sulle confuse reminiscenze del loro sistema di provenienza.
In secondo luogo, la comunità è priva di figure femminili: presenti qua e là gli spettri delle mamme e delle zie lasciate in patria, registriamo una sinistra assenza di fanciulle e, dunque, di pulsioni erotiche. Questo elemento mi pare particolarmente emblematico: è, a tutti gli effetti, una reminiscenza dei tempi della guerra, una riflessione sul clima disperato e avvilente dell’ultimo conflitto mondiale, sulla natura stessa degli uomini, sullo spirito cameratesco, sulle differenze spirituali e intellettuali tra chi combatte, assetato di sangue, prossimo a tornare ad uno stato al contempo totemico e post-cannibalesco, e chi tenta di ordinare quel che rimane di un’umanità confusa ferita e abbandonata a sé stessa.
In terzo luogo, mi sembrano emblematici i nomi prescelti, in alcune circostanze, dal nostro Golding. Un piccolo bimbo, che non sa dire altro che il suo nome e il suo indirizzo, tra un singhiozzo e l’altro, è un personaggio marginale che al termine dell’opera apparirà, incapace di pronunciare il suo stesso nome. E quel nome è Perceval. Si reincarna dunque una figura epica, un cavaliere del ciclo arturiano, innocente e puro come nella tradizione, e tuttavia incapace di assumere il ruolo che gli compete proprio per quell’incapacità finale a pronunciare il proprio nome. Curiosa degenerazione davvero, questa, per una figura simbolica: superfluo ricordare che Perceval, in alcune tradizioni, è il Cavaliere del Graal (altrove è Galahad, figlio di Lancillotto del Lago).
Ulteriore figura interessante è quella del totem che presta il nome al romanzo, Il Signore delle Mosche. Altri non è che il teschio di una scrofa impalato su una rudimentale lancia da parte della comunità. Non sarà pleonastico ricordare che quel nome è la traduzione etimologica di Belzebub, biblica fonte di ogni male. Parte di questa comunità, dunque, in questa – ammettiamolo – eccessiva semplificazione da parte dell’autore, adora un totem che incarna la malvagità e la violenza dell’animo umano. Echeggia, senza ombra di dubbio, proprio a partire dalla costruzione di questo totem, l’homo homini lupus: ma ribadisco, si tratta di una operazione tutta simbolica e letteraria.
Assolutamente interessante, rimanendo ancora vincolati al discorso dei nomi, la scelta di non assegnarne alcuno ad un bambino che scompare misteriosamente dopo il primo giorno di permanenza nell’isola, non senza aver profeticamente annunciato la presenza di una Bestia: di questo fanciullo altro dettaglio non si offre che quello di una piccola voglia di more sul volto. Mi sembra un’annotazione di rilievo. Questo bambino rappresenterà un allarmante spettro per tutto il corso della narrazione, apparendo nei pensieri e nei discorsi dei leader della comunità quasi fosse una presenza infestante. Infine, mi sembra degno di nota che uno dei due clan in cui si divide la comunità è composto, tra gli altri, da due gemelli. Non starò ora a riesumare reminiscenze letterarie a proposito della figura dei gemelli, tanto divulgate e popolari queste sono: mi limito a registrare, tuttavia, che i due gemelli sono parte del clan, per così dire, dei difensori del logos, del pensiero puro, non a caso accompagnati dalla difesa del fuoco: e che proprio questi due gemelli, al termine dell’avventura, abbandonano “il logos” perché intimoriti dalla caotica e dionisiaca violenza dell’altro clan.
Due personaggi che appaiono regolarmente sincronici, e l’unico volto e l’unica espressione che sembrano avere dichiara in maniera anche qui piuttosto elementare la piattezza e l’uniformità dell’adesione ad un ideale o al Verbo, quando ciò sia mera adesione e non sentita partecipazione. La loro naturale doppiezza attraversa la narrazione sino al fisiologico epilogo della loro simbolica parabola. In quarto e ultimo luogo, prima di passare alla trama, mi preme rilevare come la comunità sia composta dai buoni vecchi wasp: white anglo saxon protestant. Pare di assistere all’incursione nell’isola del reazionario borghese Defoe di un branco di suoi giovani rampolli. L’unico tratto in cui vengono nominati uomini di colore è un tratto offensivo: Ralph, il leader del clan che poco fa, semplificando, ho nominato “del logos”, critica l’aspetto e l’atteggiamento del clan rivale, sostenendo che si comportano con la violenza e l’ignoranza dei negri nelle foreste. Come se non bastasse, l’ufficiale che giunge al termine del romanzo a riportare in salvo i bambini ribadisce che si sarebbe atteso di meglio da un gruppo di giovani inglesi. Siamo alle solite: strisciante razzismo, strisciante spocchia e arroganza anglosassone, precipizio reazionario. La comunità è bianca, probabilmente di estrazione medio-alto borghese, e – da quanto si può dedurre sulla base dei loro indumenti e delle loro pregnanti osservazioni estetiche sull’incuria a cui sono costretti – appartenente genericamente a quella fascia di reddito che potremmo semplificando ritenere agiatissima.
Tre sembrano essere i personaggi principali: Ralph, leader eletto democraticamente dai suoi simili per via della sua bellezza e del suo naturale carisma, futuro capo di un clan che definivamo “del logos”: a lui spetta sia organizzare la difesa del fuoco, affidandolo alle vestali (i gemelli), sia la creazione dei rifugi, sia la scelta delle leggi, sia la prima parola nelle assemblee, che vengono annunciate da una “conchiglia marina”. Non posso non pensare all’olifante dell’Orlando; il suono della conchiglia è quello sinistro e glorioso della battaglia contro i Guasconi della Piana di Roncisvalle.
Jack, metà oscura di Ralph, rosso (malpelo, come da tradizione) lentigginoso e aggressivo, espressione dell’istintualità più violenta e repressa nell’animo umano; ambisce dapprima a divenire leader della comunità; fallisce; organizza con i vecchi compagni del coro un clan di cacciatori, dapprima al servizio e infine ribelli nei confronti delle leggi di Ralph; erige il totem del Signore delle Mosche durante una battuta di caccia. È l’assassino della pace e della dialettica: è il sicario, o almeno il mandante, delle uniche morti del romanzo; è il simbolo della memoria atavica del cannibalismo. Tema neppure pronunciato, ma francamente continuamente aleggiante nel testo. Alludo, ad esempio, alle battute di caccia che si trasformano in danze, attorno ad un bambino che incarna l’animale assediato. Non è infrequente la sensazione che il piccolo possa tramutarsi effettivamente nell’obiettivo della caccia, e che possa divenire nutrimento della comunità.
Piggy, infine, è l’intellettuale, per così dire, del gruppo. Fisicamente poco prestante, lo si intuisce dal nome; asmatico e orribilmente miope, per giunta. È il primo consigliere e il primo amico di Ralph, nonostante sia spesso fatto oggetto di umiliazioni e insolenze. È la mente pensante della compagnia, la memoria più viva del sistema abbandonato, l’unico ad avere almeno tracce di conoscenze scientifiche e a manifestare un puro spirito dialettico e democratico nelle riunioni. Elemento simbolico da non sottovalutare è che, attraverso le lenti dei suoi occhiali, presto incrinate, i ragazzi possano far crepitare il fuoco. Piggy è un personaggio chiave. Non è forse un caso che la sua sorte sia una delle più tristi. Detto questo, non rimane che ricordare che da qualche giorno è in edicola una ristampa del volume nell’ambito della collezione di Repubblica; l’edizione a mia disposizione è una edizione speciale del 1983, uscita in omaggio con Epoca come tributo alla allora recente onorificenza attribuita al narratore inglese.
È un romanzo appassionante; lo stile è fluido e scorrevole, e i tempi di lettura sono particolarmente brevi. Ha le contraddizioni, i limiti e i pregi dell’opera prima: appassionante sino ad essere travolgente, ingenuo sino all’innocenza, grezzo come un manufatto artigianale. Indirizzato a chiunque voglia riflettere sulla natura umana, a chiunque voglia concedersi un bagno di pessimismo nelle brumose isole del Golding, e a tutti quelli che sono affascinati dall’opportunità di rinascita sociale e spirituale degli esseri umani in una terra nuova. Pregevole.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Sir William Gerald Golding (St Columb Minor, 1911-Wiltshire,Inghilterra, 1993), premio Nobel per la Letteratura nel 1983. Romanziere e poeta inglese.
William Golding, “Il signore delle mosche”, Edizione speciale per “Epoca”, 1983. Traduzione di Filippo Donini.
Prima edizione: William Golding, “Lord of the Flies”, 1954.
I edizione Oscar Mondadori:1966.
Gianfranco Franchi, aprile 2002.
Prima pubblicazione: ciao.com. A ruota, lankelot.