Rusconi
1986
9788818060362
Esistono dei libri che compaiono misteriosamente, nelle nostre vite. Può capitare di non aver mai sentito neppure nominare un autore contemporaneo, che pure pochi decenni fa conquistò una discreta fama, di sentirsi associati da un amico al suo stile e ad una sua storia, e di ritrovarsi tra gli scaffali di uno sconosciuto rigattiere etilista a scartabellare vecchi manoscritti ed edizioni recentissime, brancolando a stento, annebbiati dalla polvere; può capitare che, quel giorno, nel disordine dei settemila volumi di quella stravagante libreria quel romanzo capiti come per incanto tra le mani del ricercatore: quasi fosse venuto volontariamente incontro, completando un disegno magico. E allora prima di parlarvi di questo libro vi racconterò una storia. La storia di due giovani letterati, che si incontrano in un caffè virtuale sino a qualche tempo fa inesistente ed inimmaginabile, e si ritrovano a dialogare come torrenti di fuoco, d’arte, spirito e sogni; una notte, uno di loro viene folgorato da una reminiscenza…nel tuo stile, amico, in qualche frammento della tua anima, io sento riecheggiare un romanzo perduto…storia di un letterato prigioniero di Roma, affratellato nei secoli da una leggenda d’arte e letteratura e sentimento…quel che dovresti leggere, prima possibile, è “Il Segno del Comando” di Giuseppe d’Agata. Passa del tempo, e un pomeriggio piovoso, in una viuzza della città vecchia, a Trieste, il viandante s’imbatte in una libreria cristallizzata in un tempo indefinibile. Si aggira allora, come attratto dal richiamo del testo magico, per i sempre più stretti corridoi del negozio, diretto ad uno scaffale che pure mai ha conosciuto. Il libro si materializza. L’edizione è fortunosamente poco usurata e totalmente leggibile; abbandonata in una sezione da cinquanta centesimi al pezzo, quasi fosse priva di potenziali acquirenti, pare sorridere alla fortuna del viandante e si lascia andare tra le sue mani. Il viandante sorride, esce dal dedalo di conoscenza e polvere, e si allontana nella pioggia. Questo è un libro che domanda al lettore accortezza: è un codice segreto, un incantesimo fatato.
È la storia di un giovane critico letterario inglese, il professor Lancelot Edward Forster, e del suo viaggio misterico in una Roma confusa tra le rovine dell’antico passato glorioso e i silenzi intramezzati dallo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli nel settecento; diretto nella Città Eterna per tenere una conferenza sui diari recentemente scoperti di Byron, si trova immerso in una avventura che corromperà la sua razionalità e il suo equilibrio, tenendolo sospeso tra spettri di una bellissima modella di un pittore, reincarnazioni leggendarie, negromanzia e sedute spiritiche; ripercorrerà i passi di un perduto amore, dannato alla cristallizzazione nel dolore e nel ricordo più malinconico, e confonderà soavemente sogno e realtà. Le visioni sapranno prepotentemente avanzare e conquistare la sua mente e la sua immaginazione: ad un tratto parrà che tutto quel che avviene sia stato pilotato da un destino calibrato alla perfezione, simmetrico nelle analogie di secolo in secolo.
Il nostro Forster viene convocato in Roma da un pittore, Marco Tagliaferri: al suo arrivo, troverà a riceverlo dapprima una bellissima fanciulla, che solo di notte appare, e conosce l’arte della magia; e quindi un discendente indiretto del pittore, che gli svelerà che chi ha domandato il suo arrivo nella luminosa capitale della cultura occidentale è morto da circa cento anni. È solo il principio di un romanzo dalla narrazione seducente e scorrevole, tracciato dall’ispirata vena gotica del D’Agata, scrittore e critico d’arte misteriosamente trascurato e sottovalutato nel nostro tempo: sconcertante l’abilità nel tessere e nel dipanare una trama complessa e ricca di richiami alla musica, alla letteratura e all’arte della pittura; estraniante la tecnica visionaria adattata confondendo elementi reali ad altri onirici ad altri ancora semplicemente suggestivi; divertente l’humour di stampo britannico che attraversa senza sosta l’opera. Potremmo salutare, nel D’Agata, un precursore di certa parte della produzione narrativa di Tiziano Sclavi; con più ironia e più classe, senza ombra di dubbio, e senza dimenticare una strizzata d’occhio al “Giro di Vite” di Harry James o a certe atmosfere più prossime, diciamo, ad Edgar Allan Poe che a certe produzioni demoniache e favolosamente immaginifiche di Lovecraft. Pur non mancando morti violente, latitano completamente truculente e cruente descrizioni grandguignolesche; l’atmosfera è più prossima alla tradizione letteraria dei paesi germanici a anglosassoni, una storia di spettri e fantasmi dal sapore piacevolmente demodé e non priva del rispetto dei cliché canonici del genere: organi, finestre cigolanti, muti spettri che vagano indolenti e indifferenti per le perdute scale, codici segreti di musiche perdute e sinistre taverne dissolte dal tempo ed eternate dal sogno e dal rimpianto.
Fascinosa la presenza della romantica figura di Lord Byron in tutta l’opera: senza ombra di dubbio, inoltre, il richiamo al cimitero acattolico di Roma, alle tombe di Keats e Shelley chiude un cerchio di ammirato omaggio ad un eccellente momento artistico degli artisti inglesi, momento di simbiosi per giunta con la cultura e la tradizione nostrana. È un romanzo, questo, che può offrire numerosi livelli di lettura: ad una prima stratificazione si presenta come un’opera noir, ad una seconda come una novella tardogotica creata da un eccentrico letterato italiano, ad una terza come opera misterica. E non è forse un caso che proprio il nome del protagonista, Lancelot, pronunciato di rado e solo nelle primissime battute dell’opera, richiami liricamente e trasfiguri con uno stile impeccabile la tradizione che voleva il Cavaliere del Lago ignaro del proprio nome, sin quando non avrebbe scoperto la sua lapide funeraria, vergata da mani sconosciute in epoca anteriore: mi attendevo, e puntualmente ho riscontrato, un passo nella parte più avanzata del romanzo in cui il nostro Forster scopre una lapide con il suo nome inciso, e osserva sul marmo apparire – come in un incanto – il riflesso, e la memoria, della sua perduta esistenza. Poco importa che si tratti di una fase onirica della narrazione: semplicemente, questo atto può significare l’avvenuta presa di coscienza del proprio cambiamento nel personaggio protagonista, o l’elevazione ad uno stato di consapevolezza e conoscenza superiore. Probabilmente rappresenta la rinnovata, o ritrovata, apertura mentale del critico letterario inglese, che cede alla debolezza dei suoi schemi e del suo raziocinio ed inizia ad accettare la possibilità che quel che vede, quella mirabile convergenza di spirito e materia, leggenda e arcano e mistero, possa essere reale. Al lettore spetta l’interpretazione: la letteratura propone significati, non impone un senso definitivo e immutabile.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Giuseppe D’Agata, (Bologna, 1927 – Bologna, 2011), medico e scrittore italiano.
Giuseppe D’Agata, “Il Segno del comando”, Tascabili Economici Newton, Roma, 1994.
Gianfranco Franchi, maggio 2002.
Prima pubblicazione: ciao.com. A ruota, Lankelot.