Mondadori
2010
9788804603306
Altro che banditi incivili e incolti: i briganti che s'opposero alle truppe savoiarde erano patrioti ribelli, contadini esasperati dall'avidità e dallo sfruttamento dei latifondisti, cittadini delusi dalla mendace propaganda garibaldina. E quella che venne combattuta tra 1861 e 1870 fu la prima guerra civile italiana. Parola del padre dell'“Antistoria degli italiani.” Lo storico più coraggioso, spirituale e anticonformista del nostro secondo Novecento, l'etrusco Giordano Bruno Guerri, celebra con la disorientante onestà di sempre i 150 anni dell'Unità d'Italia pubblicando “Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio” (Mondadori, 300 pp., euro 20), una lettura penetrante e lucida delle vicende post-unitarie, vicende fondanti per determinare incomprensioni, ostilità e inimicizie tra le due metà della nazione. Lo storico senese ribadisce che la repressione del “brigantaggio” fu una guerra civile, insabbiata nei libri di scuola: anche Angelo Del Boca, qualche anno fa, in “Italiani, brava gente?" (Neri Pozza) già lamentava «non un cenno alla grande alleanza politica tra le classi dominanti del Nord e i latifondisti del Sud, a tutto danno delle classi subalterne». I briganti andrebbero chiamati con un altro nome nei libri di storia: ribelli. Tenendo presente, avverte Guerri, che è impossibile stendere una vera storia documentata del brigantaggio, perché larga parte dei documenti sono stati distrutti o censurati. Celebrare a dovere i 150 anni dell'Unità d'Italia potrebbe significare impegnarsi a «rintracciare i documenti mancanti, forse ancora nascosti e dimenticati». Perché senza memoria e senza giustizia un popolo cresce sghembo. E non impara a rispettarsi.
La storia del nostro Risorgimento è condizionata e contaminata da una retorica che ha costruito, nell'immaginario dei cittadini italiani, un passato leggendario fondato sull'eroismo e sul martirio d'una minoranza di combattenti che credevano nel Bene. Quel Bene era la fondazione dell'Italia. Le cose non stanno proprio così, e non ha senso raccontarsi favole. Serve, secondo il maestro Guerri, una «profonda opera di revisione storiografica». Perché s'è trattato d'una guerra civile: e perché a raccontarla, come sempre, è stato il vincitore. Un vincitore che ha imposto la damnatio memoriae sui vinti, riducendo i suoi massacri alla stregua di semplici operazioni di polizia. Guerri vuole che il Risorgimento sia recuperato per intero, nel bene e nel male. Perché è dall'Unità in avanti che questo ha saputo diventare un grande Paese. E cercare la verità a proposito di quanto è accaduto non può macchiare l'orgoglio della nascita di una nazione.
L'Unità d'Italia non seppe integrare tradizioni, culture e lingue diverse: Guerri sostiene che l'educazione all'italianità dei meridionali sia passata per una contrapposizione rancorosa. “Noi”, portatori di giustizia civiltà e legalità, contro “loro”, i briganti. A dividere le parti, spiega lo storico senese, «una diversità radicale e radicata, non un'inconciliabilità momentanea. Qualcosa di molto simile a un'estraneità».
Che significava la parola “brigante”? Guerri insegna che a introdurla furono i francesi: nel 1829 i nostri linguisti la consideravano ancora un neologismo. Prima ci si serviva di parole come “bandito” o “fuorbandito”. Secondo lo storico senese, oggi chiameremmo “briganti” dei “terroristi”, o dei “partigiani”. Oppure, aggiungiamo noi, dei “guerriglieri”. La ribellione di quanti non intendevano accettare l'Italia sabauda venne battezzata, insomma, con un francesismo d'accatto: “brigantaggio”. Adottato come sinonimo di “banditismo”.
Chi era, allora, il “brigante”? Tante erano le anime dei briganti. Erano combattenti ribelli, erano lavoratori esausti, erano cittadini che rifiutavano gli anni imposti dalla leva militare obbligatoria, nel nuovo Stato, ed erano nostalgici borbonici. Erano a volte disertori, a volte delinquenti, a volte romantici. «Terra, giustizia, onore, tradizione, orgoglio, cacciata dello straniero: erano questi i concetti che invitavano i briganti alla battaglia», insegna Guerri. Secondo lo storico Del Boca invece, si trattava di «almeno 10mila soldati dell'esercito borbonico, migliaia di braccianti senza terra e paesani che rifiutavano la leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali». Tendenzialmente, erano fiancheggiati dal clero. Erano tutti molto religiosi, e molto scaramantici.
Non mancavano le donne: secondo Guerri, si trattava di «partigiane ante litteram, antesignane di un femminismo istintivo e rabbioso, ribelli stanche di essere confinate – da sempre – al letto, al focolare e ai figli. Un esercito di nomi e di storie senza volto, un'escrescenza della storia, per decenni considerata ingiustamente marginale». E in questo libro finalmente trattate con rispetto, e con diversa sensibilità.
Quanti erano i briganti? Erano parecchi. Guerri riferisce che nel 1861 agivano, dall'Abruzzo in giù, 216 bande. Secondo Del Boca, si trattò di 80mila gregari divisi in circa 400 bande. Guerri spiega bene la loro visione della realtà: «I briganti non si sentivano 'italiani'. I nemici erano usurpatori, colonizzatori arrivati per conquistarli e per cancellare la loro storia, i costumi, i legami e le appartenenze». E com'erano, esteticamente? Considerando i tempi atroci che si vivevano allora, la pessima alimentazione, la scarsissima igiene e il sovrumano analfabetismo, oggi ci sembrerebbero mostri: non soltanto certi contadini non si lavavano quasi mai... I briganti «immaginiamoli magrissimi, di statura bassa, membra grosse, capelli ruvidi e irti, denti guasti, scuri, mancanti. Mani come pale, grosse di calli, dita non fusellate, corte, unghie nere. I pidocchi fanno parte della vita quotidiana, come l'aria». E Guerri parla dei contadini, non di quelli che sono andati alla macchia. In quel frangente le cose peggiorano con una certa facilità.
Questa guerra venne combattuta con una legge, la Legge Pica dell'agosto 1863, con cui il governo italiano – sacrosanto ricordarlo – «impose lo stato d'assedio, annullò le garanzie costituzionali, trasferì il potere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri». Caddero, secondo le cifre che Guerri considera più attendibili, addirittura attorno alle centomila persone tra i meridionali, complici i caduti per stenti, prigionia, disperazione, suicidio. Morale della favola? «Oggi, non si può più tacere che quella conquista comportò episodi da sterminio di massa».
Non mancarono episodi di violenza cieca e gratuita per mano sabauda, come i massacri di Pontelandolfo e Casalduni, completi di saccheggio e stupri: nascevano per rappresaglia, costituirono un focolaio d'odio. In entrambi i casi non ci fu nessun processo. Non c'è mai stata giustizia. E qualcuno voleva non ci fosse nemmeno memoria. Rumiz, su “La Repubblica”, in agosto, scriveva: «Quattrocento per quaranta. Dieci uccisi per ogni soldato, come alle Fosse Ardeatine. Oggi a Pontelandolfo c'è solo un monumentino con tredici nomi e una lapide in memoria di Concetta Biondi, violentata e uccisa dai soldati. Mancano centinaia di nomi, scritti solo nei registri parrocchiali. Il sindaco: "A marzo siamo stati finalmente riconosciuti come "luogo della memoria". Ma non ci basta: vogliamo essere "città martire" e che questo nome sia scritto sulla segnaletica. Vogliamo che l'esercito riconosca la sua ferocia». Pino Aprile, in “Terroni”, aggiunge: «Ma a Roma, i nazisti (oltre la strage delle Fosse Ardeatine) non ebbero poi il coraggio di distruggere anche il quartiere in cui era avvenuto l'attentato, come pure avevano ipotizzato. A Pontelandolfo e Casalduni si fece». Paesi che nel 1861 avevano rispettivamente cinquemila e tremila abitanti oggi ne hanno meno della metà. Questo il risultato.
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Economicamente, il Regno delle Due Sicilie era decisamente più ricco del Regno del Piemonte, almeno per quanto riguardava le riserve auree. Gli abitanti erano gli stessi, nel 1860: 9 milioni. Per i primi trent'anni, l'Italia del Sud fu ben sfruttata dal Piemonte, da questo punto di vista. D'altra parte, nelle terre borboniche non esistevano strade, se non in 227 comuni su 1848, e i chilometri di ferrovie erano decisamente pochi. Eppure, ad esempio, «un'infinità di progetti e decreti stabilivano la costruzione di nuove strade; quasi tutti rimasero impigliati nei lacci della burocrazia e nei contrasti tra comuni, signori, preti e quanti, tra vassalli e valvassori, si arrogassero il diritto di avere voce in ogni decisione. Il morbo è arrivato fino a noi».
Guerri ricorda che la base dell'economia meridionale restava l'agricoltura, fondata sul latifondo: i piemontesi non seppero risolvere il nodo della questione agraria, determinando così una delle principali cause del brigantaggio: lo scontento abnorme dei contadini. Che sognavano, naturalmente, una equa redistribuzione dei grandi possedimenti terrieri. A qualcuno di loro Garibaldi aveva promesso terra: ma quella delle camicie rosse non era stata affatto una liberazione sociale. Niente affatto.
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Tutti si ricordano una frase di Massimo d'Azeglio: «Si è fatta l'Italia, ma non si fanno gli italiani». Nessuno ricorda cosa pensava davvero l'intellettuale piemontese: «La fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso». Questa nostra amnesia racconta molto del nostro desiderio di mantenere un approccio costruttivo ed edificante, solare e dialettico, per arginare e risolvere i contrasti tra le due metà del Paese. Guerri tiene a puntualizzare che diversi tra i principali padri della patria, come Gioberti, Rosmini, d'Azeglio, Cavour, pensavano a un Regno d'Italia ben diverso, limitato a Piemonte, Lombardia, Veneto e ducati emiliani: «in pratica quella che oggi viene chiamata Padania», chiosa lo storico, ribadendo che si trattava delle regioni più piemontesi o “piemontesizzabili”. L'errore di piemontesizzare il Regno delle Due Sicilie ha determinato un secolo e mezzo di incomprensioni, risentimenti, invidie, vittimismi e gelosie. Probabilmente, peraltro, ha originato un'ondata di emigrazione di straordinaria intensità, prima verso altre nazioni o altri continenti, poi verso il settentrione. E negli ultimi 12 anni le cose non sono state così diverse, nonostante si sia fatto tutto il possibile per nasconderlo, complice la propaganda berlusconiana. 700mila cittadini dell'Italia meridionale hanno dovuto abbandonare casa, famiglia e tessuto sociale per andare in cerca di fortuna a settentrione. Laddove c'è qualcuno che sembra trattarli come creature antropologicamente differenti: e non da ieri, da sempre, ovvero da quando chiamava brigantaggio la loro ribellione.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Giordano Bruno Guerri (Monticiano, Siena 1950), scrittore, giornalista e storico italiano. Si è laureato in Lettere con una tesi su Giuseppe Bottai, poi pubblicata da Feltrinelli (1976). Già direttore del mensile “La Storia Illustrata” e de “L’Indipendente”, collabora col “Giornale”. Ha lavorato come redattore per Bompiani e Garzanti; è stato direttore editoriale Mondadori. È presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani.
Giordano Bruno Guerri, “Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio”, Mondadori, Milano, 2010. In appendice, ricca bibliografia, ricca sitografia ragionata, indice dei nomi e dei luoghi. Collana “Le scie”.
Gianfranco Franchi, ottobre 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Una lettura penetrante e lucida delle vicende post-unitarie, vicende fondanti per determinare incomprensioni, ostilità e inimicizie tra le due metà della nazione…