Einaudi
1961
9788806113612
L’ultimo libro di Giani Stuparich (1891-1961), pubblicato – a cura di Pier Antonio Quarantotti Gambini – poco prima della morte dell’artista triestino, è una raccolta di racconti strutturata in tre parti: nella prima, ecco “Un anno di scuola” (1929), l’eponimo “Il ritorno del padre” (1935), “Ricordi istriani” (1961); nella seconda, “Guerra del ‘15” (1931); nella terza, diverse prose tra le quali la celebre “L’isola” (1942).
È un libro fondamentale per quanti intendano avvicinarsi alla narrativa di Stuparich: è un florilegio di racconti, novelle, frammenti, prose liriche, ideale viatico alla lettura del suo miglior romanzo, “Ritorneranno” (1941); in queste pagine, l’immersione nella sua scrittura si rivela essenziale, limpida, melanconica e intensa. La vita del letterato Stuparich è stata segnata dalle tragiche vicende di Trieste e dell’Istria; irredentista nato sotto Triest absburgica, combatté sul fronte italiano contro i presto ex connazionali austro-ungarici: volontario, assieme a Scipio Slataper e al fratello Carlo Stuparich, entrambi caduti. Intriso d’un amoroso sentimento patriottico, artista già integrato nel circolo toscano di Prezzolini e de “La Voce”, dolorosamente vide spegnersi prima i due più grandi amici, quindi – nel tempo – quell’Istria italiana che aveva dato i natali (Lussino) a suo padre, Marco, quell’Istria che sentiva come parte integrante di Trieste, della sua anima, della sua storia famigliare, della sua formazione. La sua narrativa è inevitabilmente amarissima, elegiaca: è una memoria prima solare poi disperata di un mondo che s’avviava non solo alla dispersione, ma alla disgregazione, alla sparizione. È una testimonianza necessaria per decifrare il complesso e contrastato dna dello spirito di Trieste e dell’Istria: è un’esistenza, quella di Stuparich, fondamentale per capire cosa significasse e quanto fosse caratterizzante e nucleare l’italianità culturale della città, e quanto sia costata, in termini di sangue e di miseria e di morte, la battaglia per rivendicarla. Stuparich è la voce della mutilazione del territorio e degli affetti: è la commemorazione funebre di quello che poteva diventare il più grande letterato italiano del Novecento, Scipio Slataper, del valoroso e idealista Carlo, di quella terra del padre che sembra sprofondare, a un tratto, nella luce splendida e indissolubile della memoria.
Memoria che non può non essere condivisa.
Un libro come questo – difficile negarlo – non s’adatta a una recensione; piuttosto è idoneo per un saggio breve, o per una monografia. Mi limiterò, quindi, a campionare una serie di elementi interessanti, caratterizzanti, fondanti: senza pretesa di esaustività, auspicando piuttosto nuovi e fertili contributi critici da parte di chi mi sta leggendo.
“Il ritorno del padre” è un racconto che sembra fondere esistenzialismo ed allegoria: la misteriosa figura paterna, quella d’un avventuriero vagabondo, padrone della sua volontà e della sua vita, perfettamente libero, viene scoperta dal giovane erede, sedotto e affascinato dalla sua forza e dalla sua indipendenza. In questa prosa, il talento di Stuparich sta nello scolpire una nuova, commovente testimonianza dell’alchimia della paternità: della virile dolcezza d’una comprensione più alta, a dispetto magari di anni di silenzio, e d’una protezione che sgorga dal profondo dell’anima, totale e assoluta. Proprio quando sembra che il padre voglia andarsene, incapace di stare da solo con quello sconosciuto bambino che pure è suo figlio, allora scatta qualcosa, in un primo dialogo che pare un vagito tenerissimo; quella curiosità per le nuove fronde del vecchio albero che aveva abbandonato da anni genera una tenerezza splendida, un dialogo dolcissimo e credibile, vivo. Umanissimo.
Nei racconti de “Ricordi istriani” incontriamo la terra paterna, Lussinpiccolo: gli studi paterni a Capodistria, il successivo trasferimento a Trieste. Stuparich illustra le sue prime fantasticherie di bambino sull’ancora sconosciuta Istria: e le prime epifanie. “Intanto l’Istria continuava ad arrivare in casa coi suoi doni. Papà vi aveva molti amici, in ogni parte. Oltre agli scampi e ai fichi di Cherso, arrivano i dentici di Cittanova e le ostriche del Quieto, venivano le damigiane d’olio da Umago e i bariletti di vino da Parenzo, le sottili bottiglie d’un prelibato vino rosa da Dignano; veniva il capretto, il lepre, il formaggio pecorino dell’interno e le pesche e l’uva da Capodistria e da Isola.
Povera, la mia Istria? Quello che imparai più tardi dalla storia e dai confronti, mi rivelò che l’Istria era stata sfruttata, trascurata, impoverita. Ma allora, da bambino, io la stimavo la terra più ricca del mondo, più abbondante di doni preziosi. In realtà, anche se povera, e proprio perché povera, l’Istria è stata sempre una gran terra generosa” (p. 28). Terra splendida, di mare e di campagna mai tanto confusi e amalgamati come a Umago (cfr. “Sposalizio a Umago” e “Umago”, pp. 395-402): l’Istria è la terra dei primi amori, delle prime lotte, dello splendido ozio di Stuparich; è là dove io, nipote di esuli, ho imparato a nuotare, sognando che lo zio mi portasse finalmente nelle sue campagne, “l’Ungheria”.
Ecco il viaggio a Cherso, le memorie della figura mitica del nonno, elegante e ricercato, morto giovanissimo; e delle sue leggendarie imprese, di quel cavallo con cui entrò in un locale. E la percezione dei triestini istriani dell’avvicinarsi della terra promessa, a partire da quando si raggiungeva Muggia; i nonni aspettavano per festeggiare il nuovo ritorno: magari capitava che, per raggiungere Capodistria, il caporetto fosse quello comandato dal meraviglioso capitano Nazario Sauro, il San Giusto.
“Ma noi allora non facevamo distinzione tra Trieste e l’Istria, per noi era la stessa terra. Solo più tardi apprendemmo a scuola che la storia dell’Istria era stata in certi tempi del passato diversa da quella di Trieste. Ma, nella sostanza, avevamo ragione noi fanciulli di sentire che Trieste era l’Istria e l’Istria era Trieste: una realtà geografica, naturale, unica, una sola regione” (p. 35).
E ancora Stuparich racconta le giornate di pesca ad Isola, lo stravagante Kapellmeister di San Bartolomeo, la casetta nel verde a Umago, non lontano dalla Punta: le memorie d’infanzia e d’adolescenza, condivise col perduto fratello Carlo. L’impatto è toccante e commovente; c’è la gioia del bambino che Giani era, e il rimpianto terrificante dell’adulto che ha perduto tutto. Micidiale.
“Un anno di scuola” è la storia d’una classe di triestini sotto Triest austriaca: è una memoria deliziosa e avvincente, in cui protagonista assoluta è una ragazzina di Vienna, Edda, unica donna in un ginnasio maschile. Lei sogna d’essere trattata come un maschio, naturalmente innesca meccanismi inversi: adorata e idolatrata, diventa la segreta compagna del silenzioso Antero ma è vagheggiata dal povero Pasini, che arriva a spararsi per richiamare la sua attenzione, dall’irredentista Mitis, dal figlio della miglior famiglia della borghesia cittadina che vuole sposarla. S’è intanto innamorata del mare, ha smesso d’avere nostalgia per l’evoluta vita viennese: soffre per la malattia e la morte della sorella, che sembra essere congenita; sa, quindi, d’essere condannata, e tuttavia vive e ama con intensità e femminilità, fino in fondo. Sullo sfondo, giochi con la neve, la città che s’avvicina all’Italia, l’apparente austera freddezza del corpo docente, tutto l’estremismo dell’adolescenza che s’affaccia alla giovinezza, infine il congedo da un mondo che si sta per trasformare. È un documento prezioso della Trieste che fu, testimonianza dell’integrazione tra triestini e austriaci, dello stato e delle condizioni delle istituzioni scolastiche di allora, dei sogni dei giovani di quella generazione, e delle loro paura. È sinceramente pieno d’un franco sentimento d’onestà, pulizia, idealità.
Tra i racconti più belli della Prima Parte de “Il ritorno del padre”, c’è “La grotta”, in cui non fatico a indovinare una sconvolgente allegoria della sorte di Scipio Slataper e Carlo Stuparich. È un racconto d’una intensità accecante: è breve ma rimane scolpito nella memoria, per quanto si rivela incubotico, drammaticamente vivo, addirittura realistico. Tre amici partono per una nuova impresa, una nuova discesa nelle grotte; stavolta la grotta è la più fonda, la più pericolosa. Decidono di calarsi senza prendere adeguate misure di sicurezza. Due di loro scendono, “Uniti e Soli” come sempre sono stati: precipitano, e il terzo – sopravvissuto – dopo essersi faticosamente ripreso dall’angoscia e dall’orrore, corre a cercare aiuto, come in sogno; aiuto che non troverà facilmente. Infine vive, consapevole che dovrà spiegare a tutti perché lui solo sia rimasto vivo, e perché non ha condiviso la loro sorte. In sé ha le anime dei suoi compagni, ma il vuoto e la percezione di isolamento sono schiaccianti. È la sintesi d’un evento maledetto, che non può non venire letta in chiave simbolica. Le pagine s’incendiano, crepitano, gridano.
Nella parte terza, al di là de “L’isola” e dei già nominati racconti su Umago, meritano menzione almeno “La Bora”, “Una mattina di marzo a Miramare” – suggestivi bozzetti cittadini, di aspetti prima naturali quindi sociali – e “Continuità”, cronaca d’un ritorno dal sapore del pellegrinaggio sull’Altipiano di Asiago. Il pensiero è ancora per Carlo: “In questa conca silenziosa, alle pendici del Cengio, su cui passano le nuvole e, dopo uno scroscio di pioggia, appare per un momento il sole, ha vissuto le sue ultime ore mio fratello Carlo. Aveva combattuto ininterrottamente da due giorni; era solo ormai con pochi uomini, circondato da nemici, tagliato fuori dai suoi. Il pensiero che mi riconduce a quello che Carlo visse in quei momenti è intenso, ma non è cruccioso: cerco intorno e dentro a me stesso, mi raccolgo, rivivo” (p. 352) – per capire meglio quanto indissolubile fosse la percezione d’una comune sorte tra i due fratelli, è fondamentale leggere “Guerra del ‘15”, diario di guerra di Giani. A partire dalla partenza da Roma, Portonaccio, attraverso Firenze, Mestre, sino al fronte: tra benedizioni di popolane, soldati sbattuti e sudici, distribuzioni di sigari, cioccolata e cognac, apparizione dei primi feriti, sporchi, laceri e spaventati. Sino a un tratto, Scipio, Carlo e Giani sono assieme; vengono separati senza potersi salutare, in differita Carlo e Giani scoprono che Scipio è a Roma, ferito.
Partono con entusiasmo e orgoglio, volontari triestini di quella Trieste che si va a riconquistare; man mano, da una trincea all’altra, in condizioni igieniche indicibili, costretti a una guerra massacrante e intossicante, sembrano perdere di vista l’obbiettivo. Le notizie che giungono da Prezzolini sono tristi: Vivante s’è suicidato, Serra e Bellino sono caduti. Tutto si fa più confuso e lontano, fino alla separazione tra i fratelli Stuparich, tra Verona e Vicenza, con cui termina la narrazione.
A differenza di “Un anno sull’Altopiano” di Lussu, qui lo spirito dei combattenti è credibile e realistico, e mai ridicolizzato e guardato col distacco di chi ha cambiato idea, anni dopo, magari per ragioni politiche. Stuparich racconta con dovizia di dettagli la paura e la sofferenza dei soldati, ma anche il loro stato d’animo iniziale; non perde mai di vista l’ideale, è solo annebbiato dalla stanchezza, dalla lontananza (fatale) dei suoi due compagni. Viene ferito, ma eroicamente rimane al fronte, rifiutando l’ospedale; affronta fame, sete, pidocchi, ordini assurdi (cfr. p. 233, reazione degli ufficiali agli ordini che mandavano al macello i soldati); attende le bombe austriache, con coraggio.
È l’incarnazione perfetta, con Scipio e Carlo, del desiderio dei letterati triestini di riunirsi, a ogni prezzo, alla patria. Non si può non leggere con rispetto, ammirazione, devozione. Perché la suggestione è chiara: a differenza del libro bugiardo e neorealista del socialista d’accatto d’Armungia, qui si può affermare che è Storia, e non Letteratura d’uno e d’uno soltanto. È la ragione per cui chi sale i gradoni di Redipuglia non può che mormorare, nome per nome: grazie, e presente. Presente!, come Scipio Slataper, come Carlo Stuparich, come Giani: che a Roma muore nel 1961, e adesso voglio pensare felice, in nuovi e sterminati e letterari colloqui coi suoi fratelli, e uno sguardo colmo di speranza e di idealità per i contemporanei, impegnati a restituire quelle terre alla libertà e alle tante etnie, non a una sola, magari in una confederazione di nazioni e popoli che sappia sintetizzare e migliorare la lezione absburgica. Perché, Giani, il vostro sacrificio non è stato vano, nonostante l’Italia e gli italiani; la cultura di Trieste non s’è snaturata, né si snaturerà. Allora avevate ragione voi, di sognare qualcosa di diverso. Adesso ne abbiamo ragioni noi, perché in questo Stato corrotto, borbonico, pontificio e vassallo, fantoccio angloamericano, non sappiamo riconoscerci: e pensa, c’è chi vi sta dimenticando, e vi vuole rinnegare, relegandovi in manciate di righe nelle Storie della Letteratura.
Giani, sono quelli gli italiani. Non ti meritano.
Libro fondamentale, per tutti, in particolare per chi da Trieste e dall’Istria viene, o Trieste e l’Istria abita, e popola, e vive. Memoria superba, e grande Letteratura. Ritorno del Padre che bussa alle porte della vostra anima.
Aprite. Aprite, subito. Siate degni ospiti di questa carne, di questo sangue, di questa scrittura.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Giani Stuparich (Triest, 1891 – Roma, 1961), giornalista e scrittore italiano, di madre triestina (Gisella Gentili) e padre di Lussino (Marco Stuparich). Iscritto all’Università di Praga, si trasferì assieme a Slataper all’Università di Firenze. Si laureò in Letteratura Italiana con una tesi su Machiavelli.
Giani Stuparich, “Il ritorno del padre”, La Biblioteca del Piccolo, Trieste 2003.
Prima edizione: “Il ritorno del padre”, Einaudi, 1961. A cura di Pier Antonio Quarantotti Gambini.
Approfondimento in rete: Wikipedia
Bibliografia completa degli scritti di Giani Stuparich: André Thoraval (Trieste, Alcione, 1995); Bibliografia critica: Giusy Criscione (Trieste, Alcione, 2001).
Gianfranco Franchi, 4 Agosto 2007.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Raccolta di racconti strutturata in tre parti: nella prima, ecco “Un anno di scuola” (1929), l’eponimo “Il ritorno del padre” (1935), “Ricordi istriani” (1961); nella seconda, “Guerra del ‘15” (1931); nella terza, diverse prose tra le quali la celebre “L’isola” (1942).