Rizzoli
1980
Sorpresa: passati i sessant'anni, Carlo Cassola contraddice la sua estetica e si concede un romanzo storico. Storico e basta? Storico-politico, va da sé. E ben ideologico. Era il 1980, si viveva il clima politico del “compromesso storico”: s'andava cercando di fondare una solida e duratura alleanza tra le forze democratiche di centro e quelle di sinistra, riconoscendo fraternità o almeno similitudini tra il vangelo spirituale di Gesù e quello tutto materiale di Karl. Non tutta la sinistra era convinta dell'opportunità di questa scelta; non ne era affatto convinta la sinistra dogmatica, rivoluzionaria (e intollerante, e non proprio pacifista). Da posteri riconosciamo quanto sana e santa sia stata la scelta d'un sentiero dialettico e democratico. Cassola, forse, non era di questo avviso. Cosa s'inventa allora il nostro artista romano-grossetano? S'inventa una storia che si può leggere così: il lamento d'un vecchio rivoluzionario che non accetta che il suo partito sia cambiato, e rifiuta quindi totalmente la strada intrapresa. Come? Ambientando la vicenda nell'antica Roma, nel IV secolo dopo Cristo, quando – terminata la repressione dei cristiani – Roma scelse la strada dell'integrazione, dell'assimilazione e dell'evoluzione. Quando Roma preferì, diciamo, optare per la piattaforma di lotta del compromesso storico, cioè e nella misura in cui. C'è da divertirsi.
Severiano, ex apostata, è vedovo e vive da solo. Le sue figlie si sono sposate e fanno la loro vita. Ha amato molte donne, convinto che la gioia di vivere coincidesse con la gioia di creare; non era un cristiano “rigorista”, amava il libero amore. Molto ante litteram, è il caso di dirlo. Per tutta la vita ha scritto, sentendosi condizionato sempre dai compagni: li chiama proprio così, i cristiani, “compagni”. “Scrivendo, avevo sempre in mente loro. Ogni volta mi domandavo: potrà Bucco, oppure Pusillo, capire quello che dico?” (p. 246). Bel problema.
Invecchiando, è rimasto uncinato a un sogno: quello della rivolta delle coscienze. “Una speranza per il lontano futuro”, pronostica, marpione. Ha sempre rispettato il dogma, e paradossalmente qualcuno ha voluto chiamarlo scismatico. Invece no, lui era uno fedele alla linea. “Severiano era un ribelle per costituzione, un indisciplinato per natura. L'aveva dimostrato già da giovane, ribellandosi ai genitori e andandosene di casa. Per una cinquantina d'anni aveva fatto parte della chiesa: ma c'era voluta la pazienza dei vescovi a sopportarlo. Giacché egli era insofferente di ogni forma di disciplina” (p. 255)
Educato da un asiatico, conosceva bene il greco. Figlio di patrizi, gentili, era stato allevato nella fede dei padri e nel culto della romanità. D'altra parte era Romano, non vi stupisca. Diventato cristiano attorno ai vent'anni, unendosi a quelli che erano tendenzialmente schiavi, sognava l'uguaglianza e predicava la povertà di tutti. Si battezzò pensando che poteva essere una condanna a morte. Già: nei giorni delle persecuzioni di Diocleziano e Massimiano, non a caso, era scampato fortunosamente a una condanna a morte. Grazie a Dio era rimasto tra noi.
Pensava che la voce del popolo fosse la voce di Dio. Si sentiva un idealista. Credeva che la realtà fosse composta anche di quel che potrebbe esserci, non solo di quel che c'è. Questo bastava a farne un rivoluzionario (p. 90), assieme alle sue (queste, sì, magnifiche) prediche contro l'abolizione della schiavitù, e ai suoi sogni d'un mondo completamente cristiano.
Severiano credeva, come alcuni suoi posteri, che lo Stato fosse la vera incarnazione del demonio (p. 127). E quindi voleva combattere lo Stato, non voleva che lo Stato integrasse e tollerasse i cristiani. Perché – sospettava – così i cristiani si sarebbero imborghesiti: vale a dire, romanizzati. Dedicandosi magari al commercio (orrore!), imparando magari l'arte della tolleranza (atroce!).
Già, Severiano si scontrava spesso col padre su questo brutto campo minato. “Devi ammettere che noi gentili siamo molto tolleranti... Almeno questo merito, ce lo vorrai riconoscere”. “Siete tolleranti perché non credete in niente”. “Chi dice il contrario? Voi, che avete una fede cieca nella vostra religione, rischiate di portare l'intolleranza nel mondo”. “È un rischio che bisogna correre – risponde, pragmatico, Severiano – Fede e intolleranza vanno per forza insieme” (p. 93). Ecco, pane al pane e vino al vino. Il cristiano di Cassola è un favoloso intollerante. Questa mi sembra una signora novità, dal punto di vista teologico. Chissà cosa ne pensava San Francesco. E chissà cosa ne pensavano, alle Botteghe Oscure. Quei relativisti!
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Vita nell'antica Roma. Qualche cartolina. “Se non fosse stato per la protervia dei soldati, la loro vita non avrebbe potuto dirsi cattiva. Molto migliore, certo, di quella dei proletari romani. Anche i contadini che vivevano nelle grotte avevano più spazio a disposizione; il vitto in campagna era indubbiamente migliore che in città. Dovevano sgobbare, certo, perché la campagna rendesse loro qualcosa: giacché la metà del prodotto, anche di più, andava al proprietario del fondo. Il che, secondo il fratello, era giustificato dal diritto di proprietà” (p. 57). Il resto ve lo lascio immaginare.
Il centro sembrava un'oasi di civiltà e di magnificenza, ma le periferie raccontavano tutti i contrasti del mondo. I proprietari delle case erano tutti rapaci: mettevano sulla strada “i proletari che non erano in grado di pagare l'affitto” (p. 139). Suona famigliare? Suvvia, è un romanzo. Storico.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Carlo Cassola (Roma, 1917 - Montecarlo, 1987) scrittore e saggista italiano.
Carlo Cassola, “Il ribelle”, Rizzoli, Milano 1980.
Approfondimenti: WIKI it
Gianfranco Franchi, febbraio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Bizzarro romanzo storico di Cassola, non del tutto riuscito…