Adelphi
1996
9788845912436
“Il ragno nero”, romanzo breve del 1842, è salutato da un letterato come Elias Canetti come il capolavoro di Jeremias Gotthelf, narratore svizzero di lingua tedesca. È un libro che contiene intense ed efficaci descrizioni della quotidianità e della natura del bernese – tratto, questo, distintivo dell’opera omnia dello scrittore elvetico – e risulta, per la sensibilità del lettore contemporaneo, più interessante come documento, o come ritratto, d’una società e d’un tempo che affascinante e godibile come opera di fiction. La causa è facilmente individuabile nell’argomento dell’opera: la vicenda, narrata da un anziano durante i festeggiamenti d’un battesimo, è situata in un passato lontano secoli; la storia narrata lascia basiti per un buon numero di ragioni. In primo luogo – e si tratta d’una nota dolente pacificamente riscontrabile in ogni altro libro di Gotthelf – si ha la fastidiosa sensazione di dover testimoniare sermoni e prediche d’un religioso, tanto da avere il sospetto che tutto quel che viene descritto altro non sia che una blanda motivazione per poter catechizzare il lettore. Considerando che gradiamo e gradiremmo la letteratura fosse e rimanesse estranea alle concioni dei prelati d’ogni ordine e grado, troviamo grottesco che testi tanto intrisi di (non troppo velate) omelie attraversino i secoli. A meno che non si voglia suggerire al pubblico una lettura satirica.
In seconda battuta, salutiamo nella narrativa di Gotthelf una visione del mondo conservatrice e reazionaria che risulta francamente stucchevole, quando non precipita nel grottesco. Per intenderci, “Il ragno nero” ospita frammenti del genere: “(…) simile all’onore familiare, cui basta un’ora sola di inavvedutezza per deturparsi con macchie che, simili a chiazze di sangue, si conservano inestinguibili di generazione in generazione ridendosi d’ogni vernice” (p. 12) – considerazione indice di quantomeno bizzarra intelligenza, appunto.
In terza battuta, se l’argomento del libro può essere presentato come esempio di “aneddotica gotica”, quel che parallelamente ne emerge è raccapricciante: assistiamo all’esistenza di una comunità che domanda messe per “difesa e scongiuro” (p. 58), che s’affida solennemente agli esorcismi (p. 73, e altrove), che paventa la vendetta del “flagello di Satana” e viene ammaestrata a vivere nel timore di Dio. L’epifania di questo “ragno nero”, che leggiamo in quarta di copertina proposta come prima apparizione da protagonista dell’inconscio, altro non è – semplicemente – che un drammatico e nitido esempio di quanto e come la Chiesa si sia servita della superstizione e dell’ignoranza del popolo, mulinando immagini e incarnazioni sataniche con irripetibile generosità, per dominare e governare. Con il terrore, e con le menzogne. Accantoniamo dunque il concetto di “inconscio”, e non solo per ragioni filologiche. Concentriamoci piuttosto sulla bassezza etica ed estetica di uno scrittore che poteva, con un’opera del genere, avallare aberranti superstizioni e confermare tetri moralismi. Per questo, prima di tornare a discutere del testo, non trovo fuori luogo ricordare il significato di una parola chiave del libro: esorcismo.
M’affido, da onesto laico (o da mite demonio d’ampie vedute), al Lessico Universale Treccani. Esorcismo: “Scongiuro mediante il quale con parole (formule), azioni (gesti) e oggetti la persona investita di un potere sacro, in forza di questo o dell’invocazione di un essere soprannaturale, scaccia una potenza avversa e malefica (…) Nel cattolicesimo è compiuto dal ministro del culto in nome della Chiesa, allo scopo di cacciare i cattivi influssi spiritici che danneggiano persone o cose: è, quindi, uno scongiuro per mezzo del quale si vuol costringere il demonio ad uscire da un ossesso o a non danneggiare qualcuno”. Più avanti: “Il rito di esorcismo constava, fin dalle origini, di due elementi: a) una preghiera a Cristo perché venisse in aiuto di colui che è posseduto dallo spirito maligno e: b) un’apostrofe di comando (o scongiuro), espressa in termini o gesti minacciosi rivolti contro il demonio nel nome di Gesù, perché lasciasse il possesso di quella creatura di Dio”. Maiuscole, ovviamente, dell’estensore della nota: non mi permetto di correggerle. Nei primi tempi della Chiesa – si legge poco oltre - a ogni fedele era riconosciuto il potere di cacciare i demoni. La disciplina canonica attuale manifesta un atteggiamento ovviamente differente. Quanti fossero interessati ad approfondire possono consultare il Lessico Universale Italiano, vol. VII, p. 252, dalla voce “esorcismo” alla voce “esorcizzatore”.
Fino a pagina 38, “Il ragno nero” è una divertente e, presumiamo, fedele rappresentazione d’un microcosmo, come quello della società ottocentesca del bernese, che strappa qualche sorriso per tono e stile delle descrizioni della natura e degli usi e costumi, e per qualche battuta sulla decadenza delle nuove generazioni; d’un tratto – dal momento in cui principia il “vero” romanzo – sprofondiamo in un’epoca buia che non sembra del tutto estranea, nello spirito e nei valori, ai protagonisti della sezione “contemporanea”. È la vicenda del feroce e spietato Hans von Stoffeln, che ordinò ai contadini di costruirgli un castello in un luogo impervio e inadatto e di piantare cento faggi a tempo da record, onde evitare micidiali rappresaglie. Ai disperati popolani non rimane che accettare la proposta di un buffo ometto, vestito di verde, dalla barba rossa; costui, ovviamente, è il demonio che viene a offrire i suoi servigi. In cambio d’un bimbo non battezzato, baderà personalmente ai cento faggi. Una forestiera (ovviamente: un’estranea ai valori e ai principi della laboriosa e cristiana comunità), Cristina, crede di poterlo beffare e suggerisce ai compagni di accettare l’offerta. Sta di fatto che, suggellato il patto con un bacio a fior di labbra, i tentativi di gabbare il povero diavolo vanno a buon fine; tuttavia, sulle gote dell’astuta ed empia forestiera appare, nel tempo, un ragno nero. Questo terribile stimma della sua colpa non commuove la comunità, che sembra volerla lasciare andare al suo destino di compare del Cornuto. Il resto della vicenda si sviluppa per crescente psicosi della cittadinanza, orrende apparizioni e geminazioni del ragno, mesto epilogo della vita di Cristina e – previe splendide azioni dei preti ed eroica resistenza dei bernesi – cattura del ragno. Non mancano bibliche punizioni a danno del malvagio Hans e dei suoi cavalieri, e dei contadini: e ovvie e logorroiche lezioni di moralità e di bigottismo da parte del narratore. È un libro che andrebbe accuratamente contestualizzato, per diverse ragioni; e non certo restituito alla luce come il libro in cui l’inconscio “esige per la prima volta il ruolo di protagonista”. Una differente presentazione dell’opera avrebbe evitato l’irritazione del lettore, e permesso di costruire pregiudizi più adatti all’incontro con il romanzo in questione. Assolutamente sopravvalutato.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Albert Bitzius, alias Jeremias Gotthelf (Murten, 1797 – Lützelflüh, Kanton Bern 1854), scrittore svizzero, di lingua tedesca. Studiò Letteratura e Teologia a Berna.
Jeremias Gotthelf, “Il ragno nero”, Adelphi, Milano 1996. Traduzione di Massimo Mila. Contiene due saggi: Gottfried Keller su Jeremias Gotthelf e “Il ragno nero” di Elias Canetti.
Prima edizione: “Die schwarze Spinne”, 1842.
Gianfranco Franchi, agosto 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.