Il ragazzo morto e le comete

Il ragazzo morto e le comete Book Cover Il ragazzo morto e le comete
Goffredo Parise
Adelphi
2006
9788845920745

“Morire sarà una grande meravigliosa avventura”, scriveva Barrie in “Peter Pan”; forse perché, come cantava un poeta romano, giovanissimo, negli anni Settanta, “Ferirsi non è possibile / morire meno che mai / e poi mai” (“Pezzi di vetro”, 1975). Parise sembra aver capito e condiviso la lezione, come tutta la gioventù occidentale, nemica della morte, avventurosa sognatrice d'una vita al di là della vita, non metempsicotica, ma inalterata: è il vangelo dell'eternità dell'anima, della sua unicità, della sua irripetibilità. È il nobile e antico sogno della sconfitta della Grande Nemica. Questo suo romanzo si prende gioco della morte, e della nostra scarsa sensibilità: se soltanto ci guardassimo bene intorno, ci potremmo accorgere che chi se n'è andato per un bel po' rimane, o per un bel po' è rimasto, in questo mondo. Standosene per bene sulle sue, preferendo ritirarsi nei posti preferiti, evitando – per quanto possibile – la nostra compagnia. È una gran bell'idea. È un sogno. Tutto letterario, e scritto con animo di poeta ragazzino e sfrontato, e capacità evocative inconsuete nel nostro Novecento. È un esordio di lusso, “Il ragazzo morto e le comete” (1950), pieno di personalità.

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“Trentasei anni fa, quando uscì il Ragazzo morto e le comete, nessuno, anche se pronto a giurare sul talento di Parise, poteva prevedere che il fortunato romanzetto di un esordiente, dove si trasfigurava fino a renderlo grottesco e irreale un paesaggio di macerie, bunker abbandonati e pieni di merda, canali maleodoranti, topi, pappagalli e rifiuti di solaio, si sarebbe candidato a diventare, col tempo...” (Cesare Garboli, Repubblica, 6 giugno 1987). Si sarebbe candidato a diventare, col tempo, qualcosa che Montale avrebbe definito così: “Siamo di fronte a una sostanza poetica che ribolle e rifiuta di assestarsi entro schemi definibili” (fonte: bandella Adelphi). Pampaloni avrebbe chiosato: “Parise trovava la forza di dare l'estremo addio ad ogni immagine di speranza, e trascinava in questo addio l'incanto della sua adolescenza su cui la guerra era caduta come una mannaia inesorabile” (fonte: postfazione di Perrella, p. 171).

“Il ragazzo morto e le comete” (Neri Pozza, 1950; Feltrinelli, 1965; Adelphi, 2006) è stato il romanzo d'esordio d'un giovanissimo Parise. Uscì, e commercialmente fu un disastro; forse perché, in piena epoca neorealista, dava una lezione di scrittura onirica, spirituale e allegorica a una nazione malata di marxismo, almeno nella cultura. Neri Pozza, primo scout dell'autore, raccontava di essersi scontrato con “l'ostinazione spavalda” d'un esordiente che non aveva la minima intenzione di sgrossare il suo romanzo, rimasto così “frutto dolorosamente di un grande talento”. Le varianti sarebbero apparse soltanto nella nuova edizione del 1965. Parise raccontava una storia ambientata nei giorni tristi e atroci della Seconda Guerra Mondiale, in una provincia italiana massacrata dai bombardamenti, e dalla lugubre normalità della morte acerba di giovani innocenti. E partendo da questo contesto finiva per scrivere un romanzo fantastico in cui i morti potevano tornare sulla terra, essere visti, addirittura interagire con i vivi. I colori ragazzini del libro – quelli dei protagonisti – non sono una giustificazione di questa fantasia, intrisa di profonda spiritualità; sono, al limite, la conferma della loro spudorata, magnifica innocenza.

Perrella, nella postfazione, assimila questo romanzo al “Palomar” di Calvino, storia d'un signore che cerca d'imparare a essere morto. “Con la differenza che in Parise si tratta di un ragazzo già morto che dall'aldilà lancia gli ultimi sguardi verso il mondo dei vivi, mentre in Calvino è messo in scena un melanconico signore di mezz'età ancora vivo che prova a vedere oltre la parete della vita. In entrambi i casi si tratta di sguardi: la morte è un punto di osservazione radicale ed estremo, e attraverso questi sguardi si può avere un'immagine del secondo Novecento italiano” (p. 173). Parise – scrive il curatore che ha sostituito, con merito, il povero Garboli – crea come guidato da un istinto di rabdomante, e le sue immagini sgorgano “precise e potenti” (p. 169).

“Preciso” e “potente” sono due aggettivi davvero adatti a descrivere lo stile di Parise, sia reporter che narratore. Nel “Ragazzo morto” manca la crudezza degli articoli scritti al fronte, da adulto, e del romanzo postumo “L'odore del sangue”. C'è tutta la classe d'uno che aveva capito che la realtà, in letteratura, è tutto quel che vogliamo che sia, e il realismo è un clichè stupido e freddo.

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La guerra è finita. Tutti sono cresciuti, ma non il ragazzo che era sempre con loro. Lui è rimasto quindicenne. Giocavano assieme a far scoppiare petardi e bombe a mano nelle piazze delle città, fumando sigarette americane e giocando – imprudenti – con le rivoltelle vere. Il ragazzo e Fiore andavano a imboscarsi con le morose insieme, poi tornavano in città e si sentivano i padroni del mondo.

Parla Fiore. “Fiore, che buffo nome, vero? Ma tanto non posso farci niente, non posso inventarmene un altro. Lui aveva quindici anni; mi diceva sempre che ero il suo più grande amico. Era così, infatti; chi ci vedeva mai se non a braccetto insieme? A casa mia, in giro per le strade, al cinema, seduti sotto i monumenti con un gelo maledetto, in bicicletta uno sopra l'altro, dappertutto” (“Il ragazzo morto e le comete”, p. 37).

E quel buffo amico viene ucciso a quindici anni, composto dai becchini come un burattino, goffo e straccione, e restituito alla terra. Avrebbe fatto sedici anni qualche giorno dopo – l'otto dicembre millenovecentoquarantacinque. Lo stesso giorno in cui è nato Parise, otto dicembre. Curioso.

Non era povero. Andava bene a scuola. S'era innamorato d'una biondina speciale, Edera, troppo tenera e remissiva e facile preda di tanti maschietti. Lui solo aveva capito che in lei c'era qualcosa di diverso, di stupendo, di misterioso. Non aveva fatto in tempo ad averla. Però aveva giocato con Primerose, in cantina, sentendo “il riso sottile del barone di Münchausen dai capelli arroventati, dai baffi a punta e dagli occhi suadenti sotto l'ombra nera del tricorno” (p. 33).

I ragazzi erano cresciuti sotto i bombardamenti, non s'erano mai persi il triste spettacolo “degli scoppi e delle colonne di fumo che salivano nel cielo arroventato” (p. 44). Della guerra avevano capito soltanto che uccideva.

Parla Antoine Zeno, ci racconta che era molto suo amico. “Tanti ragazzi sono morti durante la guerra, sotto i bombardamenti, sepolti dalle case distrutte; e tanti sono morti anche dopo la guerra. È una pena vedere dei giovani morire così; ma cosa potrei dire di più? Niente. Ora che lui se n'è andato, è inutile parlare. So soltanto che una mattina è stato trovato morto” (p. 81).

Ma è morto davvero? Considerando quanto pensava Parise (cfr. “I movimenti remoti”) soltanto qualche anno prima, non è proprio così. È in una sorta di limbo. Quando scendiamo sottoterra, non siamo morti del tutto; quelli che scendono, dice a un tratto Antoine, “Non sono morti del tutto, caro mio, prima devono marcire, devono sparire nella terra, il più presto possibile, andarsene, buttar via tutto. Credimi, non è facile dimenticare; noi li dimentichiamo, ma loro, poveretti, restano oltre il nostro ricordo. La terra, serve poco; sai, ci vogliono anni per marcire, per liberarsi della carne; e poi le ossa, dure come pietre, che si sciolgono un poco, un poco alla volta, caro mio: dopo dieci anni si spellano un pochino; dopo altri dieci, se la terra è buona e l'acqua vien giù a diluvi, allora cominciano a marcire, ma poco, soltanto alla superficie. Così passa il tempo e loro stanno lì fermi senza muovere un dito, rabbiosi e cattivi, ad aspettare i temporali per fare più presto. Poi, poi c'è la cosa più brutta di tutte (…) vanno in giro per la città, per le case, e vengono a salutarci. (…). Non mangiano più come noi, ma non hanno finito di pensare. Nessuno sa cosa sono, mio caro, e forse non sono niente” (p. 89).

Più avanti, scopriamo che “Dopo morti diventano tutti egoisti, non pensano che a se stessi e non si danno da fare per venire da noi. Hanno le loro case, i loro luoghi preferiti, ma i parenti o gli amici, di rado vanno a trovarli; a loro non interessa gran che, Fiore caro, di noi; come noi non c'interessiamo di loro. È meglio lasciarli stare; che vadano dove vogliono, purché non ci vengano a seccare con le loro lamentele” (p. 134).

Ma Fiore ha una gran voglia di rivedere il suo vecchio amico, e ci riuscirà. Il ragazzo è schivo e timido, e non sa farsi una ragione di quanto accaduto; esiste ancora, soltanto sa che tutto è diverso. Ma una cosa può prometterla, al piccolo Fiore. Che troverà un altro amico, e stavolta non morirà così presto.

Questa è una favola, infine, nemmeno una poesia. D'amicizia e di morte, di speranza e di sogno. Bella. Imbronciata, seria ma dolce, come una ragazzina.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Goffredo Parise (Vicenza, 8 dicembre 1929 – Treviso, 1986), scrittore, sceneggiatore e giornalista italiano.

Goffredo Parise, “Il ragazzo morto e le comete”, Adelphi, Milano 2006. A cura di Silvio Perrella.

Prima edizione: Neri Pozza, 1951. Quindi, Feltrinelli, 1965.

Approfondimento in rete: WIKI it / Casa di Cultura Goffredo Parise
Gianfranco Franchi, marzo 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.

È un esordio di lusso, “Il ragazzo morto e le comete” (1950), pieno di personalità.