Gaffi
2011
9788861651043
“Dopotutto, nella vita, c'è dato di dedicare la nostra attenzione a pochissime cose. La difficoltà è capire quali siano quelle che veramente nascondono il segreto della nostra esistenza: quelle cose che appartengono al segreto della nostra unicità come il frammento di uno specchio, perduto il quale la visione dell'insieme scompare” [Andrea Caterini].
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Sostiene Andrea Caterini, narratore e lettore forte capitolino classe 1981, che la critica sia un'irrimediabile autobiografia. E che il critico tenda a parlare di sé per mezzo delle sue impressioni di lettura: e finisca per servirsi di espressioni altrui per rappresentare i propri stati d'animo e le proprie emozioni. Come per andare a colmare una lacuna, in altre parole. Il suo maestro Enzo Siciliano scriveva che “negare l'autobiografismo di ogni nostro gesto significa impossibilitarsi al collettivo, alla responsabilità del collettivo. Significa, cioè, negarsi all'unico vero rapporto col diverso – rapporto che non può nascere mettendo tra parentesi quello che noi siamo”: l'allievo non ha faticato a riconoscere la bontà di questa posizione, e se ne è fatto forte con grande naturalezza e discreta semplicità.
Sostiene Caterini che non esista studio critico se non come esperienza di una scoperta personale; e che critico si nasca, così come si nasce narratore o poeta. E così, volontariamente dimentichi della sua storia autoriale, andiamo incontro a questo suo primo specchio critico consapevoli, col suo postfatore Stefano Gallerani, che AC appartiene “a quel genere di interpreti che anche quando danno mostra del maggiore distacco possibile non abdicano mai all'intenzione di raccontare la propria storia”. E magari sussurrano qualche consiglio per prendere le misure ai propri romanzi, va da sé.
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“Il principe è morto cantando” è un'antologia di pagine critiche di Andrea Caterini, dedicate a Dostoevskij, Dickens, Moravia, Henry James, Enzo Siciliano, Tomasi di Lampedusa, Joseph Conrad e all'istriano Pier Antonio Quarantotti Gambini. Personalmente ho trovato più divertenti e interessanti le pagine dedicate a quegli artisti, come Siciliano e Quarantotti Gambini, che sin qua non sono stati benedetti e omaggiati da valanghe di pagina di critica letteraria – e questo al di là degli intenti autobiografici autoriali.
Il saggio è diviso in quattro parti: “La coscienza”, “La figura”, “La storia” e “La scoperta”. Secondo l'intellettuale romano, sono “tappe necessarie di un unico discorso”. E in questo unico discorso autobiografico, che qui provo a sintetizzare senza annoiare e senza equivocare, Caterini s'emoziona per la compassione che Dostoevksij provava per i suoi personaggi, e rivela che quella compassione nasce perché il grande russo aveva capito che il dubbio è “il vero monito della conoscenza dell'uomo e di Dio”. E medita sull'invincibile natura delle ossessioni nella (ripetitiva) narrativa di Alberto Moravia, e sulla coscienza della crisi che ogni personaggio moraviano ha vissuto; e sulla paura, dei personaggi di James, che l'alterità finisca per “mettere in crisi la propria programmaticità”. Caterini poi rileva che Dickens aveva certamente a cuore le questioni sociali, ma più ancora “mettere in evidenza la sua poetica: insomma, si preoccupava dell'eternità della sua opera”, e che al papà di “David Copperfield” interessava, di Shakespeare, “la capacità di essenzializzare la vita – quindi la capacità di metterla in difficoltà, portandola al suo momento di crisi affinché possa manifestarsi interamente”. In Conrad il critico legge un singolare esito dell'impresa dell'eroe; vale a dire, un tenace mancato ritorno a casa: vale a dire, un fallimento dettato da un destino ineludibile.
Rileggendo il gran “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, Caterini osserva che si tratta del “grande romanzo del desiderio, se si accetta che questo sia strettamente legato all'esperienza della morte”: perché “si desidera ciò a cui si vuole fare ritorno”, e “tornare alla morte significa osservarla come il principio di un disvelamento”. E che il senso profondo della storia è quando il mondo intero va a svelarsi attraverso il destino di un uomo solo. Il Principe è il depositario di un'intera tradizione “che tiene su di sé tutto un carico di significati che hanno a che fare col mito. Dove il mito è ancora il rapporto di sacralità tra l'uomo e le cose, tra la realtà e l'io”.
E quanto, infine, al dignitoso e borghese narratore istriano Pier Antonio Quarantotti Gambini, Caterini registra la sua provvisoria, relativa rimozione (in questo momento, in libreria, si possono ordinare soltanto quattro suoi libri: “I nostri simili” - Einaudi, 1981; “Neve a Manhattan” - Fazi, 1998; “L'onda dell'incrociatore” - Sellerio, 2000; “Le redini bianche”, Isbn, 2011. Mancano, per dire, “Primavera a Trieste” e “La rosa rossa”), indicando, per ogni evenienza, in Raffaele Manica “uno dei pochissimi critici ancora interessati all'opera di QG” - e dimenticando Guido Davico Bonino. Quindi, ne apprezza “un'idea di lavorio della scrittura che si costruiva lenta e raffinata”, “un'eleganza del mestiere che mostrava quanta precisione ed esattezza lo scrivere potesse raggiungere”, e un ordine decisamente smarrito nella nostra epoca – almeno, sin qua. Cresce, a questo punto, l'attesa per il terzo romanzo di Caterini. È già nell'aria... e forse abbiamo già capito di cosa sarà intriso: consapevolezza.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Andrea Caterini (Roma, 1981), scrittore e critico letterario italiano. Ha esordito con “Il nuovo giorno” (Hacca, 2008). Ha curato il “Diario italiano 1997-2006” di Enzo Siciliano. Collabora con “Nuovi Argomenti” e “Il Riformista”. È ufficio stampa Gaffi.
Andrea Caterini, “Il principe è morto cantando”, Gaffi, Roma, 2011. Contiene una bibliografia essenziale. Postfazione di Stefano Gallerani. Copertina di Marilù Eustachio. ISBN 978-88-6165-104-3.
Gianfranco Franchi, gennaio 2012.
Prima pubblicazione: Lankelot.