Thyrus
2006
Uno dei migliori esordi dell’ultimo decennio è firmato da un outsider assoluto. Un uomo politico umbro, il cattolico Sergio Ercini, classe 1934, autore di un saggio impressionante – atipico, letterario, politico e allegorico – sulla vicenda luminosa e sconfortante della Fiume dannunziana. Stabilisco subito quel che m’è sembrato il limite: “Il poeta la morte e il giovane” è corredato da un ricco e spesso indecifrabile apparato iconografico, capace di passare da Blake a Collodi, da immagini fiumane a ritratti della famiglia Ercini – è evidente che questo libro ha il sapore del “libro della vita” d’un uomo, che ha probabilmente voluto omaggiare i suoi grandi amori. Il resto è d’una bellezza micidiale: a partire dalla prospettiva dell’io narrante, inattesa e intelligente. Ercini non si concentra sul vecchio e presto patetico cigno D’Annunzio: dedica ampio spazio all’ormai dimenticato Léon Kochnitzky, letterato belga di padre polacco e madre russa, ebreo convertito, innamorato dell’Italia e sincero ammiratore del Vate già negli anni della sua dedizione esclusiva alle patrie lettere. Kochnitzky era il suo “ministro degli Esteri”, nel periodo fiumano: una delle migliori espressioni dello spirito di quel tempo e di quella indimenticabile impresa, venduta – more italiota – agli interessi di quella classe dirigente che cominciava a stringere alleanze con chi presto ci avrebbe definitivamente trattato da colonia o da protettorato.
Ercini scrive campionando ampi frammenti tratti da opere dei due autori, D’Annunzio e Kochnitzky, assemblati curiosamente con Artaud, Mandelstam, Franco Fortini: solo qualche nome per suggerire il respiro stravagante e postmoderno delle letture e delle influenze di Ercini, che forza piacevolmente la mano per integrare o evocare concetti tramite citazioni. Perde certo scientificità; acquisisce una clamorosa e irrefutabile letterarietà; emoziona e insegna. Chiaro arriva il messaggio: sintesi del Novecento è la nostra Fiume, oggi assurda Rijieka, città dalla storia orgogliosamente autonoma e indipendente, eccezion fatta per il breve periodo ungherese che manteneva saldo l’uso della lingua italiana. È la Fiume che è esistita e s’è ribellata agli ordini e alle strategie angloamericane e agli interessi francesi, gridando a un tratto la sua preponderante italianità e pretendendo si scavalcassero egemonie e strategie politiche in nome d’una speranza. In nome della vita, della libertà e della giustizia. Il canto del vecchio cigno poi corrotto dal tempo, D’Annunzio, è stato essere anima e simbolo di quanto avvenne a partire da quel 12 settembre del 1919, quando entrò in città con poche migliaia di uomini e proclamò l’annessione all’Italia. Di quei giorni nella mia casa rimane un prezioso sigillo, tramandato da generazioni: “Io ho quel che ho donato”, che non significa poco e non può andare obliato.
L’umbro Ercini dona al suo tempo un libro che attendevo fosse scritto dai miei compatrioti giuliani; un ricordo politico e allegorico d’un’impresa che niente potrà cancellare, nemmeno le manipolazioni nei libri marxisti di Storia, né le grottesche leggende urbane sulle orge neroniane in quei giorni; perché l’Italia ha perso, e non ha soltanto perso irrimediabilmente Fiume. Smarrendo Fiume, e buona parte dell’Istria costiera e delle città Dalmate e italiane, ha perso l’identità. Senza combattere, è il caso di ribadirlo. E senza rimpiangerle – questo l’abbiamo fatto in pochi, non soltanto per ragioni di sangue; l’ideologia ha ucciso la verità, è stata questa la più sudicia responsabilità del comunismo italiano. L’affascinante Léon Kochnitzky – non a caso forse: da autentico simbolo vivente – visitò l’Unione Sovietica nel 1925, in tempi non sospetti; comprendendo che non sarebbe mai stato parte di quell’orrore. E dire che a Fiume non mancava una componente socialista; mai bolscevica, come spiega chiaramente Ercini, interpretando la curiosa commistione di idee e valori dannunziani, prossimi piuttosto al sogno d’un’armoniosa “sovranità del lavoro” (p. 171).
Tornate a leggere la storia di quei giorni. Della Lega di Fiume, del sogno del fiumanesimo come rivoluzione di tutti i popoli in lotta per l’indipendenza. Sentite quanta modernità in Kochnitzky: “Per i compagni di D’Annunzio che animarono la Lega l’iniquità ha quaranta facce: si chiamano, volta a volta, Wilson, Clemanceau, Lloyd George, Orlando, Sonnino, Tittoni, Nitti: (…) la Società delle Nazioni, l’Avanti!, gli pseudosocialisti del PUS, il mastodontico macchinario burocratico e la traballante baracca militarista” (p. 24). Cambiate qualche nome ed ecco il tempo nostro, quello che dovremmo vivere con l’intensità di chi crede che niente sia immutabile, a partire dalla Statolatria (cfr. De Benoist: “Oltre il moderno”). Léon Kochnitzky ne scrisse ne “La quinta stagione”, libro che dovremmo riscoprire con curiosità e gioia.
Nel libro troverete la storia dell’incontro – spesso rinviato dall’insensibilità di D’Annunzio, che riceveva i libri di poesia del giovane belga ma non dava cenni – tra i due protagonisti scelti da Ercini: del complesso rapporto tra Kochnitzky e l’Italia, spezzato dal Fascismo (che rifiutò: ultima visita, 1930). Troverete descrizioni di quella Fiume che ancora oggi potete ammirare o piangere, camminando per le sue vie, dimenticando magari quegli orribili casermoni jugoslavi che guardano dall’alto la città splendida, e veneziana. Come qui, quando si parla di questa città creatura del mare: è ancora il nostro ebreo errante convertito a scrivere: “Strade strettissime, ciottoli minuti e acuti, tetti che quasi si toccano, case assai antiche ma senza stile, oggetti e mercanzie esposte ai quattro venti, madonne ai crocevia, chiassuoli, vicoli ciechi, illuminazione precaria…; qui niente Ungheria, niente Germania; la dominazione straniera non è mai potuta penetrare in questo ridotto; tutto respira l’aria d’Italia: l’anima italiana è dappertutto” (p. 73). Camminare per Fiume è una lezione di storia. Purtroppo, ecco le orrende macchie titine, oggi. Visibili e irrefutabili. Ma l’essenza niente la muta, nemmeno le radiazioni.
Che libro. E ancora: leggerete notizie sulla fondazione della “Giovine Fiume” nel 1905, e delle progressive fortune degli irredentisti; dell’odiosa incomprensione di quei politici italiani che chiamarono “Fiume” il loro cane, già servi di poteri altri; degli “scalmanati”, espressione limpida e cristallina dei legionari fiumani, rivoluzionari e ribellisti, contro tutto: alla fine, anche contro D’Annunzio. E del rapporto tra D’Annunzio e Mussolini, delle inevitabili distanze e delle sommarie influenze, mistica in primis (ma tra D’Annunzio e Niccolò Giani passa uno strapiombo, e direi che stile e umanità del primo non sempre hanno avuto adeguata imitazione); e del crollo di tutto, del sogno fiumano e dell’impresa letteraria e ideale di quegli eroi. Che salutiamo nella memoria, a distanza di quasi cent’anni, al grido di D’Annunzio: eia eia alalà!
Lettura suggerita a quanti ritengano di non avere adeguate informazioni sulla questione di Fiume; a tutti i cultori di quell’impresa; a chi – come il sottoscritto – non aveva idea di chi fosse questo stravagante ed elegantissimo belga, Léon Kochnitzky, e adesso sogna di trovarlo sugli scaffali della sua libreria.
Tributo alla memoria, a un sogno e al Novecento che ha perso, questo libro di Sergio Ercini non è solo una strenna per eruditi: è un piccolo must per chi non vuole smettere di sognare una società diversa, e su diversi esempi fondata.
Perché la realtà, oggi, è questa: dopo la presa del 1945 e la ratifica del Trattato di Parigi (1947), i fiumani sono scappati. 40mila cittadini, in una manciata d’anni: oltre il settanta percento della popolazione: fuggirono dalla barbarie comunista e jugoslava. Tuttavia mi piace pensare che il secolo nuovo possa restituire loro almeno quel rispetto, quella solidarietà e quella comprensione che – inutile negarlo – gli italioti hanno negato con atroce disinvoltura per oltre mezzo secolo. Si può ripartire anche da qui: per capire, e per tornare a sognare. Giustizia.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Sergio Ercini (Orvieto, 1934 – Orvieto, 2007), uomo politico e scrittore italiano.
Sergio Ercini, “Il poeta la morte e il giovane”, Edizioni Thyrus, Terni 2006. Contiene una bibliografia. Quarta di Pompeo De Angelis.
Gianfranco Franchi, 31 maggio 2007.
Prima pubblicazione: Lankelot.