Keller
2008
9788889767078
"La zappa nell'aiuola proietta un'ombra che non taglia, l'ombra rimane silenziosa e guarda il sentiero nel giardino. Là una bambina si riempie le tasche di prugne verdi. Mentre sta tra le più stupide piante tagliate, il padre dice: Non bisogna mai mangiare prugne verdi, il nocciolo è ancora tenero e s'ingoia la morte. Nessuno ti può aiutare, allora si muore e basta. Con una febbre chiara il cuore ti brucia da dentro" (Müller, “Il paese delle prugne verdi”, p. 26).
“Il paese delle prugne verdi” è una complessa e allucinata allegoria della sofferenza dei giovani romeni – di minoranza tedesca – sotto il regime comunista di Ceauşescu. La scrittura di Herta Müller è decisamente più vicina alla poesia, o al limite alla prosa lirica, una prosa lirica dal respiro cortissimo, che alla narrativa: riuscire a restituirla con efficacia in lingua italiana dev'essere stata un'impresa complessa. Non so quanto riuscita. E questo suo libro, c'è poco da girarci attorno, non aveva nessuna possibilità di diventare popolare senza il clamoroso riconoscimento del Nobel per la letteratura, nel 2009. Non aveva nessuna possibilità di diventare popolare perché è talmente ellittico da risultare, in più d'un frangente, irragionevole o inaccessibile. Ed è talmente visivo, e talmente concentrato nella rappresentazione di sequenze di immagini (ricordi, eventi), che sembra più uno stravagante e coraggioso assemblaggio di appunti e di schizzi che un “romanzo”. Ricostruire la trama del romanzo richiede una certa flessibilità, da parte del lettore, perché a parte qualche movimento essenziale è difficile riconoscere linearità e uniformità nella narrazione. Immagino fosse un effetto ricercato. Immagino che questo sia stato l'artificio prescelto dall'autrice per raccontarci un dolore e una sofferenza per la vita sotto regime che nessuna parola poteva, in più d'un frangente, rappresentare con efficacia. E allora avanti con l'evocazione, con l'allegoria, con il particolare improvvisamente cruento e poi sfumato. Ma il gioco non sempre riesce.
Il titolo originario è un altro: “Herztier”, e significa “La bestia nel cuore”. La scelta della traduttrice italiana, Alessandra Henke, è stata simile a quella del traduttore inglese, Michael Hoffmann: per connotare più direttamente l'opera, s'è puntato sul colore della metafora mortale delle prugne verdi. Che non può che restare impressa, perché al di là dei confini rumeni non mi sembra abbia particolare significato. "Il paese delle prugne verdi" è la storia del suicidio e della fuga d'una generazione, incarnata nel testo da una ragazza, Lola, che si uccide e si ritrova, man mano, dimenticata dagli amici del partito e da tutte quelle persone che già avevano abusato di lei. Ed è la storia dei suoi quattro amici, la narratrice e tre ragazzi, che si ritrovano a sopravviverle in una nazione estranea alla libertà e alla tolleranza, e come se non bastasse sono figli di tedeschi con la coscienza sporca di nazismo.
Sopravvivono con la speranza d'un futuro diverso. E magari giocando a leggere i libri proibiti: "I libri della casa estiva venivano contrabbandati in paese. Erano scritti nella madrelingua in cui il vento si coricava. Non la lingua ufficiale del paese. Ma nemmeno una lingua infantile proveniente dai paesi. Nei libri si trovava la madrelingua, ma il silenzio del paese che vieta il pensiero nei libri non c'era. Credevamo che là, da dove provenivano i libri, tutti pensassero" (pp. 58-59).
L'angoscia principe, in attesa del giorno della fuga – di questo cambiamento che tarda a venire: siamo, da quel che si riesce a intendere, da qualche parte tra gli anni Settanta e Ottanta – è quella delle spie. Dei micidiali servizi segreti rumeni: "Ognuno può essere utilizzato come spia, disse Kurt, poco importa se al servizio di Hitler o di Antonescu. Le cicatrici sui suoi pollici lo facevano assomigliare al figlio del diavolo. Un paio d'anni dopo Hitler, tutti piangevano per Stalin, disse. Da allora aiutano Ceauşescu a fare cimiteri. Le piccole spie non ambiscono ad alcuna carica importante nel Partito. Possono essere utilizzate senza il minimo imbarazzo" (p. 186).
Questi servizi segreti, che aleggiano come un incubo per tutto il libro, ossessione paranoide invincibile, sono quelli che secondo uno dei ragazzi passano il tempo a diffondere dicerie sulle malattie del dittatore, per "indurre la gente alla fuga e incastrarla": perché sono così crudeli da non essere soddisfatti semplicemente di pizzicare chi sta rubando qualcosa da mangiare o qualcosa di tecnicamente utile per sopravvivere. Non bisogna dimenticare che quello è un tempo assurdo – d'una società disperata – in cui ci si vende la tessera per il pranzo per comprarsi un paio di calzamaglie sottilissime (p. 53). Piccole cose di tutti i giorni assumono un valore abnorme. E questo, nel "Paese delle prugne verdi", si interiozza senza difficoltà, e non c'è linguaggio lirico che possa attenuarlo o nasconderlo, o strana scrittura codificata che possa mitigarlo o esasperarlo. Semplicemente, c'è.
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Avevo delle aspettative eccezionali. L'esperienza estetica è stata appassionante, difficile (in più d'un frangente, la scrittura di HM è talmente tenue e vaga da diventare astratta, ermetica, incomprensibile), ma non straordinaria. S'apprezza, senza dubbio, lo sperimentalismo: s'apprezza l'opportunità unica di poter leggere e interiorizzare una letteratura così rara dal punto di vista etnico e culturale, per via della particolare minoranza cui appartiene l'autrice. S'apprezza, inevitabilmente, la netta (ma quanto autodistruttiva, quanto malevola) opposizione al regime di C. E s'apprezza – ma questo è un discorso laterale, molto italiano – il fatto che a scoprire questo libro, per primo, sia stato un piccolo editore coraggioso, come Keller di Rovereto, ben prima del Nobel.
Devo ammettere, però, che in questo momento non sento nessuna curiosità di approfondire la letteratura della Müller, perché in questo periodo della mia vita sono abbastanza allergico alla scrittura più simile alla pittura, o alla poesia isterica e ombelicale, o al diario barocchetto d'una vicenda atroce, e non vedo come chi scriveva così a 41 anni, nel 1994, possa avere avuto metaformosi o evoluzioni sensibili. Non so perché ma dopo aver molto meditato, al termine della lettura, ho pensato che sarebbe stato più saggio e opportuno scrivere un articolo sulla vicenda politica di Herta Müller, e di tutti i letterati martiri dei regimi totalitari, rossi e neri, che scrivere un articolo sulla tecnica dell'autrice. E ho pensato che sarebbe stato più appassionante studiare la storia della minoranza tedesca in Romania. E ho concluso che sono esattamente le cose che ho letto sui quotidiani, a suo tempo: nessun rilievo sulla scrittura dell'autrice, o sulla struttura di questo libro, o – magari ricordo male – sulla sua accessibilità. Qualcosa vorrà dire. Forse che dovremmo chiederci cosa stiamo cercando nella Müller. Se cercate l'emozione d'una “storia nella storia”, d'una lettura fondata sulla vostra simpatia per il suo caso umano, politico e letterario, sarete sicuramente entusiasti e pieni di buoni sentimenti. Se state cercando grande letteratura non credo che potrete apprezzare questa narrativa sconnessa, slabbrata e purtroppo occasionalmente sconclusionata, con vaghi ed episodici ritorni alla razionalità, all'accessibilità. Ecco, il nodo è questo. “Il paese delle prugne verdi” richiede un lettore che sappia riempire i (tanti, pesanti) buchi logici, descrittivi e cronologici lasciati dalla narratrice. Non è questa la mia idea di grande narrativa. È la mia idea di “narrativa emozionale”. Molto giovanile.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Herta Müller (Niţchidorf, distretto di Timiş, Romania, 1953), scrittrice romena di lingua tedesca. Nel 1987 è emigrata a Berlino, dove vive ancora oggi. Premio Nobel per la Letteratura 2009.
Herta Müller, “Il paese delle prugne verdi”, Keller, Rovereto 2010. Traduzione di Alessandra Henke. Collana "Vie", 6. 9788889767078
Prima edizione: “Herztier”, 1994.
Gianfranco Franchi, settembre 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.