Adelphi
2011
9788845925854
L'Italia del boom economico è qualcosa di cui la mia generazione ha sentito parlare. Tendenzialmente ne abbiamo sentito parlare con entusiasmo e con orgoglio: e siamo sempre rimasti increduli, e più passa il tempo più quelle storie s'ammantano d'un'aura leggendaria. Perché noi siamo nati nell'Italia della recessione, della distruzione metodica dei diritti dei lavoratori, del turbonepotismo e del turboclientelismo. Quando qualcuno ci racconta gli anni del boom economico ascoltiamo le sue storie a bocca aperta, come i bambini di fronte alle favole. “Ho comprato casa spendendo pochissimo!”, ti dice un genitore. E l'altro ti dice “Ho trovato lavoro vincendo un concorso: ed ero soltanto diplomato!”. “Avevo ferie pagate, licenze, malattie, tredicesima e quattordicesima!”, ti dicono in tanti. “Come ho fatto a fare soldi? Ho risparmiato! E poi i bot stavano all'8 percento!”. Insomma, la mia generazione ascolta le storie di quegli anni con la dovuta meraviglia, e un grosso cerchio alla testa. E si fa venire un sacco di complessi, perché non capisce che quel che hanno avuto una generazione fa non è mai esistito nella storia d'Italia, e non esisterà mai più, se non per una minoranza assoluta di lavoratori.
Il romanzo di cui stiamo per parlare può aiutarci a capire che il boom economico non è stato soltanto un periodo di favolose opportunità e di incredibili fortune economiche e professionali per tante famiglie e tanti individui. “Il padrone” ci racconta cosa significasse, a volte, accettare quelle che a noi sembrano semplicemente incredibili fortune economiche e professionali. Protagonista, come vedremo – manco a dirlo – è un giovanissimo intellettuale di provincia che sbarca nella grande città, nella grossa azienda, e dimentica d'essere sé stesso. Questo giovane intellettuale diventa un impiegato succube della sua azienda, e della riconoscenza al padrone. E alla fine del suo viaggio augura al suo futuro bambino d'avere una vita simile a quella d'un barattolo, perché solo così nessuno potrà fargli del male.
“Il padrone” ci insegna, insomma, che in quegli anni c'era qualcosa in agguato, al di là delle apparenze, del benessere, dei superdiritti dei lavoratori. E non era qualcosa di politico. Era qualcosa di esistenziale, di ideale, di astratto. Era l'identità e la coscienza di chi non riusciva a conciliare il non senso di troppi aspetti della vita con il senso perfetto della vita aziendale. Preparatevi a incontrare, insomma, la storia di un figuro suicidello: a tanti, forse, molto famigliare.
Apriamo parentesi storico-letteraria ed editoriale. “Il padrone”, sesto romanzo di Goffredo Parise, apparve in prima edizione per Feltrinelli nel 1965, per volontà di Nanni Balestrini, del direttore editoriale Valerio Riva e di Giangiacomo Feltrinelli; la seconda edizione venne stampata da Einaudi nel 1981. Il libro era stato rifiutato da Garzanti, editore degli ultimi tre romanzi di Parise (e cioè “Il prete bello”, “Il fidanzamento” e “Amore e fervore”) e suo ex datore di lavoro, perché nessuno poteva dubitare che dietro al padrone del titolo dell'opera si nascondesse proprio il dottor Garzanti. Garzanti non aveva gradito la cosa, e a niente era valso il saggio consiglio di Pasolini (pubblicarlo comunque per un gesto di “elegante oggettivismo”, sdrammatizzando).
Secondo Mauro Portello, curatore delle “notizie sui testi” nel Meridiano Mondadori, questo romanzo rappresentò per l'artista vicentino una sorta di rinascita: pubblicato sei anni dopo “Amore e fervore” (1959), sublimava un “lungo periodo di doloroso distacco dalla letteratura”, in cui s'era concentrato sul cinema e sul teatro. Parise riconosceva nel nuovo libro qualcosa di famigliare rispetto al suo esordio, al “Ragazzo morto e le comete”: gli ultimi libri avevano preso una “strada naturalistica che non è nella mia natura” (p. 1608). E in questo libro, insomma, tornava a sprofondare nel mistero dell'anima, e delle dinamiche psichiche.
Narratore del romanzo è un ragazzo di vent'anni, fresco di trasferimento in città. È ingenuo, pieno di dubbi e di paure, pulito e pieno di fiducia nel prossimo. E com'è invece “Il padrone”? Disorientante. È giovane, poco più grande del narratore, e ha ereditato la baracca dal padre. Si chiama Max. Guarda il suo quasi coetaneo e capisce un sacco di cose al volo. “Lei non pensi di venire qui, a sporcarsi l'anima come tutti. Lei è arrivato stamani dalla provincia, puro, intatto. Si conservi così come mostrano i suoi occhi. Anzi, ci penserò io. Resterà al primo piano, nella vecchia sede, a lavorare accanto a me” (p. 874). E il suo ufficio sarà nel suo vecchio gabinetto. Il nostro narratore, pur di far contento il padrone, finisce per lavorare nel suo cesso: adattato, si capisce, a sgabuzzino.
Man mano, l'adattamento nel nuovo sistema di vita, casa lavoro (nell'ex cesso del padrone) e tessuto sociale locale, riesce. La vita borghese dell'impiegato ha un equilibrio che sa essere perfetto. E il narratore ci racconta che crede sia “la vita ideale di un uomo. Ci sono momenti in cui, nel sentirmi perduto e al tempo stesso potentemente protetto tra la folla, per esempio in filobus, o alla mensa, o in ufficio (le spalle coperte dalla nuova sede formicolante di persone che come me si preoccupano), provo un senso di ebbrezza e di grande felicità” (p. 906). Parise scrive che in questa sensazione di “spersonalizzazione” e “anonimia” c'è qualcosa di naturale e di religioso. È una sorta di “inconsapevole ebbrezza”. Tutto il resto perde di interesse, cinema, giornali, televisione, calcio. L'importante è dare soddisfazioni all'azienda. Il risultato è una grande armonia interiore. E col passare del tempo, un'incresciosa e urticante distanza dalle cose di casa, dai propri genitori e dalla propria fidanzata. A un tratto, ecco un vago senso di insofferenza, noia e assurdità, al solo pensiero di passare del tempo assieme a “quella gente”. E “la casa mi appare triste e funebre, il mio letto il letto di un estraneo, la città una città di provincia come tante altre, noiosa, sonnacchiosa” (p. 969). Gli amici diventano i colleghi di lavoro. E coi colleghi di lavoro si parla tendenzialmente di questioni di lavoro. E di nevrosi. Tutti sono pieni di più o meno piccole nevrosi. E passano le serate a parlare di malattie. Fortunatamente, tendenzialmente si tratta di malattie immaginarie, inventate per non ammettere la verità sul proprio malessere. Ma stando vicini queste malattie diventano qualcosa di famigliare, di gradevole quasi. Come il padrone, come parlare di questioni del padrone. O dell'ufficio.
Già, il padrone. Uno che sa sbottare così: “Sono il padrone, il padrone, il padrone...! Sono stufo di essere il servo dei miei dipendenti, sono stufo di aver a che fare coi furbi, con le volpi, con i ricci, con le donnole della ditta. Non ne posso più, vi caccio via tutti... il vostro comportamento fa schifo, io vi pago ed esigo rispetto. Non è per i soldi, io me ne frego dei soldi, potrei benissimo farne a meno, è il fatto morale che conta. E tutto ciò è immorale, immorale, immorale, avete capito? Purtroppo Dio non c'è per fulminarvi, ma lo farò io se necessario, avete capito? Avete capito? Avete capito?” (p. 877). E sa mostrare questo approccio assolutista come niente fosse. Ma in ogni caso non vuole che qualcuno pensi che i suoi dipendenti sono come di sua proprietà. Quando il giovane impiegato ha l'innocenza di ammettere che crede una cosa del genere, viene rimbrottato: “Lei è un imbecille, si vergogni! Ma lo sa che questo è un ragionamento schiavistico, razzistico, ignobile? Ma le pare che un uomo possa essere proprietà di un altro uomo? Ma cosa dice mai? Lei è un uomo libero, ha capito?” (p. 889). Ma invece capisce lui. E ammette che in un certo senso è così, che si tratta d'una questione di consapevolezza, di profonda coscienza. Quasi una questione morale. “Morale sarebbe che questa gente si rendesse conto che è di mia proprietà e che io posso fare di loro ciò che voglio. Se si rendessero conto di questo sarebbe già molto” (p. 911).
E quando il narratore finisce per accettare l'imposizione aziendale d'una scelta di vita importante come un matrimonio, assurdo, silenzioso, distruttivo e infelice, Max il padrone si placa. Si placa perché vede nella nuova famiglia “il prototipo della famiglia ideale che intende creare in futuro: cioè il capolavoro della proprietà assoluta. Infatti le sole catene che non si possono spezzare sono quelle della specie” (p. 1073).
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C'è una morale della favola, in accezione padronale? Naturalmente sì. Parise la sintetizza così. “Non si metta contro le cose, o meglio, non si metta contro la forza. La sua crisi è già risolta, ora, in questo momento. Lei è nell'età in cui la realtà appare in tutta la sua violenza; e nell'età, appunto, in cui si vuole lottare per un'altra realtà, diversa e migliore di questa. Ma una realtà migliore non c'è e non ci sarà mai” (Parise, “Il padrone”, XIII). E non credo sia una morale della favola popolare soltanto negli anni del boom economico. Adesso ha una potenza più esplosiva, più sinistra, più drammatica.
Riappropriamoci di questo libro. Torniamo a interrogarlo, e a interrogarci. Subito.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Goffredo Parise (Vicenza, 1929 – Treviso, 1986), scrittore, sceneggiatore e giornalista italiano.
Goffredo Parise, “Il padrone”, Meridiano Mondadori, Milano 2006. Introduzione di Andrea Zanzotto. Cronologia di Bruno Callegher. Notizie sui testi a cura di Mauro Portello. Bibliografia a cura di Bruno Callegher.
Prima edizione: Feltrinelli, 1965. Einaudi, 1971. Mondadori, 1992. Rizzoli, 1999. Infine, Adelphi, 2011.
Approfondimento in rete: WIKI it / Casa di Cultura Goffredo Parise
Gianfranco Franchi, ottobre 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
“Il padrone”, sesto romanzo di Goffredo Parise, apparve in prima edizione per Feltrinelli nel 1965, per volontà di Nanni Balestrini, del direttore editoriale Valerio Riva e di Giangiacomo Feltrinelli…