Il nazista e il barbiere

Il nazista e il barbiere Book Cover Il nazista e il barbiere
Edgar Hilsenrath
Marcos Y Marcos
2006
9788871684321

Tragicomico, cattivo, allegorico, coraggioso e disperato, “Il nazista & il barbiere”, romanzo del 1971 (It, Marcos Y Marcos, 2006; 2010) è una favola nerissima scritta da un ebreo tedesco, classe 1926, errante come da grande tradizione e sofferente per tutti i mali del Novecento, come da universale e ingiusta condanna. Hilsenrath è riuscito, tuttavia, a scrollarsi di dosso il male trasfigurandolo e animando un romanzo determinante per capire con quanta semplicità si possa essere grandi, e con quanta fantasia si possa scrivere qualcosa di sinceramente credibile. Boll diceva che i primi capitoli di questo libro facevano male, perché quel che è accaduto in Germania e nell'Occidente nei giorni terrificanti della Seconda Guerra Mondiale non può che fare malissimo. A tutti, non soltanto alle persone sensibili. Ma poi, “si assiste al miracolo: il romanzo prende il volo, dispiega una poesia sobria e pacata”. La letteratura riesce a farci accettare il male: questo romanzo lo racconta, senza rifiutarlo, e poggia sull'arte difficile e pericolosa del paradosso per farcelo capire.

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Apparentemente, è la storia di due grandi amici, inseparabili sin dall'infanzia: Max Schulz e Itzig Finkelstein. Max è un figlio di puttana – in senso stretto – figliastro d'un barbiere polacco germanizzato che si diverte a violentarlo, nei ritagli di tempo. È ariano, ma di ariano non ha niente: “Il mio amico Itzig era biondo e aveva gli occhi azzurri, il naso dritto, i denti bianchi e la bocca ben disegnata. Io invece, Max Schultz, figlio illeggitimo ma ariano puro, avevo i capelli neri, gli occhi da rospo, il naso a becco, le labbra gonfie e bitorzolute e i denti guasti. Potrete ben capire che molto spesso ci confondessero” (p. 33). Siamo a Wieshalle, cittadina oggi polacca. I due ragazzini sono i fenomeni della squadra di calcio del posto, e sono compagni di studi – entusiastici – da sempre. Studiano greco, latino, algebra, storia, mitologia: Itzig è brillante e veloce, Max caotico ma molto diligente. Assieme decidono di non studiare all'Università per imparare un mestiere: quello dei padri, il barbiere. Ma mentre il papà di Itzig è l'anima del Salone più amato e popolare in città, il patrigno di Max lavora in un buco sporco e dimenticato dal mondo. E allora che si fa? Si va a bottega, tutti e due, dal papà di Itzig. E intanto si imparano sia lo yiddish che gli usi e costumi del popolo ebraico, accompagnando tutta la famiglia di Itzig in sinagoga. “Ogni sabato accompagnavo il mio amico alla piccola sinagoga di Schillerstrasse, dicevo le preghiere con lui, per divertimento, sedevo in silenzio nella sinagoga, mi alzavo in piedi quando la congregazione si alzava, mi univo ai loro canti” (p. 32).

Passano gli anni. Non succede granché. Max diventa barbiere ma rimane a vivere coi suoi; intanto, lavora dal papà di Itzak. Il salone è sempre più grande. La Germania, invece, sprofonda in una terribile recessione economica. È bene avere un mestiere, ma non basta. Non per tutti. Qualcuno comincia a interessarsi di Hitler. “Ci vendicherà di tutti gli stranieri che hanno rovinato il nostro focolare, cancellerà la vergogna del trattato di pace di Versailles. Porrà fine alla storia dei risarcimenti di guerra e aiuterà le ragazze madri di discendenza ariana a recuperare l'onore perduto” (p. 43), pensa la mamma di Max. Quando il capo dei nazisti si presenta in città a parlare al popolo predica morte e violenza: “Avete udito cosa è stato detto agli antichi: non uccidere, chiunque ucciderà dovrà essere giudicato. Ma io vi dico: chiunque ucciderà il nemico della nostra patria, santificherà il mio nome. E chiunque santificherà il mio nome, condividerà la mia santità” (p. 53). Non manca molto al giorno in cui prenderà il potere. Max e la sua famiglia, sempre molto sensibili a dove tira il vento più forte, primi a salire sul carro del vincitore, prendono e si comprano uniformi e stivaloni. Non solo. Max e il patrigno passano all'azione.

“Ci ubriacammo, barcollammo per le strade, incontrando ovunque drappelli di uomini in uniforme che malmenavano i nemici del popolo, decidemmo di dare una mano e ci unimmo al pestaggio sudando, ruttando, ridendo, masturbandoci, scoreggiando... un gran divertimento, credetemi” (p. 58).

Il piccolo barbiere dimentica la storia della sua vita: dimentica il suo migliore amico, dimentica il suo datore di lavoro, dimentica le giornate passate in sinagoga. Ora è un nazista: è quel che gli fa comodo. Prima nelle SA, poi nelle SS: quando è il momento giusto, si intende. Quando diventa chiaro che le SS sono “l'unione dei puritani neri, l'élite della nuova Germania” (p. 61).

E qui la questione si fa pesante. “Noi, nella nuova Germania, cominciammo a estromettere gli ebrei dalle posizioni chiave e dagli incarichi ufficiali, li rimettemmo al loro posto, ricattandoli, espropriandoli progressivamente dei loro beni, escludendoli dalla maggior parte delle professioni. Gli ebrei furono radiati dall'esercito e degradati pubblicamente con l'aiuto della stampa, della radio, del cinema e degli altri mezzi di comunicazione di massa (…). Folle turbolente spaccarono le loro vetrine e tirarono bombe puzzolenti nei loro negozi. Gli ebrei furono picchiati e denunciati apertamente, alla luce del sole, senza avere possibilità di sporgere denuncia. Furono arrestati con ogni sorta di pretesti e sparirono per periodi di tempo indefinito, talvolta per sempre” (p. 64). Questo era, purtroppo, soltanto in preludio.

Max ci dice che non aveva idea di come si fucilassero trentamila ebrei in una foresta. Fu così che cominciò a fumare. Accadde in Russia. Quindi, venne trasferito in Polonia, nel lager di Laubwalde.

“A Laubwalde c'erano duecentomila ebrei. Li abbiamo fatti fuori tutti. Duecentomila! Eppure era un lager piuttosto piccolo perché, per lo più, i prigionieri venivano uccisi subito, o quasi, appena arrivavano. Era più pratico. Non ci toccava mai sorvegliarne troppi” (p. 72)

Non sa nemmeno quanti ne abbia pestati o uccisi. Ha fatto quello che voleva, e quello che gli veniva comandato. Non s'è ribellato. S'è prestato al massacro, ne è stato protagonista e corresponsabile. Ma quando tutto finisce, con la sconfitta dei nazisti e la vittoria degli ebrei, Max non verrà condannato. Perché Max è uno speciale. È un idealista a vento. “Di quelli che si schierano accanto ai vincitori, non accanto ai perdenti. È così. E gli ebrei hanno vinto la guerra” (p. 155).

E cosa si inventa, pur di non venire processato? Si inventa un'altra identità: decide di diventare uno di quelli che aveva ucciso. Itzig: proprio il suo vecchio amico d'infanzia, ucciso assieme ai genitori nel lager. Chi può accorgersene? Sopravvissuto alle foreste polacche, e alle sinistre magie di una strega ninfomane, Max si ritrova a diventare Itzig. Vende i denti d'oro dei suoi deportati, come borsaro nero. Vende tutto, sigarette di contrabbando, vergini, cose da mangiare. Diventa un gran signore. Si fa circoncidere. Si fa levare il tatuaggio delle SS. Si fa tatuare un numero da deportato. Si lega a una donna aristocratica e influente. Sa, da buon cinico, che come ebreo non ha bisogno di mostrare documenti, o di convincere nessuno della sua storia, in quel periodo. Tutti sono pronti a essere solidali e generosi. E così, mentre Max Schultz è ricercato da tutte le parti, il nuovo Itzig si fa largo nel mondo. E si ritrova tra i primi emigrati in Israele, a combattere per la causa sionista. A lavorare come barbiere. A mostrarsi più integerrimo e radicale degli ebrei stessi. Nazista impunito. Convertito. Ladro di identità. Senz'anima, può avere quante anime vuole.

“Nessuno sospetta di me. Quando parlo yiddish, sono un galiziano, per quanto sia un galiziano che non parla molto bene lo yiddish perché non ho mai vissuto in Galizia. Certo. Non sono un vero galiziano. Mi chiamano il galiziano così, per scherzo. Quando parlo tedesco, sono un ebreo tedesco. E quando uso i vocaboli forti delle SS, sono una vittima del campo di concentramento” (p. 303).

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Ecco. Questa è una storia che non avevo mai letto, e che non credo potrò facilmente dimenticare. È scritta con grande controllo e forte ironia, eppure non si riesce mai a ridere. C'è qualcosa di stranamente credibile in quel che racconta il narratore, Max. Grottesco, ma fatalmente credibile. Hilsenrath lascia un gran segno. Leggerlo fa bene e male allo stesso momento. Ma è un'esperienza che serve.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Edgar Hilsenrath (Lipsia, 1926 - Wittlich, 2018), scrittore tedesco. Nel sito MYM leggo: “Ebreo d’origine orientale, fugge in Romania con la famiglia per tentare di sottrarsi alla minaccia nazista; deportato nel ghetto di Mogilev-Podolski, in Ucraina, vi rimane fino all’intervento dei russi, nel 1944. Evitata una nuova deportazione in Siberia grazie a un passaporto falso, aderisce al movimento sionista e sale su un treno per la Palestina. Anima errante, riparte per la Francia, dove comincia a scrivere; nel 1951 si imbarca per gli Stati Uniti. Nel 1975 rientra finalmente in Germania, dopo trentasette anni di odissea, e si stabilisce a Berlino, dove vive tuttora”.

Edgar Hilsenrath, “Il nazista & il barbiere”, Marcos Y Marcos, Milano 2006. Traduzione di Maria Luisa Bocchino.

Prima edizione: “The Nazi & The Barber” USA, 1971. Ger, 1977: “Der Nazi und Der Friseur”.

Gianfranco Franchi, gennaio 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Per approfondire: Wiki it.

Tragicomico, cattivo, allegorico, coraggioso e disperato, “Il nazista & il barbiere”, romanzo del 1971 (It, Marcos Y Marcos, 2006; 2010) è una favola nerissima scritta da un ebreo tedesco, classe 1926, errante come da grande tradizione e sofferente per tutti i mali del Novecento, come da universale e ingiusta condanna.