Il lupo della steppa

Il lupo della steppa Book Cover Il lupo della steppa
Hermann Hesse
Mondadori
1996
9788804420972

Naufragio con spettatore, disorientamento ricercato e astrazione perfetta: quante suggestioni suscita nel lettore questo romanzo, quanti differenti e fascinosi incipit rimangono impressi nella mente e lottano tra loro per primeggiare e conquistare l’ambito ruolo di parole d’apertura di una lettura critica. Il naufragio cui assistiamo è quello dell’equilibrio e della lucidità di un uomo, Harry Haller, scoperta proiezione autobiografica del romanziere del Wüttemberg: abbandonato dalla moglie, vive in condizione di eremita ed esteta dedicandosi alla ricerca e alla vita del pensiero. Appare nel romanzo introdotto dallo sguardo del curatore delle sue memorie: lo spettatore cui alludevo sin dapprincipio, richiamando il titolo di un celebre saggio dello studioso tedesco Blumenberg. E dunque scopriamo una prima consistente ambiguità nella narrazione del testo: sebbene Hesse abbia creato un personaggio estremamente prossimo ad essere un'incarnazione letteraria di se stesso, e ne abbia lasciato chiari segni sin nelle iniziali del suo nome, tuttavia per evitare ingombranti interpretazioni di completa identificazione del creatore col suo stesso personaggio ha tratteggiato il ruolo di questo curatore, che dà alle stampe le memorie “lasciate da quell’uomo che, con una espressione usata sovente da lui stesso, chiamavamo il lupo della steppa”. E allora, con questo elementare arbitrio, o se preferite per via di questo specchio dalla cornice di carta, l’autore si è sentito libero di narrarsi e di raccontarsi e di abbandonarsi ad uno sfrenato e caotico autobiografismo.

Hesse non sa esimersi, a riprova innegabile della imponente sua presenza nel testo, dal congedarsi dal pubblico nell’ultima pagina, per via di una nota d’autore, in cui auspica, evento rarissimo in letteratura, una chiave di lettura unitaria della sua opera: domanda sia letta come parabola di una guarigione, e non di una malattia o di una crisi o di una corruzione di uno stato di armonia.

L’architettura del romanzo è dunque così sintetizzabile: l’autore dell’opera genera un primo narratore in prima persona, il curatore delle memorie di Harry Haller; e ne deriva, quindi, un nuovo narratore in prima persona, Harry Haller, protagonista del romanzo; chiude il libro l’autore, libero ormai dall’artificio delle identità plurime dei narratori fittizi. Al naufragio e al ritorno alla navigazione nella vita del personaggio assistono allora più spettatori: il curatore, nipote della padrona di casa di Haller, e i lettori.

Un primo caloroso plauso va dunque alla strepitosa architettura del testo: procediamo finalmente nella descrizione della storia. “Il lupo della steppa” rappresenta l’evoluzione dell’archetipo, se non romantico almeno cinquecentesco, del letterato o dell’artista estraniato dalla società e dalla realtà e tendenzialmente isolato, eccezion fatta che per la dimensione del sogno e della memoria. È l’archetipo cinquecentesco del genio, e le parole scelte per descriverlo sembrano curiosamente echeggiare antichi cliché: un essere estraneo, selvatico ed ombroso, quasi appartenente ad un mondo differente dal nostro. Segni indiscutibili della sua anomalia appaiono dal modo di incedere, faticoso e irresoluto, e addirittura dalla tendenza a riconoscere la benignità di un luogo, dove poter affittare una camera, per via olfattiva. Nelle prime battute, il curatore delle sue memorie descrive l’ingresso del lupo della steppa nella mansarda che presto avrebbe affittato: è nervoso, annusa l’aria e non sorride sin quando non avverte, o non percepisce, un odore familiare e rassicurante. L’odore della perduta prima sua tana, della pulizia e dell’ordine borghese che pure nella vita del pensiero aveva rifiutato. Viaggia con una valigia di libri, e con qualche abito: decoroso, senza essere ricercato. Lascia sensazioni di inquietudine e sgomento in chi lo incontra: scopriamo addirittura che giunge a popolare i sogni di chi lo ha conosciuto.

Ed ecco la genialità dell’autore di “Siddharta” che esplode, nelle successive pagine: l’essere ombroso selvatico ed estraneo ha un volto “spirituale”, e i suoi lineamenti “rispecchiano una vita interiore insolitamente fine e sensibile”. Incute soggezione: pare sapere leggere nelle anime con glaciale oggettività, pare riconoscere qualsiasi intenzione e qualunque istinto negli individui che incontra. Questo perché Haller, il “Lupo della steppa”, ha vissuto e amato e sognato, e creduto e desiderato e odiato, e abbattuto infine dal sentimento di distanza con i suoi simili si è ritirato nella solitudine e nella ricerca artistica, dialogando con l’idea del suicidio e rifiutandola, e preferendo trasformarne le energie distruttive in slanci e impulsi e pulsioni artistiche e, in un certo qual modo, filantropiche. Filantropiche e pietose: pura sympatheia nei propri riguardi, sublime pietas che convince e persuade a comprendersi senza lacerarsi, a reputare l’odio di sé simile al più dispotico e gretto egoismo.

Appare agli occhi del curatore come “un genio della sofferenza”: una capacità di soffrire illimitata, semidivina, spaventevole, e tutta rivolta all’autocritica e alla ricerca di una perfezione impronunciabile: la trasformazione dell’idea nella realtà. Ecco la dannazione dell’artista: voler pronunciare l’impronunciabile, desiderar rendere reale ciò che appartiene all’utopia: al non luogo, alla pura astrazione del pensiero, e alla segreta dimensione del desiderio, e del sogno.

Altro segno inequivocabile dell’appartenenza dell’Haller alla categoria dei geni melanconici di stampo cinquecentesco e romantico è il suo essere sregolato: il curatore rivela infatti che il nostro lupo era sregolato e capriccioso nel dormire e lavorare, nel mangiare e bere. Caffeinomane, alcolista, sembra abbandonarsi a volte al disordine sensuale sprigionando pura energia e nuove ondate di pensiero e ispirazione. Fin quando non scompare, dopo un breve periodo che al curatore appare misterioso, perché inattesa è la completa sua mutazione delle abitudini e degli atteggiamenti: e allora non rimangono che le sue memorie, definite senza timore di rimbaudiana reminiscenza un viaggio attraverso l’inferno.

Qui ha inizio la dissertazione del “Lupo della Steppa”, contaminata, quasi profeticamente vaticinando stilemi e dettami cari ai postmoderni, da intervalli di poesia e da misteriosi libri nel libro, che altro non si rivelano che divagazioni liriche e autoreferenziali sul tema dell’opera. Tema che, semplificando, potremmo ritenere digressione sull’identità e sulle anime che popolano una mente: Lacan trionferebbe enumerandole, gongolando per la coscienza illuminata dell’autore. L’io si è sgretolato in una legione di aspetti e concetti: e dalla prima sostanziale e lineare differenza tra uomo e lupo, giungiamo ad una complessa percezione di stratificate e a volte ossimoriche o contraddittorie personalità. E dunque, abbandonata in fretta la lettura “esterna”, astratta per così dire, del curatore, assistiamo al proliferare di io dell’Haller: che dall’intellettualismo e dal più sfrenato isolamento conclude la sua parabola esistenziale nella più lasciva sensualità, nella più frivola superficie, di amori e danze e musiche tanto poco germaniche e spirituali; la contraddizione si fa esecrabile, sin quando il richiamo alla ricerca e all’estetica pura non s’impossessa di quel mondo di perdizione e “normalità”, rapendo come in un vortice tutto quel che è avvenuto ed è stato vissuto. La cicatrice rimane visibile: il lupo rinuncia al suo essere lupo, l’uomo padroneggia e domina e non sa infine rinnegarsi e rifiutarsi. L’anima selvatica e ombrosa rimane latente, pronta ad aggredire la razionalità e l’ordine e a sgretolare la coesione.

In conclusione permane il dubbio: l’edonismo è l’esito ultimo dell’estetismo? O ne è parossismo, o solo sentiero rivale e attraente sino alla dannazione? Infinite porte si aprono nella mente del Lupo della Steppa: è l’uomo ad illuminarle, e l’uomo a nominarle, e ad ogni ingresso gli appare il colore e l’odore e il rumore del passo della sua pura e incandescente animalità.

La narrazione si fa progressivamente disordinata, e l’arte del romanziere ne soffre; potremmo ritenere che gli aspetti più intriganti rimangono quelli legati alle pagine del curatore e alle memorie dell’Haller sino all’apparizione dell’inserto autorefenziale, quel libro sul Lupo della Steppa che gli viene misteriosamente donato. Successivamente, tra confusi elogi della femminilità e apparizioni a metà tra l’umano e il demoniaco, è una realtà romanzata e, ammettiamolo, a tratti iperborghese a governare la rotta del previsto naufragio.

Il romanzo di Herman Hesse “Il lupo della steppa”, stampato nel 1927, rappresenta un’interessante eccezione nell’orizzonte della produzione dello scrittore svizzero. L’autobiografismo suggella definitivamente le sue passioni per Goethe e per Mozart; svela la sofferenza provata per l’incomprensione degli accademici e dei letterati del suo tempo a causa della sua propensione al pacifismo; illumina la forte dicotomia, correggerei pensando invece ad una forte semplificazione dicotomica, tra l’anima ferina ed artistica ed isolata dello scrittore Hesse e quella umana, leggera ed estroversa dell’eterno ragazzo Herman. E ancora l’autobiografismo manifesta come e quanto l’autore si fosse tormentato a interrogarsi sul senso e sul significato delle considerazioni mediche sui fenomeni di scissione della personalità; e quanto ancora fosse intrisa di entusiasmo panico la sua anima, perfettamente cosciente dell’eguaglianza spirituale tra minerali, vegetali, animali ed uomini.

Questo libro rappresenta, a mio avviso, unitamente a “Narciso e Boccadoro”, la miglior espressione del talento di Hesse; che deve necessariamente liberarsi dal ruolo postumo e tutto contemporaneo di guida adolescenziale, e acquisire agli occhi del pubblico quel colore di artista universale e spirito libero e critico e divertito che tanto merita. Non foss’altro perché, per un appassionato della sua arte letteraria, Hesse può rappresentare un ponte per camminare i primi passi oltre la frontiera che separa la cultura occidentale dalla cultura orientale; e può meravigliare, sorprendere e divertire immaginare come un’anima tanto fanciullesca avesse interiorizzato insegnamenti tanto luminosi e complessi. Sulla linea tracciata dal “Divano Orientale-Occidentale” di Goethe, calcata dalle intuizioni di Novalis e Holderlin, un sentiero chiarissimo è stato esplorato e a tutti oggi è accessibile; l’ardito navigatore che conobbe il naufragio per liberare le nostre menti dai loro limiti è lì, e sempre attende visite, e instancabile guida nel cammino…

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Herman Hesse (Calw, Wuerttemberg, Germania 1877 – Montagnola, Svizzera, 1962), romanziere e poeta svizzero. Premio Nobel per la Letteratura nel 1946.

Herman Hesse, “Il lupo della steppa”, Mondadori, Milano, 1979. Traduzione a cura di Ervino Pocar. Questa edizione dispone di un'introduzione, di una cronologia e di una brevissima antologia di giudizi critici: molto interessante la bibliografia allegata, completa di riferimenti critici. Sempre a cura di Ervino Pocar.

Prima edizione: “Der Steppenwolf”, Berlin 1927.

Gianfranco Franchi, aprile 2002.

Prima pubblicazione: ciao.com; a ruota, Lankelot.

Sul massimo risultato di Hesse, sulla sua profondità e sulla sua portata.