Tre Editori
2016
9788886755686
“Tra i creatori viventi di paura cosmica, assurti all’apice dell’arte, pochi, o forse nessuno, possono sperare di eguagliare il versatile Arthur Machen” (H.P. Lovecraft, “L’orrore soprannaturale nella letteratura”, 1927).
“Figura demoniaca dal piede caprino, Pan non è tanto la parte oscura dell’uomo borghese, ipocrita e perbenista, ovvero il suo doppio trasgressivo e brutale, come succede nello Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson (1886) e non è neppure lo straniero proveniente dal continente europeo, carico di conflitti religiosi ed etnici, il vampiro che corrompe e contamina le signore inglesi di buona famiglia, come avviene in Dracula di Bram Stoker (…). Piuttosto, egli è il progenitore bestiale e osceno da cui ha origine tutta l’umanità, e non solo certo la sua parte maschile” (Carlo Pagetti, “Il ritorno del Dio Pan”, pp. 116-117).
Prologo. Laboratorio privato del dottor Raymond, iniziato ai misteri della “medicina trascendentale”. La sua candida e remissiva figliastra adolescente, la dolce Mary, accetta il privilegio d’esser cavia. Il medico trascendentale intende lesionare la sua materia grigia per demolire il muro dei sensi, e garantirle l’esperienza che nessun altro essere vivente ha potuto raccontare – se non in letteratura – in precedenza: quella dell’osservazione del “mondo reale”: Raymond porterà Mary a “sollevare il velo”, per vedere il Dio Pan.
Testimone dell’esperimento, destinato a restarne irrimediabilmente sconvolto, il placido mister Clarke, cultore d’esoterismo e appassionato di spiritualità.
L’intervento non sembra avere fortuna. Mary precipita in uno stato vegetale: Clarke impiegherà molti anni ad affievolire il ricordo dell’espressione del suo viso. Anni passati a leggere e redigere – suo unico, sulfureo hobby – delle “note per dimostrare l’esistenza del diavolo”.
Il diavolo – il male – è, in questo romanzo di Machen, una creatura figlia d’un incontro tra due dimensioni altrimenti distaccate: nasce dalla fusione tra mondi estranei, e tende a trascinare via con sé, in una micidiale scia, membri della buona società londinese. È madre d’un’epidemia di suicidi, e di pazzia.
È una donna che tende a cambiare nome: metamorfica e assassina, confonde il delirio sensuale con l’annullamento dei suoi compagni. Clarke si limiterà a indagare – restando saldo al di qua della soglia. Il lettore potrà spingersi oltre, e rappresentare mentalmente quelle immagini che il tenebroso scrittore gallese Arthur Machen ha preferito evocare e non scolpire.
Esemplare notevole di narrativa gotica, deliziosamente manicheista (“Et diabolus incarnate est. Et homo factus est”), “Il grande Dio Pan” è una inquietante allegoria xenofoba, che tende a rivelare quali malesseri, quali angosce e quali ossessioni s’annidassero nell’inconscio della buona borghesia britannica di fine Ottocento. Niente di diverso da quel che può albergare nelle oligarchie, e nelle classi benestanti occidentali del nuovo millennio: l’inquietudine figlia della volontà di conservare e difendere status, ruoli ed equilibri; l’irrefrenabile desiderio di vivere, nell’ombra, quel che alla luce si giudica proibito o sconveniente o non opportuno; un’inevitabile passione per il mistero del male – qui opportunamente raffigurata dalla ricerca di Clarke, che intende addirittura dimostrare l’esistenza del nemico di Dio.
Perché? Per colorire una quotidianità altrimenti anonima e ripetitiva o per liberarsi la coscienza dal senso di responsabilità per i propri impulsi, i propri pensieri e le proprie azioni? L’impressione è che l’indicibile piacere della trasgressione sia stato il primo innesco d’una trasfigurazione letteraria così decadente, cupa e satanica. Questo contribuisce a rafforzare la simpatia del lettore contemporaneo nei confronti dello scrittore originario di Caerleon-on-Usk – e ad apprezzarne creatività, fantasia e immaginazione. Le stravaganze e le bizzarrie di Machen sfiorano l’eccellenza nella nervosa descrizione dell’improbabile laboratorio del dottore: una ex sala da biliardo. L’intervento sulla materia grigia ricorda invece una vecchia tela di Bosch: che fosse un intervento destinato a mutare la percezione della realtà è una suggestione di chi scrive. Lo sviluppo dell’indagine del cauto e curioso Clarke si tinge d’ossessività e di morbosità: influenza princeps, la narrativa di Edgar Allan Poe.
Concludo con una annotazione di carattere diverso. Mi rivolgo all’editore Fanucci. Mi domando che senso abbia avuto pubblicare una quarta di copertina che andasse a rivelare al lettore l’unico, autentico colpo di scena del romanzo. Sono rimasto sinceramente basito quando ho terminato il libro: quel che Machen aveva creato in otto capitoli, voi avete disfatto in dieci righe. Scelta francamente incomprensibile, e piuttosto irritante. Il lettore di questo articolo sappia che, pur con una certa fatica, ho rispettato il neofita rimanendo, quando m’è sembrato giusto, vago – e che quanto appena scritto è stato ideato per suggestionarvi e invitarvi alla lettura. Non ho nascosto la mia interpretazione del libro – ma non ne ho rivelato le dinamiche.
Grattandomi la testa (e sfiorandomi le corna) mi congedo da questo libro: che – era destino – non ho potuto godermi come avrei sognato.
Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Arthur Llewellyn Jones, alias Arthur Machen (Caerleon-on-Usk, Gwent, South Wales, 1863 – Amersham, Buckinghamshire, England, 1947) romanziere, saggista, traduttore e giornalista gallese. Esordì pubblicando, anonimo, un poemetto titolato “Eleusinia”. Il suo primo libro, il singolare “The Anatomy of Tobacco”, fu stampato a Londra nel 1884.
Arthur Machen, “Il grande Dio Pan”, Fanucci, Roma, 2005. Traduzione di Annalisa Di Liddo. Postfazione di Carlo Pagetti.
Prima edizione: “The Great God Pan”, John Lane, London 1894.
Gianfranco Franchi, 27 marzo 2005.
Prima pubblicazione: Lankelot.
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SEMPRE A PROPOSITO DEL "GRANDE DIO PAN"...
A undici anni di distanza dall'ultima edizione italiana [Fanucci, 2005; traduzione di Annalisa Di Liddo; postfazione del vecchio Carlo Pagetti; quarta imperdonabile] e a trentatré dalla prima [Mondadori, 1982, a cura di Giuseppe Lippi] vede la luce una nuova edizione dell'ex introvabile “Grande Dio Pan” [1894] del gallese Arthur Machen: merito della “Tre Editori”, che ci presenta un volume con traduzione, buone note e interessanti appunti filologici di Alessandro Zabini, un'appassionante prefazione dell'artista [datata 1916], uno storico giudizio sull'artista di H.P. Lovecraft [datato 1927], una sintetica nota biobibliografica [davvero spesso si poteva dettagliare a oltranza e approfondire], un discreto saggio della professoressa Susan Johnston Graf, docente di Letteratura Inglese all'Università della Pennsylvania, e infine una bizzarra, millenaria “breve antologia panica” completa di notule in coda. Corredano l'opera sedici illustrazioni d'argomento panico.
Machen [1863-1947], scrittore gallese periodicamente (parzialmente) riscoperto dall'editoria inglese e italiana, è stato considerato “magistrale” da Lovecraft, è stato apprezzato da letterati eruditi e talentuosi come Yeats e Borges, è stato – post mortem – tra i protagonisti di vecchi e ormai polverosi casi letterari come “Il mattino dei maghi” [Gallimard, 1960] di Pauwels e Bergier; è forse avviato a diventare, col passare delle generazioni, soprattutto “scrittore per scrittori”, e cioè fonte di ispirazione e punto di riferimento per tutti quei narratori che vogliono sconfinare nel gotico spinto, nel fantastico, nell'esoterico.
Questo suo romanzo, all'epoca [1894] massacrato dalla critica inglese [divertente l'antologia dei giudizi critici, per lo più estremamente offensivi, raccolta dall'artista nella prefazione alla nuova edizione del 1916], è un libro che va amalgamando fonti di ispirazione assolutamente personali [i boschi, le rovine della classicità, la sensualità femminile, il significato dei simboli e dei miti] con altre piuttosto legate alla temperie culturale [il primo capitolo, peraltro uscito precedentemente in rivista, si può considerare parzialmente derivativo rispetto al modello del “Jekyll” stevensionano, di pochissimo precedente].
Dodici anni fa, al termine della prima lettura, mi ero convinto che dietro a determinate dinamiche della narrazione si nascondessero significati sociali, o addirittura cripto-fobie etniche; stavolta invece, forte del corposo lavoro ermeneutico di Alessandro Zabini, ho avuto al termine della lettura la netta sensazione che lo scopo di Machen fosse più alto. Machen voleva esclusivamente meditare sull'essenza della nostra specie, sulla paurosa bestialità che faticosamente abbiamo rimosso dai nostri comportamenti, sulla riemersione di qualcosa di ancestrale in certe condotte. “Vedere il Dio Pan”, nell'accezione macheniana, è sollevare una sorta di velo di maya e accedere a ciò che è reale e pre-esistente: è accedere (e potenzialmente attingere) a forze antiche e segrete, capaci di abbacinare e incenerire le anime e i corpi. Non è semplicemente intuire l'esistenza di una sorta di rimosso indicibile, e costringersi a misurarsi con questo rimosso. Estetizzare un pensiero così complesso è stato un lavoro magistrale.
G. Franchi, maggio 2016.
Uno dei massimi risultati di Machen, fascinoso narratore gallese…