Hacca
2009
9788889920251
La morte, la malinconia, il male di vivere: le frustrazioni, i fallimenti, l'angoscia. “Il gioco della verità” poggia su sedici racconti dello scrittore Andrea Carraro (Roma, 1959), famoso per “Il branco”, caratterizzati da una vena depressiva e cupa. Nera, che più nera non si può. In un certo senso, tutto a un tratto diventa prevedibile come un romanzo di genere; se anche per accidente s'è aperto uno squarcio di luce nelle storie, ecco che subentra, non senza grottesco, una disgrazia, una ferita terrificante, un morbo. È talmente prevedibile, l'epifania del male, che a un tratto fa ridere: è come nei filmati di Aldo Giovanni e Giacomo della Tv svizzera. E questo non va. Allora occorre prendere atto di quanto insegna il letterato Andrea Di Consoli, direttore editoriale di Hacca, nella bandella dell'opera: altrimenti si sbarella, si va a tingere di nero (paint it black) un libro che forse aveva un intento diverso dalla depressione (o dall'ilarità isterica) dei suoi cinquemila lettori plausibili: «Questi racconti ci dicono qualcosa di definitivo sul “male oscuro” della piccola-borghesia italiana, incarcerata in reticenze e rabbie covate troppo a lungo, e in tristi ritualità di un benessere di facciata. Ecco, dopo le prove magistrali de Il branco, La lucertola e Il sorcio, a cosa si sono ridotti i borgatari di Pasolini e i borghesi di Moravia. Eccoli, aggressivi e taciturni, aggirarsi in una enorme zona grigia di malessere, dove il borghese quartiere Trieste equivale al litorale romano “senza mare”; eccoli, infelici e senza sogni, sopravvivere “a reddito fisso”, trascinandosi da un silenzio all’altro, sfuggendo a ogni vera sociologia» (fonte: bandella).
D'accordo. Tecnicamente Carraro tiene; tengono i dialoghi, serrati e innervati da un'umanità credibile (meno quando sfociano nel dialetto, nel popolaresco; qualcosa s'inceppa, s'intoppa, rallenta), tengono le tramette tragiche dei suoi personaggi, tiene la scrittura: una scrittura che incolla alla pagina. È nei significati e nel senso che si vacilla. Qualche esempio. “La partita”: minimalismo carveriano, interno giorno piccolo borghese, un torneo europeo alla Tv; giocano gli azzurri. Un amico della compagna del narratore, Lucio, sta diventando cieco: il narratore si finge cieco per capire, o per recuperare l'attenzione di lei. Punto. Crisi d'una coppia nello psicodramma borghese “Dopocena”, tra scandalosi discorsi sessuali e incomprensioni irrisolvibili (e malaticce descrizioni di copule d'antan). Stupro e sessualità malata (in casa) in “Margherita”, nono pezzo; suicidio d'un vecchio innamorato nel giorno di San Valentino ne “Il biglietto”; infine, noie vaticane ne “Il parroco e il monsignore”, cronistoria d'un progettato matrimonio con rito misto (per un ateo) che naturalmente finirà male. Passiamo a “L'intervista”: un vecchio amico, sempre Lucio, ex hashishomane, nevrastenico, si ritrova protagonista di un pezzo su una rivista; la sua psicosi e il suo male di vivere faranno discutere la carta stampata. Narratore è il cronista. “Il muro di Guio”: esercito, giorni del servizio militare coatto. Spinelli, letture di Sartre a inguaiare un giovane proletario comasco; incontra il narratore, imbastiscono discorsi tra letteratura (poca), romanità (minima) e cose della vita (soverchianti), e ualà che finisce morto per overdose nelle battute finali. Epifania della morte nelle piccole cose protagonista del “Berretto”; senso di colpa per una morte in “La replica”; la morte letta da un bambino ne “La nonna morta”. Infine, un cadavere in mare nel sobrio “Un sabato al mare con papà”.
Una catastrofe psicocosmica, direbbe Sgalambro. Ci si domanda, a questo punto, che senso abbia “L'inaugurazione”, l'ultimo racconto: storia della formazione giornalistica di un volenteroso, giovane alter ego dell'autore, della sua scoperta della grettezza e della piccolezza di certo ambiente giornalistico, della tristezza sordida della frustrazione. Stavolta non crepa nessuno: niente suicidi, niente omicidi, niente handicap mostruosi, niente di sudicio. Sudicia è soltanto la vita dell'uomo di cultura, a quanto pare, proprio come tutte le altre. Posso dire che non sono d'accordo? Ecco, l'ho detto. Questo testo è di un buio intossicante e sconfortante, è la radiografia di una visione lugubre dell'esistenza e dei contrasti e delle contraddizioni della vita: argomentazioni poco convincenti (natura umana; inevitabilità), stesure meccaniche e a un passo dall'artificiosità, scrittura intelligente vittima del male.
Consigliato a quanti credono che la morte, la malattia, i tracolli e le violenze domestiche non esistono. Sarà un bagno di umiltà. Tutti gli altri possono tranquillamente tenersi al largo (ma ocio ai cadaveri, in mare).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Andrea Carraro (Roma, 1959), scrittore italiano. Ha pubblicato “A denti stretti” (1990), “Il branco” (1994), “L'erba cattiva” (1996), “La ragione del più forte” (1999), “La lucertola” (2001), “Non c'è più tempo” (2002) e “Il sorcio” (1997). Collabora con diversi giornali – ricordiamo almeno “La Repubblica” e “Il Messaggero”.
Andrea Carraro, “Il gioco della verità”, Hacca, Macerata 2009. Bandella di Andrea Di Consoli. Copertina di Maurizio Ceccato. Collana Novecento.
Gianfranco Franchi, aprile 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.