Il gabinetto del dottor Kafka

Il gabinetto del dottor Kafka Book Cover Il gabinetto del dottor Kafka
Francesco Permunian
Nutrimenti
2013
9788865941997

“Specie di diario dell'infamia e del disinganno”, stando a una delle prime, fulminanti battute dell'artista, o lancinante e caustico “zibaldone degradato”, per dirla con le parole del postfatore, il professor Daniele Giglioli, l'ultimo libro del letterato veneto Francesco Permunian, classe 1951, è come una porta sbattuta alle spalle. La porta della casa in cui si è vissuti per tanto tempo. L'artista padre della “Cronaca di un servo felice” [1999] in questo suo nuovo quaderno di narrativa, tormentato e buio, puntinato da memorie d'incontri letterari e accecato da scatti di rabbia micidiali, e rumorosi, sembra angosciato più dalla vecchiaia, e dalla morte, che dai suoi tradizionali nemici, cioè gli scrittori-pupazzo, il circo dell'editoria [tutta] e la grettezza della borghesia, in particolare della borghesia della provincia lombarda e veneta.

“Il gabinetto del dottor Kafka” [Nutrimenti, 2013; collana “Greenwich”, 30] è un mezzo epitaffio: il libro di un letterato che è riuscito a vomitare, finalmente, sulla “tomba della sua giovinezza”: uno che finalmente ha chiuso i conti col suo passato, uno che comincia a pensare che adesso può “morire in pace”. O forse no: “Mano a mano che invecchio e gli amici se ne vanno, sempre più spesso odo le loro voci mentre suona la campana della sera: ma quanti sono, quanti sono stati, i miei poveri e dolenti amici, e tutti giacciono sotto terra accatastati! Forse sarebbe opportuno farla finita, una buona volta, con questa quotidiana danza macabra, altrimenti i signori fantasmi mi prendono sul serio e mi arruolano d'ufficio nelle loro fila” [p. 21].

Meditare sulla morte, vagheggiando una transizione gentile in un ospizio là sul Garda, magari “per soli atei”, vale a dire per una “piccola comunità di miscredenti silenziosa e tranquilla, immersa in mezzo al verde, sul modello delle prime comunità cristiane”, è naturalmente il viatico per restituire un poco di luce alle origini: per tornare a ricordare l'infanzia, la primissima infanzia, e meglio ancora, e più raramente, per decidere cosa è stato l'inizio, dove è stato l'inizio delle proprie vicende famigliari, del proprio ghenos – mi viene da scrivere una cosa diversa, cioè “dove si è stati fabbricati”. Permunian è stato fabbricato nel Polesine.

“Il Polesine, la mia amata e odiata terra d'origine! Una striscia di pianura a lungo dimenticata da Dio e dagli uomini, che corre fino al mare fra l'Adige e il Po in mezzo a valli, canali e acquitrini. E non sono certo bastate le bonifiche e i nuovi campi, né le case al posto dei tuguri, per estirpare quel sentimento di solitudine e abbandono che alligna come un fungo velenoso nel dna di ogni suo abitante” [p. 54] – questo passo parla da sé, per quanto è onesto e fedele all'essenza della scrittura permuniana, ab ovo. Glossarlo è didascalico, a questo punto della sua produzione.

“Fame, miseria, alcolismo e ridicole superstizioni religiose, ecco di cosa c'era abbondanza laggiù dalle mie parti. E di quell'enorme e avvilente abbondanza, sembra impossibile, oggi non rimangono che dei brandelli di ricordi” [p. 75]. E per brandelli di ricordi, per ossi di seppia della propria giovinezza e fantasmi e spettri allegramente infestanti la narrazione, va, ruminando un malessere profondo e un amore altrettanto intenso, quello per la letteratura, vestita come una missione. Come una protesta, come la protesta di un pazzo che bercia, che bercia contro tutto, e per qualunque ragione. Ma bercia con stile.

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La morte è un'angoscia ossessiva, ma niente l'avvicina, e nessuno; è una sensazione che s'insinua e scombina il battito del cuore, magari, e spoglia il presente di colori, e toglie l'appetito: sfidarla non ha senso, e predicarla, dopo Cioran, è almeno avventuroso. E allora la morte s'inganna pisciando, di notte, prima di stramazzare d'insonnia, nel “meraviglioso boudoir ferroviario e filosofico che è l'unico posto sulla faccia della terra in cui io riesca a prendere sonno senza ricorrere all'uso massiccio di tranquillanti e sonniferi” [p. 147], scrive Permunian: quel posto è il bagno della stazione di Desenzano, dove W.G. Sebald immaginò si fosse specchiato Kafka, arrivando da Verona, e addirittura gli parve che uno dei graffiti accanto allo specchio potesse alludervi. E così finì per completarlo. E Permunian ha aggiunto qualcosa ancora. È un gabinetto comodo da raggiungere, perché l'artista abita là dietro. È una stazione in cui si sente a suo agio, un cuscino e una coperta sottobraccio, quando a casa il cuore batte male e le voci diventano troppe, e domandano strane cose, o giudicano, o pontificano, o stracciano ricordi. Cose del genere.

Tra un discorso sulla vecchiaia, uno sull'origine, uno sulla morte e uno sulla capacità di pochi esseri umani di estetizzare tutto, quale che sia il contesto, quale che sia il momento, qua e là riempiono e caricano di bellezza la narrazione reminiscenze letterarie, oppure omaggi. Omaggi amicali a intelligenze perdute, quella di Sergio Quinzio, quella di Maria Corti. Omaggi riconoscenti, come al poeta Zanzotto, primo lettore del manoscritto della “Cronaca”. Omaggi deferenti, come al matto Walser, sbirciando nelle sue cartelle cliniche, là dove non si dovrebbe guardare, perché non c'è più niente da capire: e osservando la sua tomba, “prato verde e marmi grigi” tutto attorno, “silenzio e solitudine svizzera” [p. 41]. Omaggi buffi e amari, come a Pasolini, ricordando le sue avventure lagunari, le sue ubriachezze moleste nella Chioggia di Comisso, e solidarietà ondivaghe [al povero Mastronardi] per le beffe editoriali. Ma il momento più bello è quando il letterato veneto parla del suo Novecento letterario: e dopo aver nominato qualche laterale che sente vicino, da Angelo Fiore ad Antonio Delfini, da Guido Cavani ad Amedeo Giacomini, infine saluta i suoi fratelli maggiori: Meneghello, Piovene, Parise, il grande Parise. I suoi fratelli veneti, nostri piccoli maestri, ragazzi morti e comete.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Francesco Permunian (Cavarzere, 1951), scrittore e bibliotecario veneto. Ha esordito pubblicando “Cronaca di un servo felice” [Meridiano Zero, 1999].

Francesco Permunian, “Il gabinetto del dottor Kafka. Piccolo memoriale illustrato di ombre e fantasmi”, Nutrimenti, Roma, 2013. Con una nota di Daniele Giglioli. Collana “Greenwich”, 30. ISBN 9788865941997.

Gianfranco Franchi, febbraio 2013.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Ma il momento più bello è quando il letterato veneto parla del suo Novecento letterario…