Il fratello greco

Il fratello greco Book Cover Il fratello greco
Diego Zandel
Hacca
2010
9788889920534

“Alla fine, dalla valigia, aveva tirato fuori un libro. Era un vecchio romanzo, 'La maschera di Dimitrios' di Eric Ambler, un autore che a lui era sempre piaciuto. Il romanzo cominciava con una frase alla quale sarebbe tornato più avanti nel tempo, quando Soula, da sconosciuta con la quale aveva scambiato solo poche battute all'aeroporto di Atene, sarebbe diventata la sua donna, lì in Grecia. La frase è: 'Un francese di nome Chamfort disse una volta che il 'caso' si identifica con la provvidenza'” (Zandel, “Il fratello greco”, p. 39)

… e la provvidenza restituisce al protagonista dell'ultimo romanzo di Diego Zandel, “Il fratello greco”, senso, equilibrio e un gioioso segreto del passato: questo potrebbe essere il sentiero di lettura principe di un quaderno narrativo che va assemblando i due binari fondamentali della scrittura di DZ, vale a dire quello, ispirato e trascinante, d'argomento e d'ambientazione giuliano-dalmata e quello, più sottile, stratificato e complesso, d'argomento e d'ambientazione greca. La sensazione, leggendo il romanzo, è stata abbastanza chiara: quel passo lì, con il richiamo al cittadino francese di nome Chamfort e alle sue convinzioni sulla predestinazione, sembrava proprio nucleare, e questo a dispetto del suo posizionamento tutt'altro che rilevante, nell'economia del testo. È una mia suggestione. Una volta detta la abbandono, e propongo subito la seconda.

La disoccupazione ingiusta dei dirigenti di cinquant'anni o poco più è uno degli assi portanti del nuovo libro dello scrittore fiumano-romano Diego Zandel, classe 1948. “Il fratello greco” muove da questo presupposto: Errico (proprio così, doppia erre: paterno omaggio a Malatesta) è un ragazzone di 54 anni che da un anno ha lasciato il lavoro. Meglio: un anno prima, è stato costretto dalla sua azienda a lasciare il lavoro. E...

“Dopo le prime settimane di smarrimento, aveva provato a mandare il suo curriculum in giro, alle aziende in cui aveva delle conoscenze. Il silenzio dei suoi interlocutori prevaleva sulle risposte negative. Al massimo, come gesto di cortesia, riceveva una presa in considerazione per un indefinito futuro. A un certo momento, non aveva più voluto sottomettersi a quelle che ormai viveva come umiliazioni” (p. 17).

Man mano, Errico ha perso lucidità e serenità. Sta soffrendo troppo per la costrizione alla stasi: è troppo giovane per spegnersi, e viene da un passato pieno di responsabilità nel (misterioso e fumoso) mondo della pubblicità e della comunicazione per accettare il “non è” della pensione e dell'otium. È uno dei molti cinquantenni pieni di voglia di fare, “interamente dediti all'azienda per la quale avevano lavorato tanti anni e che, incentivi o meno, avrebbero voluto continuare a farlo” (p. 37), che si sono ritrovati costretti ad accettare un mondo diverso, più semplice e precocemente pantofolaro. È uno di quelli che “per tanti anni si era sentito diverso, superiore, a quella gente che non aspettava altro momento che quello di andare in pensione. Per fare poi cosa? Per vivere senza far nulla e, alla fine, morire di una malattia qualsiasi che era la proiezione di quella inedia? Era stato il destino di molti. Ed Errico non poteva sopportarlo per se stesso” (p. 50).

Errico però ha la fortuna d'avere al suo fianco una moglie che capisce. Capisce la sua crisi di mezza età e di pensione acerba. E allora riesce a spingerlo a partire, partire proprio per quell'isola, Kos, dove suo padre Achille aveva combattuto in guerra. E riesce a convincerlo pensando che il viaggio potrebbe guarirlo dal torpore. Nel corso dell'esperienza a Kos, Errico si riallinea e si ritrova: complice un'altra donna e una clamorosa scoperta sul suo passato. E tutto a un tratto scompaiono i riferimenti alla sua angoscia di pensionato/disoccupato ante litteram. E ci si ritrova in un terzo romanzo. E allora provo a raccontarvi anche questo.

L'esperienza dei soldati italiani impegnati in Grecia negli anni Quaranta, quando Kos faceva parte dei Possedimenti Italiani del Dodecanneso, Rodi capoluogo, è uno degli assi portanti del romanzo “Il fratello greco” di Diego Zandel. Ci ritroviamo (dimenticate Ugo Pirro e “Le soldatesse”, per un attimo: focalizzate più una situazione da Cefalonia) a leggere le vicende di quelle truppe che, post otto settembre, in Grecia caddero vittima del fuoco degli ex alleati tedeschi, costrette alla fucilazione o alla deportazione o alla fuga via mare, magari con la complicità dei cittadini greci. Errico ritrova un diario del padre, e può leggere di quando i crucchi rastrellavano le campagne in cerca di nostri connazionali, perché in parecchi s'erano dati alla macchia. E può immaginare con più facilità quanto sia stato preferibile ritrovarsi prigionieri, magari in un campo inglese di Alessandria d'Egitto, piuttosto che mezzi banditi armati contro gli ex alleati.

Il padre di Errico, però, non è soltanto un soldato italiano capace di salvare la ghirba. È anche uno che sa scegliere una bella donna da amare e sa rischiare pur di averla, nell'isola. E suo figlio, per uno strano destino, si ritrova a vivere in affitto, tanti anni dopo, proprio nello stesso villaggio in cui si era nascosto lui. Predestinazione. E in quel contesto scopre che suo padre ha dato alla Grecia molto più di quanto poteva immaginare. Molta più vita.

Ma nemmeno questo basta a essere fedeli allo spirito del libro. Perché c'è una quarta strada per raccontarlo. È labirintico, e non mosaicale, “Il fratello greco”. Si sarà inteso. E questo a dispetto della sua apparente linearità.

Il padre soldato nell'isola di Kos si ritrova, alla fine della guerra, nel campo di Servigliano. Là dove affluivano i profughi, nostri fratelli, “provenienti dai territori della Venezia-Giulia, dell'Istria, di Fiume, della Dalmazia, passati alla Jugoslavia. Venivano raccolti nel campo di concentramento costruito, durante la Prima Guerra Mondiale, per i prigionieri austriaci” (p. 31). E in quel campo il padre Achille incontra Melita, da Fiume. E a sentirla parlare di foibe e di esuli maledice ancor più la guerra, e s'innamora ancor di più di lei. È una degli italiani profughi per forza, “se ne sono andati proprio perché cacciati dagli jugoslavi” (p.46): una che si lamenterà tutta la vita che la sua storia, e la storia della sua gente, “l'unica ad aver pagato per una guerra persa da tutti gli italiani, era così poco conosciuta”. E mistificata, tanto che certi comunisti (tutti) e certi democristiani (sciattoni) avevano voluto lasciar intendere che eravamo jugoslavi, chissà perché, o regnicoli italioti emigrati per colonizzare le terre slovene e croate. Ma quando mai. Noi là c'eravamo sempre stati.

E così Achille e Melita danno vita ad Errico nel campo profughi di Servigliano, nelle Marche. E poi partono per Roma.

“Qui, sulla via Laurentina, oltre la periferia della Capitale, in pieno agro pontino, c'era un insediamento di profughi che aveva preso il nome di Villaggio Giuliano-Dalmata. Avevano occupato le baracche in muratura che fino a poco tempo prima erano state i dormitori degli operai che costruivano i palazzi dell'E42, l'Esposizione Universale Romana. I suoi genitori e i nonni ci erano arrivati nel luglio del 1948. Errico aveva tre mesi” (p. 32). E crescendo da quelle parti, avrebbe imparato tanto della tragedia del suo popolo e tanto del vecchio mestiere del padre, quello della comunicazione. Ex tipografo diventato giornalaio, Achille accompagna Errico nel mondo della scrittura. E da questa scrittura nasce buona memoria generazionale. Buona e fin troppo ricca.

No, neanche questo basta. Neanche il quarto sentiero di lettura. Come raccontiamo allora “Il fratello greco”? Come una sintesi di questi quattro microcosmi, di buona letterarietà e di grande sentimento, scritta da uno dei nostri autori più facili ad abbracciare e coniugare culture e lingue diverse: non a caso, si tratta d'un artista figlio della frontiera grande e cosmopolita che fu Fiume. Zandel è figlio di Fiume per sangue, e per cultura. Ed è perfettamente italiano, nella sua orgogliosa capacità di sintetizzarne tante, di culture – e con così tanta naturalezza.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Diego Zandel (Servigliano, 1948), giornalista e scrittore italiano, di sangue istriano, nato in un campo profughi da genitori fiumani.

Diego Zandel, “Il fratello greco”, Hacca, Matelica 2010. Bandella di Pietro Cheli. Copertina di Maurizio Ceccato.

Gianfranco Franchi, Dicembre 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Errico (proprio così, doppia erre: paterno omaggio a Malatesta) è un ragazzone di 54 anni che da un anno ha lasciato il lavoro. Meglio: un anno prima, è stato costretto dalla sua azienda a lasciare il lavoro. E…