Alacran
2010
9788863610147
L'Istria raccontata da Diego Zandel, scrittore fiumano classe 1948, romano d'adozione, è un'Istria perduta: quella in cui la minoranza croata, dalle parti di Albona, antica città romano-veneta, conviveva armoniosamente con la maggioranza assoluta italiana, come niente fosse. È un doloroso piacere leggere la nuova edizione del suo “Una storia istriana” (Rusconi, 1987), questo “Il figlio perduto. La mia storia dalla terra d'Istria” (Alacran, 130 pp., euro 13,50): doloroso perché la memoria, e la fantasia, vanno a un periodo in cui tutte le disgrazie dei giuliano-dalmati erano ancora molto distanti dall'accadere, piacevole perché Zandel sembra coniugare i migliori momenti della scrittura e dello spirito dell'umaghese Fulvio Tomizza con lo spirito civile, democratico e dialettico del dalmata Enzo Bettiza, da Spalato. Eppure, quando il romanzo del fiumano-romano Zandel apparve nel 1987, ci fu chi – come il polesano Pasquale De Simone, direttore de “L'Arena di Pola” – rifiutò di scriverne: perché considerava l'opera espressione “di un'Istria che non ci appartiene”. E perché mai? Perché il De Simone, democristiano sindaco di Gorizia, ala sinistra morotea, non si riconosceva nella storia della famiglia paterna di Zandel, in cui c'era chi parlava “ciakavo”. L'Istria era e doveva restare “italianissima”. Grave errore: perché come chiunque venga da quelle parti sa, ognuno di noi può vantare gocce di sangue sloveno, croato, austriaco o serbo; grave errore, perché come Slataper e Stuparich insegnano la scelta dell'Italia e dell'italianità era un fattore culturale e spirituale, prima che etnico. Non c'è niente di male: basta esserne coscienti.
Cos'era dunque questo misterioso e impronunciabile “ciakavo” di cui parla Zandel? Era “Il dialetto slavo dell'interno dell'Istria, appena ammorbidito da influenze e cadenze italiane, venete. Il fascismo lo aveva proibito nelle scuole. Giacomo aveva spesso sentito in casa i grandi lamentarsi di questo, e rimpiangere il periodo in cui stavano sotto l'Austria, solo vent'anni prima”. Insomma, niente di male: come chiunque sa, e come Ara e Magris insegnavano trent'anni fa nel loro Trieste. Un'identità di frontiera (Einaudi) la maggioranza assoluta degli italiani e degli italofoni stava nelle città e nelle cittadine istriane, e lungo la costa, in generale; l'entroterra, certo molto meno popoloso, era e restava a maggioranza slava. Chiaro che la lingua dei commerci fosse il dialetto, prima ancora dell'italiano; più chiaro ancora che quel dialetto fosse veneto, sulla costa, e spesso “ciakavo” nell'entroterra.
Quel che Zandel vuole suggerirci è quanto, per dire, ci insegnava Ondaatje nel Paziente inglese: in certi frangenti, i nazionalismi assoluti sono uno sbaglio mortale; e questo principio vale per entrambe le parti. L'artista ci ricorda che ancora oggi c'è chi, in Croazia e in Slovenia, minimizza la portata di un esodo che ha “creato un vuoto demografico tale da modificare geneticamente, poi con l'arrivo di emigrati provenienti dall'interno della Repubblica Federativa, il tessuto umano e sociale della regione come mai prima era avvenuto”: si tratta di politici e intellettuali che parlano di quella che fu l'amministrazione italiana come di una “occupazione”, e del passaggio dei nostri territori e delle nostre città alla Jugoslavia come di una “restituzione”. Sono concetti grotteschi che è facile smentire e demolire, carte alla mano: la relazione Maranelli-Salvemini basata sul censimento austroungarico del 1910 basta e avanza. Ma sono concetti grotteschi che hanno attecchito, da quelle parti, e allora Zandel non si meraviglia di quanto accaduto al regista Paolo Magelli, aggredito a Fiume nel giardino di fronte al Teatro Verdi perché parlava in lingua italiana; né di quanto richiesto al quotidiano fiumano croato “Novi List” da un lettore, ossia di cancellare la scritta “Fiume”, sul vecchio molo del porto: tragicomica damnatiomemoriae, mancata per un pelo.
La responsabilità va cercata a monte: storici accademici come Petar Strčić, presidenti della repubblica come Stipe Mesić hanno influito drammaticamente nel sentimento d'odio antitaliano. Nel belpaese, negli ultimi anni, gli ultrariduzionisti o i negazionisti sono ormai ridotti a una minoranza ridicola da oscurissime botteghe borgatare, falci e martello al collo e tanti saluti a Tito e ai suoi massacratori: militano in nome della storia creativa, e non hanno il senso del limite. Torniamo al nostro libro. Nella postfazione, lo storico Guido Crainz, esaltando questa nuova pagina letteraria di storia multiculturale, multilinguistica e multietnica d'Europa, scrive che “è aspra, questa storia. È aspra per la vicenda che racconta e per il suo scenario, dominato dal massacrante lavoro della miniera […]. Sono diverse le 'Istrie' e le aree giuliane e dalmate che molta narrativa e memorialistica hanno evocato in questi anni: l'Istria dei profughi (Fulvio Tomizza, Anna Maria Mori, Maria Grazia Ciani), e di chi è rimasto (Nelida Milani); la Fiume sottesa alla scrittura di Marisa Madieri […] e le 'storie di vita' degli sloveni durante il fascismo, evocate con partecipe rigore da Marta Verginella”. E questa diversità è nostro patrimonio, di intellettuali e cittadini, letterati e lettori: perché se davvero vogliamo rendere giustizia a chi ha perduto terra, casa, mare e tessuto sociale, non possiamo nascondere o dimenticare niente di quella che era l'identità del suo popolo.
Zandel, in questo gran libro, ci racconta la storia – vera – di uno che chiama Sime Miculian. Ha speso tutta la sua vita in miniera, risparmiando abbastanza per comprarsi un pezzo di terra e una casetta; purtroppo non ha avuto bambini, per l'infelicità sua e di sua moglie, Giovanna. Allora prima ne adotta uno, che era suo nipote: vuole che diventi il suo erede, ma il ragazzo soffre troppo per il distacco dai suoi fratelli, da Fiume e dalla mamma, e la vicenda finisce tragicamente. Si ammazza. Sime l'istriano-croato, pure schiacciato dal dolore, non s'arrende. Qualche anno dopo s'innamora di una vedova e, nonostante gli ostacoli d'una relazione clandestina, e tutta l'ostilità sociale del mondo, si ritrova ad aspettare un bambino. Le cose non andranno come sognava, forse perché, come già osservava Carlo Sgorlon sul “Piccolo” del 6 maggio 1987, uno degli ascendenti della narrativa di Zandel è Verga: questo romanzo è un romanzo di vinti, proprio come il "Vera Verk" di Tomizza. E tuttavia, come rilevava Guido Gerosa sul “Giorno” del 10 maggio 1987, Zandel ha il “periodare avaro e insieme lirico, la pagina dal vasto respiro, il gusto della terra che avevano Corrado Alvaro, Bilenchi, Guelfo Civinini: con echi dei grandi della Venezia Giulia: Svevo, Saba, Quarantotti Gambini”.
Sì, esuli e loro figli e nipoti incontrano, in questo romanzo, canti in lingua croata: una lingua diventata, da cugina piccina e innocua che era, nemica. Ma adesso, nel 2010, che nemici più non siamo, e piuttosto dobbiamo andare a sedere assieme, nel Parlamento Europeo e nelle Università, è fondamentale che ci si impegni a scrivere assieme la verità. E una delle verità più belle e tragicamente perdute è che da quelle parti, fino a pochi decenni fa, si viveva assieme. Ci si sposava. Si parlavano tante lingue, ci si capiva in dialetto. E nel mare di Fiume, noi maggioranza assoluta e voi minoranza, ci bagnavamo insieme. Com'era, quel mare? Zandel dice che il golfo si schiudeva con tutte le armi della seduzione: “Nel mare, splendente dei riflessi del sole, si gettava, come una cascata, il manto verde, gaio e nitido prima delle foschie estive, dei monti e delle isole. Era impossibile resistere. In gruppo, i ragazzi scendevano dalla parte del cantiere navale, raggiungevano il mandracchio, si spogliavano: cominciava la sfida tra loro, chi avrebbe osato il primo tuffo della stagione. L'acqua era ancora fredda, lo suggeriva anche la crespatura – quelle onde piccole e continue che si frangevano prima di fare la schiuma – provocata dalla bavetta di superficie. Poi, dall'alto del molo, qualcuno rompeva gli indugi, compiva il salto, un sonoro splash che convinceva gli altri a imitare l'impresa. Un brivido, ed era ormai estate”. Noi quest'estate vogliamo viverla ancora; nel nome dei padri, nel nome dei nostri figli.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Diego Zandel (Servigliano, 1948), giornalista e scrittore italiano, di sangue istriano, nato in un campo profughi da genitori fiumani.
Diego Zandel, “Il figlio perduto. La mia storia dalla terra d'Istria”, Alacran, Milano 2010. Postfazione di Guido Crainz. Bandella di Andrea Di Consoli.
Prima edizione: Rusconi, 1987, col titolo “Una storia istriana”. 2010: riveduta e ampliata.
Gianfranco Franchi, marzo 2010.
Prima pubblicazione: Il Secolo d'Italia, 30 marzo 2010. A ruota, Lankelot.
Sì, esuli e loro figli e nipoti incontrano, in questo romanzo, canti in lingua croata: una lingua diventata, da cugina piccina e innocua che era, nemica. Ma adesso, nel 2010, che nemici più non siamo…