Il ferroviere e il golden gol

Il ferroviere e il golden gol Book Cover Il ferroviere e il golden gol
Carlo D'Amicis
Transeuropa
1998
9788878281424

I malati di calcio e di letteratura hanno avuto poche opportunità di apprezzare una simbiosi tra le loro passioni: naturalmente “Febbre a Novanta” di Nick Hornby, qualche pagina di Soriano, certi articoli di Gianni Brera e Gianni Mura; qualche raccolta di racconti di giornalisti sportivi, tendenzialmente ultraterritoriale, e infine, fuori categoria, agiografiche autobiografie in odore di ghost, da “Io presidente” di Marchini in avanti. “Il ferroviere e il golden gol”, secondo romanzo di Carlo D’Amicis, viene a colmare – con personalità – una lacuna in un genere altrimenti destinato, nella nostra letteratura italiana, a registrare, paradossalmente, i migliori esiti in poesia: nei versi di Vittorio Sereni, di Umberto Saba, di Fernando Acitelli. Curiosamente, nello stesso anno – 1998 – escono “La solitudine dell’ala destra” del poeta romano e questo libro di D’Amicis, in cui c’è un’altra ala: agorafobica. Si vede che il malessere dei tornanti era nell’aria.

Premessa dovuta: cos'era il "golden gol?" Era una regola applicata proprio in quegli anni (1996) e poi abrogata (2004). La prima squadra che avesse segnato durante i tempi supplementari avrebbe vinto la partita. Noi italiani abbiamo perso un Europeo (quello di Totti: 2000) per via di questa norma.

"Il ferroviere e il golden gol" è la storia di un controllore delle FS, cassintegrato, delle sue passioni e del suo disordine esistenziale. Orfano di padre da vent’anni, una madre mezza sorda e un fratello invalido – Leone – come famiglia, un amore non corrisposto per la cognata, Lisa, e la sensazione di essere soltanto quel che gli altri s’aspettano che sia: “Non sapevo neanch’io se mi piaceva di più far finta di non essere quello che ero oppure fare finta di essere quello che non ero. Ma in ogni caso non avevo il minimo dubbio che loro facessero finta dicendo: ‘Mi piaci per quello che sei’” (p. 80).

Questi problemi identitari diventeranno un topos della narrativa di D’Amicis. Nel 2006, in “Escluso il cane”, individuiamo un passo che andrebbe confrontato con questo: “Escluso il cane, tutti vogliono aiutarmi. A essere diverso da quello che sono. A essere uguale a quello che pensano io sia. A essere almeno un po’ somigliante a quello che avrei dovuto essere” (p. 137).

Le similitudini non terminano qui: confrontare il ruolo della madre del protagonista nelle due opere, o la parola-spia “artiglio” (p. 23) per orientarsi nel dna della scrittura dell’autore. Torniamo alla trama del "Ferroviere". Il protagonista del romanzo è una figura sfortunata, sia per contesto e vicissitudini famigliari, sia per inappagamento sentimentale (quello per Lisa è un amore totale e impossibile: lei si prende gioco di lui ma lo lascia fare. Dice di amare – anzi: adorare – ma si concede a tutti fuorché a lui), sia per squilibri professionali. Il supporto del carismatico fratello (paraplegico), imbonitore televisivo, vale e non vale: il narratore non nasconde cupio dissolvi.

Il ferroviere è un football addicted, un ossesso che legge il mondo e le cose della vita pensando a stile e spirito dei calciatori, storia dei club, giocate memorabili e via dicendo. E tutto a un tratto, durante uno dei suoi clandestini e grotteschi viaggi in treno, un incontro fortuito con chi da sangue di ferrovieri egualmente proveniva, ma ben diverse e popolari fortune aveva avuto, cambierà il corso delle sue giornate.

Prima di nominare l’innominabile (curiosamente quel nome non è mai scritto per esteso nemmeno nel romanzo), serve un’opportuna introduzione. Nei tardi anni Novanta, Luciano Moggi era considerato solo da alcune tifoserie e da alcuni organi di stampa un manovratore occulto con atteggiamenti mafiosi: per i tifosi della sua squadra, la Juventus, e per diversi media mainstream era un abile dirigente, al limite un po’ naif. Un manager di successo dai metodi spicci, ma non illegali. Quel che è accaduto in seguito – le inchieste, le denunce, lo scandalo di calciopoli, la scoperta di una “cupola” nel mondo del pallone italiota – poteva essere previsto solo da certi tifosi romanisti molto amareggiati e livorosi. Quelli che giuravamo fossero discorsi da bar si incarnarono nella realtà e si dimostrarono veri: L.M. era il male, la Juventus la sua espressione.

Ciò detto, non stupisce che in un romanzo dei tardi anni Novanta sia Luciano Moggi uno dei personaggi positivi: non solo per via delle sue umili origini, ma per via della percezione del suo potere che, ripeto, poteva essere questa.

Il ferroviere incontra Moggi in treno: ne deriva uno scambio di battute e la promessa di diventare uno scout per la squadra della Fiat. La vita del cassintegrato che viaggiava nei treni per non pensare al tempo che passava cambia: un po’ perché non ha altro da fare, un po’ perché vuole essere quel che non sarà mai, si inventa – irrichiesto – scout a tempo pieno e convince e illude diciotto giovani della sua terra, la Puglia, dell’opportunità di fare un provino con la Juve. L’intreccio giocherà su tutta una serie di equivoci sino al finale lirico e romantico, giocato su un campetto tra i campioni della squadra torinese e l’armata brancaleone del ferroviere, in una partita nata per mettere una pietra sopra quanto accaduto. Perché Moggi era amico del padre.

Stilisticamente, nell’opera apprezziamo l’ironia e il grottesco cari all’autore, e una piacevole tendenza alla digressione, magari parentetica; una ricchezza senza precedenti di omaggi e citazioni a grandi calciatori del passato e del presente, che non può non fare breccia nel cuore degli appassionati.

D’Amicis è capace di descrizioni di grande bellezza. Come in questo passo:

Non che tutti la capissero, quell’arte che rendeva evanescente e lirico perfino un pallonetto: nell’intravedere l’artiglio di Lapelosa che iniziava a basculare senza decidersi al tiro, a spostare non si sa se la palla o la nozione del tempo, i suoi stessi compagni di squadra profanavano l’aura sacrale della domenica mattina con pirotecniche bestemmie, e solo allora la vita riprendeva a fluire, il pallone tornava rotondo, e finalmente lui si decideva a colpirlo, il più delle volte con un magistrale traversone che fendeva il campo da sinistra a destra” (p. 23).

Nel complesso, l’opera gioca su tre diversi campi – sociale, sentimentale, esistenziale – mostrando grande sensibilità nei confronti delle disagiate condizioni di vita della piccola borghesia e del proletariato e notevole adesione all’espressione del territorio, la Puglia; al contempo, il romanzo ha un retrogusto favolistico, perché almeno nell’epilogo la vita del ferroviere incontra qualcosa di irripetibile. Non un amore corrisposto – l’ideale non si stringe – né un lavoro altro, ma una partita che non si sarebbe potuta giocare mai.

Ristampato oggi e distribuito e promosso a dovere, questo libro potrebbe diventare un buon romanzo popolare, paradossalmente riabilitando l’immagine di un uomo come Moggi e di quella Juventus, e questo forse è l’unico problema insormontabile. “Il ferroviere e il golden gol” rimane – in ogni caso – pietra miliare di un genere poco frequentato e ancora in attesa di un capolavoro assoluto, almeno in lingua italiana.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Carlo D’Amicis (1964), giornalista e scrittore italiano. Ha esordito pubblicando “Piccolo Venerdì” (Transeuropa, 1996).

Carlo D’Amicis, “Il ferroviere e il golden gol”, Transeuropa, Ancona 1998. Prefazione di Tiziano Scarpa.

Gianfranco Franchi, Maggio 2008.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Storia di un controllore delle FS, cassintegrato, delle sue passioni e del suo disordine esistenziale.