Meridiano Zero
2007
9788882371425
Incontriamo el Luis, il Luigi Balocchi autore dell’appena edito “Il diavolo custode” (Meridiano Zero, 2007). Per prima cosa, in considerazione della recensione appena pubblicata, domando al Balocchi di evidenziare tutto quel che ha trovato sbagliato nel mio articolo: ti domando di bastonare eventuali fraintendimenti, di correggere errori e inesattezze, di integrare omissioni e lacune. Subito dopo cominciamo col fuoco delle domande.
LB: Tu hai colto la natura del mio scritto. Sei giunto allo spirito al di là della lettera. Per mì va ben inscì. Bene così. Qualche inesattezza semmai è dovuta all’uso che faccio del dialetto, pardon, della lingua lombarda e non. Ma in fin dei conti l’importante è pedalare.
GF: Nella tua scheda sul sito di Meridiano Zero, leggiamo: “È fondatore del gruppo di ricerca linguistica ‘La Brasca’, volto al recupero della tradizione dialettale in chiave di proposta letteraria. Organizza pubbliche letture del repertorio vernacolare lombardo”. Raccontaci tutto: della nascita de ‘La Brasca’ e delle sue pubblicazioni; di quando, dove e come si tengono queste letture, e di quanto siano importanti per restituire identità e coscienza ai cittadini. Segnala – se possibile – video o mp3 a disposizione dei tuoi lettori, sul web.
LB: Vedi, la “Brasca” è un equivoco, come del resto gran parte della mia vita. E’ nata da un gruppo di amici che, mentendo a se stessi, si illudevano di affrontare concretamente e soprattutto con costanza un proficuo lavoro sulla lingua lombarda. In realtà, ciò che li spingeva a creare “La Brasca” era l’inconsolabile loro solitudine la quale, appunto sotto mentite spoglie, trovò nell’associazione un suo giustificarsi. Che fa “La Brasca”? Parla in dialetto milanese o pavese, si ritrova per mangià la cassoeula, è nostalgica, arruffona, a tratti feroce. Ha pubblicato la traduzione del “Qoelet” in lingua biegrassina, l’abbiatense di Abbiategrasso (Biagrass), organizza qua e là letture in lombardo. La “Brasca” è un sogno di nebbia, paludi, boschi, racconti di risse e battaglie amorose. La “Brasca” è nera, rossa, unta e bisunta. E’ la vita che mai si rinnega. Io e la mia compagnia di cialtroni paesani siamo “la Brasca”. Se qualche locch ci avesse per la testa di sentire recitare in lombardo ci chiami. Noi ci saremo. T’hee capìi?
GF: Hai collaborato come cronista di nera con vari quotidiani e riviste: potresti raccontarci quali, e potresti spiegarci quanto questa attività ha influito sulle tue creazioni artistiche? Il tuo editore ha un altro ex cronista di nera che ha lasciato il segno nelle letterature europee, Audiberti di “Marie Dubois”. Ti riconosci in quel che scriveva l’artista francesce? «Il fatto di cronaca non è un mediocre romanticismo da portinaia. Ogni istante è imbottito di fatti di cronaca che si lanciano alla ricerca di angosce emiplegiche, di terrori infantili, di baruffe coniugali, di autobus mancati, a Parigi, nell’Universo. Il fatto di cronaca è la grande storia del quotidiano»
LB: Mi sont d’accordi col Audiberti. La cronaca di un fatto di sangue è principalmente l’immagine concreta, carnale, del fatto stesso. Tutto il resto è finzione. Nel mio romanzo tratto il fatto di sangue (e non solo) essenzialmente giocando sul ritmo accentuativo delle parole. Perché un colpo di pistola non ha coscienza di sé. Né, seguitamente, è giusto che ne abbia lo scrittore che della revolverata narra l’impatto e l’effetto. Altra cosa sono le motivazioni che di quel colpo stanno alla base. Praticamente nulle, credimi. Chi uccide, spesso, lo fa ravvolto in un istante assoluto. Passasse un minuto, probabilmente, farebbe tutt’altra cosa. Ecco. La nevrosi del grilletto, della spranga, del coltello, molto ci può dire su di noi.
GF: Come e quando nasce l’idea di scrivere “Il diavolo custode”? Qual è la genesi del romanzo? Quali erano i tuoi rapporti con Sante Pollastro, e quale credi sia la sua eredità?
LB: Io volevo narrare una grande storia nata nella nostra pianura, tra il Piemonte e la Lombardia. Una storia strafalciona, grottesca, crudele. La storia di un grande uomo la cui esperienza è unica e irripetibile. E volevo, tramite essa, narrare di noi. Delle nostre vite a brandelli, a tocch, disilluse, umiliate, invitte. Di più, mi ripromettevo di narrare la lingua mia e di quelli come me. Sante Pollastro l’hòo cognosùu quand oramai l’era vecc, anzi poco prima che morisse. Gli ho parlato per non più di dieci minuti. Mi gh’avevi derset ann (avevo diciassette anni) lui quasi ottanta. Sai, io c’ho buona memoria. E ho visto cose che spesso gli uomini hanno solo desiderato (citazione). Per trent’anni ho tenuto questa storia sotto le lenzuola. Poeu l’è vegnùu foeura. E l’ho scritta.
GF: Qual è il ruolo giocato dai magistrali insegnamenti – letterari ed esistenziali – di Max Stirner nella tua opera? Che senso ha restituire Stirner, oggi, ai contemporanei?
LB: Io sono essenzialmente, caratterialmente, uno stirneriano. “L’Unico” l’ho amato molto. Stirner pagò lo scotto di essere un genio, un profeta. Per questo finì per fare il lattaio. Ditemi però voi che senso ha credere nello stato democratico, nella civiltà dell’usura, nell’imperante feticcio del consumo? Sono, a ben vedere, semplicemente idee, o meglio, ossessioni. Credimi, chiunque voglia, oggigiorno, compiere davvero, animicamente, un percorso di libertà non può che riferirsi a Stirner.
GF: François Villon, Jack Black: ecco la letteratura del vagabondo ribelle e criminale, a distanza di secoli e di nazioni diverse. Considerando la loro lezione, e quella del romanzo picaresco… quali sono i padri del genere, secondo te? A chi senti di dovere qualcosa, in particolare, scrivendo biografie romanzate di figure volontariamente bandite dalle fonti storiografiche, e tuttavia spesso leggendarie per i cittadini?
LB: Torno a ripetere che io ho scritto su Sante in principal modo per parlà de num, per parlare di noi. E avevo certo davanti le lezioni dei Villon, dei Black, ma anche di Cervantes, Flann O’Brien, Deguignet, per citarne tre a caso. Ma loro mi hanno abitato solo successivamente. Devo tutto di me ai miei vecchi, ai racconti di osteria, agli ormai non più giovani bevitori della sconsolata periferia milanese. Devo poi molto al Ticino, ai miei boschi. Alla mia splendida lingua. Sono cresciuto tra gente forte e sfrontata, che parlava unicamente in lombardo. Che non si aveva assolutamente a male se, nelle notti di inverno, dopo un massacrante turno in fabbrica, portava a casa, sulle spalle, un quintale di carbone. Rubato. Onore eterno a quelli del mio sangue.
GF: Immagino che avrai letto “Il bandito e il campione” di Marco Ventura, a differenza mia. Posso domandarti se vi conoscete, se la scrittura delle due opere in contemporanea è stata una coincidenza e – in generale – come giudichi il suo lavoro, e quanto te ne senti eventualmente distante?
LB: Guarda. Io non conosco Ventura, né l’ho letto. Quando il suo libro uscì, io, che stavo completando il mio, gli scrissi per avviare con lui un contatto. Bene. Mai ricevetti risposta. Questo per marcare una doverosa differenza. Io ho scritto di ciò che ho visto e vissuto. C’entri nient con lùu.
GF: Quando hai esordito, come romanziere? In rete trovo traccia di altre tue opere pubblicate in precedenza, senza tuttavia riuscire a risalire all’editore, o almeno alla loro reperibilità. Raccontaci quando la tua attività di scrittore ha avuto inizio, con quali ambizioni e quali sogni, e quali risultati. Soprattutto: spiegaci come ordinare gli altri titoli.
LB: La mia prima pubblicazione risale al 1996. Ne taccio. Invece ti dico che con il mio vero nome di Luis Balocch (giacché Luigi Balocchi ne è l’italianizzazione) ho pubblicato qualche anno fa “Tra Corna e Danée” merito di una piccola casa editrice che fa cose simpatiche. E’ la Casa Editrice “Primordia”. Ha anche una libreria in Via Piacenza a Milan. Se vuoi domanda a loro. E’ un bel libro. Straziante, direi.
GF: Cosa significa, davvero, “espressione del territorio”? Cosa significa restituire ai cittadini coscienza della dignità del loro dialetto, della storia del loro comune, dell’estraneità di noi tutti alla menzogna savoiarda italiota?
LB: Significa insegnare il dialetto a scuola. Parlarlo. Amarlo. Significa finirla una buona volta con l’idea stessa di una nazione nata dallo sterminio dei contadini meridionali e dalle bombe di Bava Beccaris sui milanesi. Significa restituire tutto alle comunità locali e, quando verrà il tempo, distruggere le nostre città divenute infami.
GF: Grazie di cuore per la tua disponibilità, davvero. Adesso hai carta bianca, chiudi comunicando tutto quello che vuoi: ai futuri lettori, ai vecchi lettori, al tuo editore, a Sante Pollastro; ai tuoi concittadini, e ai lombardi. Vai…
LB: Chiunque è in pace con se stesso non legga “Il diavolo custode” di Luigi Balocchi. L’è mej de no. Al contrario, se ami il salto, lo scoppio, la corsa, l’amore insensato, il nervo, lo scatto, l’assalto, allora, vai in libreria, leggilo, amalo, dallo alle fiamme. Hai visto, Sante, che ce l’ho fatta a scrivere di te? Che è come scrivere un po’ di tutti noi, non sedati, non asserviti. Per il resto, io, il Luigi Balocchi, son qui. Se te me voeur scriv, se mi vuoi scrivere, mi te rispondi, ti rispondo eccome. Se vuoi che vengo a parlare del libro o se vuoi sentire recitare in dialetto, mi son chì. Perché mì sont el Luis Balocch. Di quell’antica gente de Biagrass. Ve ringrazi tucc. Luigi.balocchi@tele2.it
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Luigi Balocchi (Mortara, Pavia 1961), giornalista e scrittore italiano. Ha fondato il gruppo di ricerca linguistica “La Brasca”. Organizza letture del repertorio vernacolare lombardo.
Luigi Balocchi, “Il diavolo custode”, Meridiano Zero, Padova, 2007.
Gianfranco Franchi, settembre 2007
Prima pubblicazione: Lankelot.