Feltrinelli
1969
9788804314059
“Per M. l'inattività di quelle ore libere era solo angoscia e anche dolore. Infatti per lui, uomo e non macchina, quelle due ore erano anch'esse il frutto di una convenzione, la convenzione della libertà, del tempo libero da occupare a piacimento. Senonché era proprio questa libertà, che lo angosciava. Egli non si rendeva ben conto del perché provava quei sentimenti, era però cosciente di provarli mentre le macchine d'ufficio non li provavano affatto. Eppure, riflettendo, non trovava alcuna differenza reale tra sé e quelle macchine, la loro vita era pressoché uguale: stessi orari, stesse pause, stesso riposo. Unica differenza, tra tanti orari e abitudini uguali, l'abitudine alla libertà, che gli era concessa quale diversità materiale tra lui e le macchine, e che lo angosciava. Perché la libertà, o per meglio dire quelle due ore libere, lo obbligavano a creare egli stesso, per se medesimo, come fosse stato un presidente d'azienda, delle disposizioni, delle necessità che non sentiva affatto”. [Parise, “Il crematorio di Vienna”, 11].
1969. Parise pubblica, per Feltrinelli, “Il crematorio di Vienna”: una raccolta di racconti, sketch e frammenti che va a costituire un perfetto anello di congiunzione tra la sua opera precedente, “Il padrone” (1965), e quella successiva, “I sillabari” (1972-1982). Parlo di perfetto anello di congiunzione perché, se dal “Padrone” prende l'argomento principe – ovvero la narrazione del mondo del lavoro nell'Italia del boom, la demistificazione della pretesa centralità del lavoro, la narrazione dell'alienazione – dei “Sillabari” anticipa il respiro corto, i talentuosi incipit, la capacità di parlare chiaro, rivolgendosi a tutti.
La vecchia quarta di copertina Feltrinelli racconta che “Il crematorio di Vienna”, ambientato nel presente “dell'espansione mondiale delle tecniche di strumentalizzazione meccanico-ideologiche dell'uomo”, è una “suite di variazioni sullo stesso tema, che domina il pensiero dell'autore: la chirurgica e demonica violenza intellettuale dell'uomo sull'uomo, cremazione morale della sua essenza, sostituto ovvero transfert contemporaneo dell'eliminazione del più debole, dell'inadatto o inadattabile alle morali”.
Parise ci accompagna nella psiche dei personaggi di questi trentatre diversi microcosmi: sono personaggi anonimi, al limite marchiati da una sola lettera iniziale, proprio per agevolare il riconoscimento dei lettori nel loro stile di vita, nella loro incredibile solitudine, nella loro visione del mondo, delle dinamiche professionali, dell'etica lavorativa. L'artista vicentino sprofonda nella descrizione delle diverse forme di alienazione, di estraniamento dalla realtà, di condizionamento: e intanto restituisce squarci della vecchia vita da ufficio, nell'Italia dei suoi giorni, che raccontano molto della cultura politica dell'epoca, e della scarsa fantasia e nulla volontà di molti nostri compatrioti. Borghesi o meno che fossero.
Per esempio, nell'incipit del frammento 4, riconosciamo facilmente il classico ambiente di lavoro asettico, ripetitivo e anonimo di tanti, oggi sempre più rari, lavori impiegatizi: “A. non era tranquillo. Perché? Nessuno l'aveva mai redarguito né minacciato, e in azienda, dove passava molta parte della sua giornata, vivevano esseri molto simili a lui. Salvo qualche lievissima differenza individuale, che peraltro tutti concordavano nel giudicare in via di estinzione, nell'ambiente in cui A. lavorava, si nutriva e prosperava non esisteva alcun pericolo”. E tuttavia vengono fuori robusti stati paranoidi. Stravagante.
Il narratore della storia numero 17 si presenta così. “Ho quarant'anni, una professione, una casa di quattro stanze, una moglie, un figlio e, da qualche tempo, una sensazione che mi accompagna dal momento in cui mi sveglio fino al momento in cui torno a letto e mi addormento. Questa sensazione è una sensazione di immobilità, di staticità, di immutabilità, in poche parole di morte”. E quella sensazione, per lui, è parte della sua vita esattamente come la sua casa, sua moglie, suo figlio. A lui non piace più niente. Sente tutto estraneo, non prova più sentimenti per niente, non trova più significato nelle cose. Sogna una vita diversa ma non riesce nemmeno a immaginare qualcosa di veramente diverso da ciò che ha già avuto. Ha soltanto capito qualcosa di sinistro: oggetti, cose e persone tendono a confondersi.
Nella storia numero 11 c'è una donna che col marito che sembra in crisi preferisce parlare molto chiaro. “Chissà cosa vai cercando. Hai un lavoro interessante, guadagni molto bene, hai una bella casa, bei mobili, abitiamo in una grande città piena di cose interessanti, hai un bel bambino e hai me che ti amo. Cosa vorresti avere di più? Forse sei stanco di lavorare? Ma se quando hai le ferie ti stufi a morte! E anche al sabato e alla domenica non sai mai cosa fare, cosa proporre...”. Lui forse s'è esaurito, e non è la prima volta. Il guasto è che ha capito che tutto quel che fa lo fa per abitudine. Ma lei sa che quella parola non nasconde niente di grave. O almeno: la si può rovesciare in senso molto positivo. D'altra parte, “tutta la vita è un'abitudine. Cos'altro dovrebbe essere? Cos'altro si dovrebbe fare di diverso?”.
A parlarci nel frammento 8 è un piccolo borghese vecchio stampo, uno di quelli che avevano pochi punti di riferimento ma molto semplici e chiari: “Sono impiegato e nella mia vita non c'è posto che per il lavoro. Ho anche una famiglia, composta di moglie, un maschio di cinque anni e una femmina di tre, ma la famiglia, pure con tutta la sua importanza sociale e sentimentale, non è che una convenzione rispetto al lavoro. Il lavoro invece va molto al di là delle convenzioni tanto da essere la cosa più importante, il vero e unico fine della mia vita”. E questo, pare di capire, al di là dell'ormai acquisito benessere economico. Benessere economico che diventa, paradossalmente, qualcosa di subordinato al meccanismo principe di annullamento di sé: il lavoro. Per questo personaggio, lavorare è qualcosa di “naturale” proprio come mangiare e dormire: in altre parole, crede che la sua mente, il suo corpo e la sua volontà siano stati creati per il lavoro che svolge in azienda, e stop. E finisce per convincersi che chi va a cambiare certi equilibri “naturali” è qualcuno che va punito, inevitabilmente.
Ancora: nella storia numero 10 ci parla un provinciale che vive da anni in una grande città – per questioni di lavoro, si intende. Ha pochi amici, perché “quando si lavora e si è formata una famiglia non resta molto tempo da dedicare ad altre cose, per esempio l'amicizia”. E quei pochi amici che ha sono tutti colleghi di ufficio, ciascuno con le sue famiglie e molto poco tempo a disposizione. Ecco il dramma: “Ognuno di noi fa una vita molto simile, gli orari sono pressappoco gli stessi, forse, tutto sommato, ognuno fa le medesime cose, forse pronuncia le stesse parole”. È una possibilità. E scrivendo questo libro Parise ha dimostrato quanto fosse comune e facile prevedere quali fossero, e trascriverle, addirittura, queste parole. Atrocemente comune e facile.
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Non dobbiamo sentirci superiori alla generazione vittima del culto del lavoro, e dello spegnimento della personalità di ogni individuo nel lavoro. Non siamo stati in grado di immaginare un diverso modello di vita, né, sin qua, di incarnarlo. Non siamo stati in grado di plasmare la realtà a immagine e somiglianza d'una diversa idea di società. Forse ci stiamo liberando dai diktat del consumismo, addestrando le nuove generazioni a non cedere facilmente (istantaneamente) all'impulso dell'acquisto di ciò che non è necessario o almeno non è funzionale, ma questo sta succedendo più per le mutate condizioni economiche che per una consapevole maturazione sociale e collettiva.
Non abbiamo restituito alla spiritualità e alla cultura la centralità che devono e dovrebbero avere. Restiamo dipendenti dagli oggetti e dalle cose proprio come gli italiani rappresentati come burattini in queste satire molto realistiche del gran Parise. Non siamo superiori a chi poteva spegnersi nel lavoro, complici contratti facili a tempo indeterminato e pretese nulle d'una vita diversa da quella che si poteva vivere nell'Italia industriale. Non siamo così distanti dalla sofferenza profonda, dalla stupidità, dalla grettezza e dalla ripetitività scolpite e dissacrate da Parise. Diritti civili e conquiste sociali non hanno mutato la nostra paura della solitudine, della noia, dell'isolamento, dell'alterità.
Bel libro. Minore, ma potente.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Goffredo Parise (Vicenza, 1929 – Treviso, 1986), scrittore, sceneggiatore e giornalista italiano.
Goffredo Parise, “Il crematorio di Vienna”, Feltrinelli, Milano 1969. Collana “I Narratori di Feltrinelli”, 163. Ultima edizione: Rizzoli, 2000.
Approfondimento in rete: WIKI it /Casa di Cultura Goffredo Parise
Gianfranco Franchi, marzo 2011.
Prima pubblicazione: Lankelot.
1969. Parise pubblica, per Feltrinelli, “Il crematorio di Vienna”: una raccolta di racconti, sketch e frammenti che va a costituire un perfetto anello di congiunzione tra la sua opera precedente, “Il padrone” (1965), e quella successiva, “I sillabari” (1972-1982)…