Sellerio
2002
9788838917844
Quante volte ci siamo disperati pensando a tutta la conoscenza andata perduta, nel corso dei millenni; a quante opere letterarie e filosofiche avremmo potuto tramandare e studiare, salvando l'eccezionale sapienza degli antichi. Quante volte abbiamo favoleggiato della Biblioteca di Alessandria, e di tutto il sapere che essa conteneva, maledicendo la malvagità dell'uomo, e del fuoco, che di quei libri s'è nutrita. Quante volte ci siamo domandati quanto siano autentici i libri antichi e medievali che sono sopravvissuti sino al nostro tempo, sognando fossero miracolosamente fedeli alla stesura originale. Quante volte ci siamo chiesti cosa ne è stato delle stesure originarie dei Vangeli. Quante volte abbiamo sognato fosse possibile l'invenzione letteraria di Wells, per poter restituire ai presenti tutta la gloria e la magnificenza delle civiltà perdute, e la verità delle loro parole. Per adesso, possiamo consolarci con Gibbon: “Molti fatti curiosi e interessanti sono sepolti nell'oblio, le opere dei tre grandi storici di Roma non ci pervennero che mutilate e manchiamo d'una quantità di bei passi della poesia lirica, giambica e drammatica dei Greci. Dovremmo tuttavia rallegrarci, ricordando che le ingiurie del tempo e degli uomini abbiano risparmiato le opere dei classici, ai quali dal suffragio dell'antichità fu decretato il primo posto del genio e della gloria. I maestri del sapere antico (Aristotele, Galeno, Plinio il Vecchio), le cui opere ci sono pervenute, avevano letto e confrontato le opere dei loro predecessori; né abbiamo motivo di credere ragionevolmente che qualche verità importante, o qualche utile scoperta nell'arte o nella natura sia stata sottratta alla nostra curiosità” (“Storia”, pp. 2111-2112, citata in Canfora, “Il copista come autore”, p. 86).
E dopo esserci consolati con Gibbon, possiamo meditare, assieme al professor Canfora, docente di Filologia Greca e Latina, a proposito di cosa sia un originale e di quanto fondamentale sia stata l'opera dei copisti. Rivalutandone, magari, l'oscuro e segreto lavoro autoriale. Nel prologo, Canfora si domanda cos'è un originale: partendo dal presupposto che non abbiamo originali degli autori greci e romani, e nemmeno – per dirne una abbastanza impopolare – l'autografo della “Divina Commedia”, bisogna ammettere che larga parte del lavoro del filologo moderno consiste nella ricostituzione di un originale plausibile coi “mezzi disponibili”, non sempre “rassicuranti”. Ricostruire il testo non significa ritornare all'originale, ma andare verso l'originale. Come se non bastasse, nell'antichità era prassi pubblicare almeno due edizioni delle opere: la revisione, proprio per via della scarsa diffusione delle opere, era periodica e costante nel tempo. Ciò implica numerosi problemi di attendibilità delle copie dei libri sin qui pervenute e tramandate, e complessi ragionamenti in termine di collazione delle fonti.
Assieme, c'è un altro nodo tutto da sciogliere: quello del copista, “l'altro” che ha scritto il libro: non solo l'unico vero lettore del testo. A ben guardare, “è il copista il vero artefice dei testi che sono riusciti a sopravvivere” (p. 15). Come insegnava Borges nel “Pierre Menard”, il copista ha due leggi: “La prima mi permette di tentare varianti di tipo formale o psicologico; la seconda m'impone di abolire ogni variante in favore del testo 'originale'” (p. 15). Quest'ultima è quella sacra e santa, e tuttavia – la filologia insegna – meno popolare e diffusa; la storia della tradizione dei testi letterari è fatta di tentativi, pure in buona fede, di miglioramenti e di emendazioni non sempre sensati. È bene non dimenticarsene.
La questione della traduzione è ben diversa ma non meno pericolosa: “Il traduttore, anche traducendo parola per parola – soprattutto quando non ha capito – interpreta, e di conseguenza modifica, il suo modello. Egli, inoltre, commette ulteriori errori sulla base dell'erronea interpretazione” (p. 46). Questa è una lezione d'umiltà che pure dovrebbe essere ben presente ai nostri traduttori contemporanei; restituire un testo nella sua interezza, in traduzione, dimenticando di sé stessi e della propria estetica (della propria sensibilità, e della propria esperienza, in generale) è un'impresa impossibile, e irrazionale.
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Secondo Canfora esistono due filologie diverse: quella che tratta manoscritti nati nella stessa “civiltà” (“realtà”) dell'autore, e quella che tratta manoscritti tramandati da 1500 o 2000 anni. È chiaro e ragionevole che chi si trova a lavorare opere prodotte nel corso del suo tempo, e della sua civiltà, incontra minori problemi di comprensione e di interiorizzazione del testo; è altrettanto pacifico che chi si ritrova a osservare il passato da una distanza così grande non può, magari inconsciamente, che ritrovarsi spesso a divinare e fantasticare, pur di restituire linearità e compiutezza a un testo.
Cosa significa dunque “originale”, o peggio “autore”, quando ci si rapporta a un'opera lontana secoli o millenni dal nostro tempo? Significa, onestamente, servirsi di categorie romantiche per mantenere intatto un fascino ferito dal passare delle generazioni, e dal mutare delle tecnologie di produzione, diffusione e distribuzione dell'opera. Spingiamoci nella contemporaneità, adesso, scavalcando Canfora. Cosa significa “originale” di un testo, nel momento in cui un romanzo incontra, ben prima dalla sua stampa, correzioni, tagli, integrazioni e ampliamenti per mano dei primi lettori dell'autore, per mano dei redattori e degli impaginatori in casa editrice, per mano – magari – di un editor? La sensazione è che “originale” sia la spesso irreperibile prima stesura dell'opera, giudicata completa e definitiva dall'artista e consegnata, ufficialmente per la stampa ma ufficiosamente per la revisione redazionale, in casa editrice. Ogni alterazione del testo, per quanto minore e marginale, quando non sia riparazione d'un refuso o d'un errore magari storico, è una innovazione che altera l'essenza dell'opera. Per questo – ma ne riparleremo più avanti, nel tempo – io credo che le prossime storie letterarie debbano necessariamente includere, per quanto possibile, le storie delle principali case editrici, delle loro collane e dei loro editor. Molto spesso si va configurando, a ben guardare, l'esistenza di (almeno!) un autore ombra alle spalle dell'autore ufficiale, conosciuto magari esclusivamente dagli addetti ai lavori e riconosciuto da loro e da una minoranza assoluta di lettori forti per le diverse scelte estetiche, strutturali, tematiche. Non è una innovazione marginale. I filologi del 2500 dovranno affrontare nodi ben più complessi, se vorranno mantenere in vita la sacralità dell'autore, e dell'opera “originale”. Buona fortuna.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Luciano Canfora (1942), insegna Filologia Greca e Latina.
Luciano Canfora, “Il copista come autore”, Sellerio, Palermo 2002.
Gianfranco Franchi, febbraio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.