Meridiano Zero
2008
9788882371807
Trent’anni di eclettica carriera: da poeta e musicista, da decostruttore di ideologie a campione di satira del benessere occidentale, sempre nel sogno di creare una antieroica letteratura del rock in Italia: “soffiando vita”, come scrive Strukul, su formule apparentemente estranee alla lingua italiana.
Antesignano non solo nel rock italiano (aprì un “celtic pub” nel 1986, a Verona: e l’Irlanda cantò prima delle mode dei tardi Novanta e oltre, ne “Il cielo d’Irlanda”, poi portata al successo dalla Mannoia), coraggioso incursore letterario nella musica, nel 2008 Bubola vanta diciannove album (live e compilation inclusi), un felice sodalizio con Fabrizio De Andrè (album “Rimini” e “L’indiano”, pezzi come “Don Raffaè”) e suo figlio Cristiano, un successo meno nazionalpopolare di quanto si potrebbe credere. I numeri non sempre s’accompagnano ai giusti riconoscimenti. È allora il momento di “un viaggio romantico”, per dirla con le parole dell’autore del libro, nella musica dello scaligero Massimo Bubola, cantautore capace di amalgamare la tradizione popolare italiana e il rock. Matteo Strukul ripercorre tutta la sua carriera in questo libro-intervista pubblicato, a sorpresa (ma non troppo, considerando il recente “I hate music” di Marco Duka Anastasi) da Meridiano Zero, come uscita fuori collana.
Il giornalista padovano evidenzia con chiarezza come la produzione dell’artista vada letta non per pubblicazioni isolate, ma quasi fosse un canzoniere: “I suoi album sembrano continuare l’uno nell’altro, non ci sono cesure nette insomma, si assiste piuttosto a una sorta di ideale enjambement per cui il significato di un disco si dilata e si allunga nel successivo” (p. 125). Si parte dai primi incontri con musica e letteratura, si parte dall’infanzia: dalla biblioteca paterna (Mallarmé, Rilke, Pascoli) e da quella scolastica, accennando alla scena musicale veronese d’antan (che al tempo pareva preferire Deep Purple e Led Zeppelin a Stones e Dylan) e a tutta la formazione rock di Bubola (Rolling Stones in primis: più per le lyrics che per il sound). Bubola ha la gentilezza di ricordare il primo maestro di poesia: il professor Scapini, al Liceo: cultore di Montale e Quasimodo. Preme segnalarlo, in tempi di decadenza delle istituzioni scolastiche – e del giusto riconoscimento delle fatiche dei docenti.
Non manca la storia dei provini (completa di retroscena sulla prassi del periodo), romantica rispetto ai paradigmi odierni. E poi avanti con gli album, da “Nastro giallo” in avanti: lyrics debitrici, sin d’allora, della grande poesia occidentale (Verlaine, Mallarmé, Rimbaud), sound ancora acerbo e pop (è il 1976). Si passa per le collaborazioni con Venditti (1979) e Milva (tardi Ottanta) e per l’amicizia con Rino Gaetano e Ivan Graziani, lasciando ovviamente ampio spazio ad un intenso ricordo della collaborazione con De André, sin dai primordi (e dai messianici insegnamenti sulla rete dei pescatori, e sulla poesia: cfr. p. 28).
Micidiale la serie delle reminiscenze pop: da Leonard Cohen (per “Ballad of the Absent Mare”,e per “Suzanne”: in questo caso la replica si nasconde in “Rimini”) a Bob Dylan, da Bruce Springsteen a Tom Petty, da Cat Stevens a Neil Young ai Lynyrd Skynyrd, dai Waterboys ai Pogues.
Quanto a quelle letterarie, si spazia da Ezra Pound a Dylan Thomas, da Ungaretti a TS Eliot, da Cavalcanti ad Amado, da Maupassant a Keats, dal Conegliano (“Da Ponte” post conversione) a Shakespeare, da Omero a Dostoevskij sino a Primo Levi, omaggiati direttamente o considerati (rivendicati) volta per volta fonti di ispirazione. Dino Campana e Tina Modotti hanno ricevuto omaggi diretti.
Ora. Vorrei poter trasformare questa segnalazione in una recensione: per questo, dovrei conoscere a menadito la produzione dell’artista. Mi spiace, ma sono tra i pochi infelici ascoltatori che ancora non hanno comprato nemmeno un album di Bubola. Mea culpa: mea culpa, mi dispiace. Posso e devo riconoscere, in ogni caso, che leggendo il libro mi sono incuriosito e appassionato. Ho avuto voglia di andare ad ascoltare le sue canzoni e sono rimasto stupefatto dalla quantità e dalla qualità delle reminiscenze e delle citazioni letterarie, e dalla ricostruzione dei retroscena di ogni singolo pezzo. Rimedierò. In questo senso, all’autore confermo: missione compiuta. Non ho idea di come reagiranno i vecchi fan, immagino con entusiasmo e gioia. La loro risposta sarà naturalmente essenziale. Io ho letto da (relativo) estraneo: senza ostilità e senza pregiudizi positivi. E non mi sono mai annoiato: apprezzando gli intervalli (intendo: i versi di Bubola) e le ricche appendici; nonché la cura della discografia. E – diciamolo – la letterarietà.
Ho solo un’osservazione da destinare a Strukul. Non ha a che fare con Bubola. È una nota. “Dubrovnik” (p. 210) è il nome dato a una città dagli attuali occupanti. La città si chiama Ragusa. Il nome è antico. *Ragusium. È dalmata, non croata. “Croato” e “dalmata” non sono esattamente sinonimi. I contadini croati sbarcarono in città dopo un terremoto disastroso, nel Settecento. Erano minoranza relativa, sino a quel momento. Popoli delle campagne. Dopo le cose sono cambiate. A Ragusa è nato Franco Sacchetti. Quando è nato Missoni, sei secoli dopo, eravamo minoranza. Ma niente giustifica il cambio del nome. È una menzogna. Politica. Ragusa era una repubblica marinara. La quinta repubblica marinara. Non si chiamava Dubrovnik. Dubrovnik significa, mi pare, “querceto”.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Matteo Strukul (Padova, 1973), giornalista italiano. Questo è il suo primo libro.
Matteo Strukul, “Il cavaliere elettrico. Viaggio romantico nella musica di Massimo Bubola”, Meridiano Zero, Padova 2008. Fuori collana. Prefazione di Massimo Cotto, Postfazione di Antonio Stefani. In appendice, discografia (completa di canzoni scritte per altri interpreti, produzioni e canzoni tradotte) e bibliografia.
Gianfranco Franchi, ottobre 2008.
Prima pubblicazione: Lankelot.