Il caratterista basilisco del cinema Scaturchio

Il caratterista basilisco del cinema Scaturchio Book Cover Il caratterista basilisco del cinema Scaturchio
Antonio Petrocelli
Hacca
2010
9788889920428

Il favoloso mondo del cinema non è estraneo alla recessione. Sembra, piuttosto, che tutta una serie di lavoratori stiano soffrendo difficoltà che larga parte della cittadinanza non conosce, non immagina nemmeno e fatica, in ogni caso, a credere possibili. Questo romanzo di Antonio Petrocelli, attore e scrittore italiano classe 1953, alla spalle un esordio letterario con prefatore d'eccezione (Sofri: “Volantini. Ora tocca a me partire”, 2001), serve fondamentalmente a questo: a informare e sensibilizzare la cittadinanza a proposito dello stato e delle condizioni di vita degli attori meno noti, e di tutti i precari (cronici) del mondo dello spettacolo. Se a questo s'aggiunge che l'impostazione è tutta letteraria, la trasfigurazione romanzesca e lo stile piacevole e convincente, a dispetto di qualche comprensibile ingenuità e di qualche ridondanza, allora si deve riconoscere che “Il caratterista basilisco del Cinema Scaturchio” (Hacca, 2010) è un testo che serve ai lettori e ai letterati contemporanei sia per capire come vanno le cose nel mondo del cinema italiano, sia per apprezzare l'onestà, la discreta qualità e la buona tenuta della narrativa dell'outsider lucano Petrocelli.

Sostiene Andrea Di Consoli che “Il romanzo di Antonio Petrocelli è la voce limpida e consapevole di un uomo del sottosuolo, è la spietata e divertente radiografia delle miserie, delle cattiverie, dei rancori, delle frustrazioni di un attore che, per troppe ingenuità e per troppi ideali, rimane ai margini dello star-system”. E aggiunge: “Il caratterista basilisco del Cinema Scaturchio è un inno al cinema e al teatro, ma anche un anatema contro la crisi del lavoro in Italia e contro le troppe meschinità della vita. È un romanzo sul disincanto dei primi venti autunnali. E sul disamore crescente. È, insomma, la storia di Jonio Castellucci, un personaggio indimenticabile dei bassifondi di Cinecittà”.

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Jonio Castellucci è un buon padre di famiglia. Ha perso il dialogo che un tempo aveva con i suoi due figli, in parte perché sono cresciuti, in parte perché ha la testa altrove. E ha smarrito un po' della magia dell'amore con sua moglie, in parte perché è passato del tempo, e in parte perché ha la testa altrove. Dov'è la testa di Jonio? Che fine ha fatto il buon papà e il buon marito? È diventato, da uomo convinto dei suoi talenti e delle sue capacità, felice di vivere al fianco dei suoi, un disoccupato che soffre disperatamente per l'eccessivo tempo libero, per quel telefono che non squilla proprio mai, e che quando squilla non porta buone notizie, un artista in ciclopica crisi esistenziale.

Jonio era ed è un attore. Un attore che ha avuto una buona carriera restando, tuttavia, semplicemente – si fa per dire – un gran caratterista. Col passare del tempo, complice il carattere, complice forse la lontananza da Roma, dove tutto succede (soprattutto ad Haber e Fantastichini), complice la recessione economica che ha tagliato sempre più i fondi al nostro cinema, Jonio ha praticamente smesso di lavorare. Eppure non sembrano soltanto i debiti ad angosciarlo; sua moglie lavora, i figli sono già adolescenti, la casa è di proprietà. L'angoscia è aver perduto senso, aver perduto ruolo – in tutti i sensi – e non sentirsi abbastanza vecchi da tirare i remi in barca e alè. L'aspetto paradossale è che Jonio è comunque un volto così noto ai cittadini che nessuno può immaginare che un artista del genere guadagni meno di un imbianchino, meno di un docente liceale, meno di un elettricista...

“Tecnicamente sono un lavoratore dello spettacolo. Un attore. Un caratterista. Un saltimbanco. Trangugio immagini. Mi nutro di emozioni. Pretendo di darle. A volte, ci riesco. Altre, è impossibile. Sono un semplice caratterista. Quello che deve fare il lavoro sporco. Quello a cui, se della storia non si capisce un granché, gli sceneggiatori assegnano il compito di spiegare al pubblico cosa sta succedendo. Se ci sono i dodici apostoli da interpretare, a me tocca Giuda; dei due ladroni, io devo prestare la faccia al più sfigato. Sono al servizio del protagonista, il viziato di turno” (pp. 15-16).

Il caratterista, insomma, si danna l'anima, fatica, si sacrifica, infine lascia il posto sul più bello al protagonista. Gli spettatori, scrive Petrocelli, si ricordano solo dilui: del caratterista non gliene frega più niente a nessuno. I colleghi, soprattutto quelli che fanno carriera, non lesinano ironie, pretendono devozione e rispetto. Solidarietà, stando a quanto ci racconta il povero Jonio, non esiste; non c'è nessun cameratismo e nessuna almeno vaga intenzione di rivendicare concretamente, credibilmente e opportunamente i diritti della categoria a livello sindacale. Piuttosto, c'è una gara di opportunismi e ipocrisie mascherata da sindacato attori (p. 138)

Jonio è un attore che fa una vita agra. A differenza dell'archetipo letterario ed editoriale bianciardiano, questo prototipo cinematografaro ciondola in casa tutto il giorno, pur di sentirsi utile fa migliaia di piccole cose, è massacrato dal senso di colpa per la sua improvvisa inutilità sociale classica dei disoccupati, è ossessionato dal pensiero che tutto ciò che fa invece di recitare sia tempo perso, irrimediabilmente: “Per uno che non lavora, un giorno può essere un'eternità. È meglio interrompere lo stress, creandosi tappe intermedie. Sospenderlo è psicologicamente vantaggioso. Illudersi: indispensabile, soprattutto quando si è depressi. E Jonio si sente molto depresso. Peggiora...” (p. 46).

Il suo agente, il vecchio Alberto, è morto proprio quando sembrava che la sua carriera potesse prendere una direzione differente. Assieme all'agente, è morta la speranza (p. 27). Jonio, per non impazzire, parla col suo santo protettore. San Marcello. Mastroianni. Sulla parete, è la sua immagine che ha preso il posto dei suoi eroi di gioventù, Mao, Ania Francos, Martin Luther King, Che Guevara, Pertini e Berlinguer. Jonio e Marcello parlano molto a lungo del mestiere dell'attore e di cosa realmente significhi consacrarsi al cinema o affrontare tutti i ruoli con umiltà e un pizzico di paura.

Rimane che Jonio è uno folgorato dall'arte, che pur di fare cinema ha accettato di essere qualunque cosa, ha interpretato “personaggi che vivevano in una cabina telefonica, senza fiato, che ha sempre detestato e che tuttavia ha lasciato vivere, dandogli, quando era possibile, barlumi di umanità. Tutto, pur di servire la settima arte” (p. 41).

Insomma, attore. “Si fa presto a dire attore. Alcuni pensano che sia sinonimo di soldi, ricchezza, divertimento. Non sanno quanto sia duro alzarsi la mattina, a Roma, sotto un cielo che non gli appartiene, non sapere che fare, e non avere neanche le piccole occupazioni domestiche per distrarsi. Guardare il telefono, sperando che qualcuno ti chiami. Perdersi nei grandi magazzini, tra montagne di corsetteria. Confondersi tra gli stracci. Essere straccio” (p. 55).

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Insomma, solidarietà al buon Jonio, bambino che scoprì la magia del cinema in una sala dal nome grottesco, Scaturchio, e si innamorò di tutti i dettagli che rendevano unica l'esperienza d'un film; solidarietà al buon Jonio, che ha consacrato tutta la sua vita al cinema e ha saputo rifiutare con dignità e compostezza ruoli fuori posto, o squalificanti, preferendo aspettare incarichi adeguati. Solidarietà per i suoi problemi sentimentali e famigliari, per i suoi sensi di colpa per qualche amorazzo clandestino, per le sue romane giovanili esperienze in città, capace di adattarsi a tutto, ospite di tanti amici, pur di tenere vivo il sogno. E solidarietà ai tanti come lui che si schienano pur di non rinnegare sé stessi.

Stupisce, certo, che in una manciata di settimane siano uscite due vite agre, entrambe extraletterarie. Una è quella del lavoratore televisivo scritta da Mauro Garofalo, l'altra è questa dell'attore di cinema e tv firmata Petrocelli. Non credo serva essere luminari della sociologia per prendere atto che stanno suonando tutta una serie di allarmi rossi, in questo Stato. Una volta, a disperarsi per scarsi guadagni, sacrifici assurdi, insensatezza della propria vita erano scrittori e professionisti dell'editoria. Adesso sembra proprio che tocchi a tutti i professionisti della comunicazione (pubblicitari in primis, a partire almeno dalla denuncia di Beigbeder, “Lire 26.900”) e dello spettacolo respirare e condividere la nostra stessa, polverosa, stucchevole e disorientante aria. Fratelli, che dire: siate spartani, siate semplici, siate come chierici dei vecchi monasteri. L'Italia è malata, e non è sul punto di guarire. Disperiamoci, insomma, ma con dignità. Raccontiamoci, sempre, ma col giusto orgoglio. Esistiamo, infine. Questa è la massima provocazione.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Antonio Petrocelli (Montalbano Jonico, Matera, 1953), attore e scrittore italiano. Ha esordito con “Volantini. Ora tocca a me partire” (2001).

Antonio Petrocelli, “Il caratterista basilisco del cinema Scaturchio”, Hacca, Matelica 2010. Copertina di Ceccato, bandella di Di Consoli.

Gianfranco Franchi, giugno 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.