Adelphi
1985
9788845906114
Si dice che l’amicizia tra James Joyce e James Stephens si fondasse su un’incredibile coincidenza: erano nati alla stessa ora, dello stesso giorno, dello stesso anno, nella stessa città, Dublino. Wikipedia smentisce, ma sta di fatto che Joyce era convinto – leggo nel risvoltino dell’edizione Adelphi – di formare assieme a Stephens una coppia di gemelli astrali; al punto che, disperando di poter mai terminare il suo “Finnegans Wake”, giurava che solo Stephens avrebbe potuto terminarlo. Qui in Italia conosciamo, inevitabilmente, più il triestino Joyce che l’irlandese purosangue Stephens. E sembra proprio che ci si sia dimenticati – se non fosse per Adelphi – della produzione narrativa e lirica di Stephens, autore del brillante “La pentola dell’oro” che abbiamo la fortuna di poter apprezzare in traduzione. In questo frangente vi propongo tuttavia la lettura di una sua opera minore – l’atipica e affascinante “I semidei”.
Premetto: destinerei la lettura a quanti amano la cultura e la letteratura irlandese, in primis; in seconda battuta a quanti vanno cercando epifanie angeliche nelle scritture occidentali; in terza e ultima sede a quanti sognano di leggere un racconto sulla vita di chi è costretto a (o ha scelto di) campare alla giornata finalmente estraneo ai veleni ideologici di matrice verista o realista: qui c’è la magia, la poesia e l’incanto di chi ama sinceramente il popolo ma non vuole armarlo di falce e martello. È la scrittura di un patriota irlandese. Direi che ho ristretto adeguatamente il campo; do per scontato che chi ama Joyce non possa essere incuriosito dall’esistenza e dalla scrittura del suo gemello astrale…
Due popolani, Patsy Mac Cann e sua figlia Mary, poverissimi, ricevono sulla loro deserta collina la visita di tre angeli. Patsy e Mary sono irlandesi, quindi cattolici: atipici, hanno scelto di vivere al di là delle leggi, di lavori occasionali e di vagabondaggi, avanzando col loro carretto e le loro poche provviste per la splendida isola. Quanto ai tre angeli… eccoli, è notte: “(…) erano davvero superbi nelle loro seriche vesti scarlatte e di porpora e d’oro; avevano sul capo alte, elaborate corone di insolita fattura, e le loro ali, che avevano ciascuna un’apertura di tre metri, erano variopinte e scintillanti” (p. 18); e tuttavia sono – per così dire – umanissimi e in un certo senso indifesi; devono apprendere abitudini e costumi che non conoscono, soffrono la fame e provano sentimenti. Stephens racconta e insegna: “Gli angeli si chiamavano Finaun, Caeltia e Art. Finaun era l’angelo più anziano, Caeltia era quello che aveva la barbetta nera come il carbone e Art era il più giovane dei tre, ed era bello come l’aurora, che è la cosa più bella che ci sia. Nel luogo dove abitavano Finaun era un Arcangelo, Caeltia un Serafino e Art un Cherubino. Un Arcangelo è un Consigliere e un Custode; un Serafino è un angelo che accumula sapienza; un Cherubino è un angelo che accumula amore. In cielo erano questi i loro titoli” (p. 64).
Patsy e sua figlia non possiedono nulla: non hanno pregiudizi, non hanno ambizioni, non hanno angosce e non hanno ansie. Desideri sì, ma sono quelli d’ogni anima; nutrirsi, amare. La visione di Stephens è sinceramente anarchica; magnifica queste esistenze al di là del bene e del male, caratterizzate da un’etica basica e incrollabile, estranee alla legge e tuttavia intrise di giustizia. E accompagna – nell’arco delle circa duecento pagine, strutturate in quattro parti – questi wanderer irlandesi facendoci ascoltare i loro racconti (e assieme: la voce e le confidenze d’un somaro) e intrecciando due vicende sentimentali; quella di Patsy con la riottosa e orgogliosa Eileen e quella di Mary con Art, il Cherubino. Apoteosi finale per il vero amore; il canto s’interrompe quando s’è ripristinato, come nella commedia antica, un equilibrio (inatteso, e) nuovo.
Stephens ha una scrittura capace di improvvisi personalismi; sospende la narrazione per moraleggiare, in qualche frangente, o quantomeno per dichiarare la sua visione del mondo; si tratta senza ombra di dubbio dei momenti migliori del libro, di intervalli musicati, in un certo senso, destinati a essere interiorizzati facilmente dal lettore divertito e incuriosito dagli sviluppi della grottesca trama. Sembra ammettere il furto quando è minimo e innocente e destinato semplicemente a sostentare i poveri; bastona con franchezza la proprietà – che fonda la nostra società – e ogni forma di possesso; ridicolizza il rapporto tra servo e padrone, mostrando quanto sia facile e inevitabile avallare atteggiamenti e pretese assurde; rovescia le sorti degli avidi e degli ambiziosi, mostrando loro la tirannia del possesso.
Il lettore abituato alle vicende irlandesi noterà una minor circolazione di alcolici rispetto al solito; non mancano tuttavia vari lamenti per la birra o per il whisky che non c’è, e che quando appare viene subito spazzolato via. Quanti invece sono soliti ritrovare segni dell’esistenza del Piccolo Popolo, e di tutti gli incanti e le magie dell’isola dove domina il gaelico e si nascondono porte che conducono in altre dimensioni, troverà non pochi passi apprezzabili: la scrittura di Stephens è fluida e nuotarci non sarà difficile né sgradevole, nemmeno quando ci si sarà accorti che – onestamente – siamo al livello del raffinato divertissement, e lontana miglia guarda altrove l’eternità.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
James Stephens (Dublin, 1882 – Eversleigh, 1950), patriota, poeta e romanziere irlandese. Esordì pubblicando la raccolta di poesie “Insurrections” nel 1909.
James Stephens, “I semidei”, Adelphi, Milano, 1985. Traduzione di Anna Ravano.
Prima edizione: “The Demi-Gods”, London e New York, 1914.
Approfondimento in rete: Wikipedia
Gianfranco Franchi, aprile 2007.
Prima pubblicazione: Lankelot.