Mondadori
2016
9788804668336
Frammentata, lacerata, spezzata: infine distesa, e ripiegata. La narrativa di Ernest Hemingway è la narrativa dei singhiozzi selvatici: singhiozza, e s’arresta; e le parole sono cesellate e levigate, tanto che si ha l’impressione che non vi sia nulla di superfluo, nulla di pleonastico, mai. Ed è narrativa selvatica: perché d’argomento crudo, e orfana di accademismi e di leziosità, sintetica e aggressiva come una corrispondenza battuta dal fronte durante un intervallo in trincea, e disperata e amara perché sa evocare il silenzio e rimediare alla violenza dello scorrere della vita; è irrimediabile e immediata, è voce e lamento d’uomo- e mai pianto, e mai depressione.
I dialoghi sono registrazioni leali alla realtà: i personaggi vengono spesso disegnati e descritti dalle censure e dalle cesure che si auto-impongono nel loro linguaggio; comunicano inquietudine e desolazione nelle ripetizioni lessicali, e ancora torpore e alienazione nelle contraddizioni e nelle ossessioni, e infine purezza, e innocenza, nello sgorgare d’una voce che sembra fiorire al mondo, consapevole, per la prima volta; ed è voce d’anziano sul volto di un giovane, perché spesso è voce del tempo della guerra. Tempo che per generazioni abbiamo giurato- non sarebbe tornato più, non doveva tornare più, perché quell’orrore non si poteva ripetere. E sta tornando, perché non c’è più equilibrio, daccapo, e l’avidità e la sete di potere hanno accecato una classe politica. Allora andiamo a sfogliare le pagine di Hemingway, in questa memorabile edizione dei suoi “Quarantanove racconti”, per riconoscere prima le trasfigurazioni e le traduzioni simboliche dell’aggressività e della violenza degli uomini, nelle storie dei pugili (Baricco non può non ammettere che ampie sezioni di “City” derivino proprio da “Cinquanta bigliettoni”, ad esempio, pur travestite dall’ormai consueto stream of consciousness, quanto artefatto!) e dei torero; infine, per ascoltare il racconto della miseria e della sofferenza che si viveva al fronte, e del sangue che si era ormai abituati a vedere scorrere, e della povertà e delle nefandezze che quotidianamente segnavano la vita dei popoli.
Hemingway non vuole accattivare il lettore. Hemingway racconta. Hemingway non vuole essere seducente. Hemingway è una voce. Hemingway non vuole meravigliare. Hemingway descrive. A cosa serve evocare e alludere quando si può pronunciare quel che è accaduto con la serenità e la limpidezza di narrazione di uno storico? Hemingway è la registrazione fedele di un tempo, e il portavoce di una generazione che partiva, consapevole di poter non tornare mai più. A combattere guerre in terre straniere, e ad impadronirsi di quelle terre; e ad innamorarsi del mare di La Spezia, o dei ponti di Firenze, ed ascoltare e interiorizzare lo spirito dei popoli europei, ed ammirarne il coraggio, e non compiangerne, ma memorizzarne il dolore.
Danza il torero assassino di fronte al nemico; la morte è un destino che va esorcizzato; danza il torero e dimentica la sorte, danza e si concentra sull’odio del toro; il rivale più spietato dell’umanità è l’umanità. Puoi arginare la stanchezza abbandonandoti all’abbraccio mortale del nemico; qualcuno osserva dall’alto; sorride, si emoziona. I vigliacchi guardano il sangue: torero e toro sono sangue e non è facile parteggiare per nessuno dei due, perché è vita contro vita e non c’è senso.
Hemingway racconta il rito del sangue e non dimentica di narrare d’un uomo che chiede a un amico di sfidarlo come nella corrida; e quei coltelli che in luogo delle corna lo trapassano e rendono grottesca l’antropomorfa tauromachia sono vanità e silenzio. Perché la morte è forse entrambe le cose. Vanità e silenzio.
Per quanto concerne la datazione dei racconti, nella prefazione Hemingway ricorda che il primo ad esser scritto fu “Su nel Michigan” (Parigi, 1921); l’ultimo, invece, “Vecchio al ponte” (Barcellona, 1938). I primi quattro racconti sono gli ultimi ad essere stati scritti; gli altri rispecchiano la cronologia della pubblicazione. Diciotto anni di ricerca e di sperimentazione letteraria, fedelmente sintetizzati in questa pregevole e singolare raccolta: paradigma felice d’uno stile innovativo e fortunato; tuttavia, oggi dobbiamo ammetterlo, stile appestato da una stucchevole proliferazione di epigoni ed imitatori. L’argomento vario dei racconti è ulteriore pregio; si passa da bozzetti della campagna americana fino a flash dal fronte, e ancora dai ring alle corride, e ancora dalle proiezioni dell’insonnia fino al bancone di un buio bar. Amori perduti e amori proibiti; pesca, e caccia; safari, e tradimenti inattesi, e frammenti delle memorie dell’autore stesso, nascosto dallo pseudonimo di Nick Adams. L’esito forse meno felice è nella creazione delle figure femminili: spesso contraddittorie e a volte “plastiche”, e comunque non vive e magmatiche come le figure maschili. Hemingway sembra all’opposto un finissimo conoscitore di qualsiasi sfumatura della virilità: intendendo in questo universo l’aggressività, la ferocia, la vigliaccheria, l’eroismo e la fragilità di chi eroe non è mai stato e mai potrà esserlo.
Racconti immediatamente fruibili: è possibile una prima furibonda lettura d’impatto, e una successiva, più lenta, per favorire l’acquisizione delle tecniche e riconoscere lo stile – che è un pattern, mai come in questo caso dobbiamo ribadirlo, ed è un pattern colonna del Novecento.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Ernest Miller Hemingway (Oak Park, Illinois, 1899 - Ketchum, Idaho, 1961), giornalista e scrittore americano. Premio Nobel per la letteratura nel 1954. Premio Pulitzer nel 1953. È stato corrispondente di guerra ed autista di ambulanze della Croce Rossa.
Ernest M. Hemingway, “I quarantanove racconti”, Einaudi, Torino, 1999. Prefazione dell’autore. Traduzione di Vincenzo Mantovani. Con un’intervista ad Hemingway sull’arte di scrivere e narrare, a cura di George Plimpton.
Prima edizione: “The First Forty-nine Stories”, 1938.
Gianfranco Franchi, marzo 2003.
Prima pubblicazione: ciao.com. A ruota, Lankelot.