Alet
2006
COME FARSI LEVARE LA DIREZIONE DI UN GIORNALE
Bilenchi era “per il colloquio con i cattolici, per l’unità sindacale, per l’unione delle sinistre, di tutte le sinistre di tutti i partiti”. Non credeva nella dittatura del proletariato: sapeva che avrebbe trascinato alla dittatura della polizia politica. Diresse per nove anni il suo quotidiano improntandosi a questi principi. S’infuriò e abbandonò il PCI – inevitabilmente il giornale, da quel partito ampiamente finanziato, venne chiuso un mese dopo – dopo aver difeso gli insorti di Poznan. Era il 1956.
“Questa è la storia di una ferita. Una ferita che non si è mai rimarginata. Una ferita però che rischia di essere cicatrizzata dal silenzio della memoria. Per questo non poteva finire il 2006 senza ricordare allo scadere del cinquantesimo anniversario la vicenda amara e scomoda della chiusura del ‘Nuovo Corriere’ di Firenze. E insieme quei tragici fatti di Poznan, i sanguinosi moti popolari polacchi che dettero il via ai grandi movimenti di rivolta che dal ’56 arrivarono al 1989” – scrive Centovalli nell’introduzione. Il “Nuovo Corriere” era – spiega – solo formalmente un quotidiano di sinistra “indipendente”; in realtà, fiancheggiava il suo finanziatore, il Partito Comunista. Bilenchi era il suo direttore già nel 1948; proveniva dall’esperienza di “Società”, rivista fondata e lasciata cadere per via di contrasti ideologici con Togliatti, che pretendeva rigida osservanza del dogma: il marxismo.
Questa preziosa plaquette di Alet ospita una selezione del carteggio tra Bilenchi e Vittorini e Bilenchi e Guarnieri. Vittorini domanda notizie più precise su quanto avvenuto nel “Nuovo Corriere”, accennando a voci legate a un passaggio di Bilenchi a “L’Unità” – Bilenchi smentisce e spiega che dovrà cercarsi un lavoro entro breve. Spiega che i migliori redattori del giornale si sono dimessi dal partito, per solidarietà. Vittorini lo invita allora a concentrarsi sulla narrativa, dedicandosi, in ambito giornalistico, al limite alla terza pagina (così avverrà); spedendogli poco dopo una lettera aperta indirizzata al PSI, da sottoscrivere. Bilenchi rifiuta e predica: “Io non credo a questi partiti: il Pci, il Psi, il Psdi sono sputtanati, sputtanatissimi. Io penso che noi dovremmo se mai agire perché si formi un partito di sinistra più moderno, democratico (…) dovremmo (…) aiutare il formarsi di una democrazia che sia vera onesta e giusti e che spazzi via il conformismo, la non libertà, la tortura ”. Era il mese di marzo del 1959.
1972. Lettera a Guarnieri. “Ho rifiutato milioni il mese per non vendermi e sono andato a nascondermi – per mangiare purtroppo – in un giornale dove non ho mai corretto un rigo di politica e all’età della pensione ho tagliato la corda (…). Ho continuato a votare per il Pci e a difenderlo ovunque”. Incredibilmente, Bilenchi rivendica ancora la sua fede comunista. E ancora, più avanti, sempre più chiaro: “D’altra parte non potevo dare spiegazioni minuziose e pubbliche. Avrei danneggiato troppo il Pci e di riflesso la classe operaia. Allora ho preferito tacere, ho lasciato scrivere che ero uscito dal partito a causa dell’Ungheria (…)”. Ha sofferto – spiega – per la sua onestà politica.
Morale della favola… il partito di Togliatti non solo pretendeva rigida osservanza al dogma sovietico; decideva, con altrettanto bieco servilismo, vita e morte delle redazioni dei giornali che finanziava nell’ombra. È bene ricordare esempi come questi, perché contribuiscono a illuminare quanto fosse potente la piovra rossa nell’acme del suo potere, e quanto fosse estranea alla giustizia e alla libertà. A dispetto della propaganda, è chiaro. Nella sua orribile cecità frantumava – in un attimo – una delle sue menti più aperte e una delle anime più fedeli, quella di Bilenchi, scrittore dal passato socialista e fascista (ma: di sinistra! Come, qualcuno ripete, da dna originario e da spirito di quell’idea…), comunista che si ritrovò senza più partito, e tuttavia quello spettro omicida continuò a votare; ritrovandosi senza ruolo adeguato alla sua statura intellettuale. Un po’ come accadeva, naturalmente con diverso rigore, quando i comunisti tiranneggiavano nazioni mitteleuropee o europee dell’est; Kundera ha spiegato correttamente certe dinamiche.
Quest’edizione è stata realizzata a cinquant’anni dalla chiusura del “Nuovo Corriere” di Firenze, in ricordo dello scrittore Romano Bilenchi. È un documento storico e politico di grande interesse; è fondamentale per decifrare con più esattezza certe commistioni odiosette tra partiti, quotidiani e riviste (e case editrici, e così via), gravide di morbi di ogni genere in tempi non sospetti. Bastava scrivere la verità per non essere più comunisti.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Romano Bilenchi (Colle Val d’Elsa, 1909 – Firenze, 1989), giornalista e scrittore italiano. Esordì pubblicando il romanzo “Vita di Pisto” nel 1931. Di formazione Socialista, fu dapprima fascista; quindi, nel 1940, uscì dal partito. S’iscrisse quindi (1943) al partito comunista, pronunciandosi sempre contro lo stalinismo. A seguito dei fatti d’Ungheria, stracciò la tessera (1956), salvo poi rientrare nel 1972.
Romano Bilenchi, “I fatti di Poznan”, Alet, Padova, 2006. Introduzione di Benedetta Centovalli. Edizione numerata, fuori commercio, in 500 esemplari (Natale 2006). In copertina: Alberto Manfredi, Lo scrittore e il gatto. Acquaforte del 1992 tirata a 10 esemplari.
Le due lettere di Bilenchi a Vittorini sono uscite in B. Centovalli, “L’epistolario”, in “Bilenchi per noi”, Firenze, Vallecchi 1992. La prima lettera di Bilenchi a Guarnieri è stata pubblicata a cura di B. Centovalli in Dossier Bilenchi, “Il caffè illustrato”, novembre-dicembre 2003; la seconda è inedita.
Gianfranco Franchi, aprile 2007.
Prima pubblicazione: Lankelot.