Piano B Edizioni
2011
9788896665312
La Rete è stata propagandata come un miracolo: come una necessaria trasformazione sociale e individuale. La Rete era e andava considerata come un'evoluzione: criticarla significava trincerarsi dietro la paura del cambiamento. Difenderla implicava, tendenzialmente, fondarsi sulla retorica della democrazia, della libertà e dell'accessibilità. Che la Rete sia stato uno straordinario passo avanti per la tecnologia e per tante persone isolate, difficili o asociali è fuori di dubbio. Che si stia trascinando dietro tutta una serie di pericolose e rovinose conseguenze, dopo aver attecchito a così grande livello, è altrettanto vero. A pizzicare, indagare e a nominare tutte queste conseguenze, e a provocare un bel po', come si conviene, è un recente saggio di Lee Siegel, brillante polemista e saggista statunitense, editorialista del NYT classe 1957. “Homo Interneticus. Restare umani nell'era dell'ossessione digitale” [Piano B, 2011; la copertina è un Ceccato] è l'antidoto ideale per sedare la propaganda del web di questi ultimi anni, “dove la retorica della democrazia, della libertà e dell'accessibilità” - spiega con una carta chiarezza lo yankee – “è spesso la copertura per una retorica antidemocratica e coercitiva; in cui le aspirazioni commerciali si mascherano da valori umanistici e in cui, ironicamente, la tecnologia è tornata indietro, dall'intrattenimento disinteressato dell'arte alta e popolare al gretto e avido interesse personale” [p. 143].
Siegel ha l'onestà e la lucidità di osservare che il navigatore medio somiglia più a un consumatore ideale che altro: soprattutto, Siegel ha compreso a dovere qual è il grande limite e la grande illusione dell'informazione ai tempi del web; vale a dire che la democrazia dipenda “dal pieno accesso ad essa”, e che i cittadini informati siano cittadini con “maggior potere”. Magari fosse vero: magari fosse così semplice. L'informazione è una cosa ben diversa dalla conoscenza: la conoscenza aiuta a capire un argomento, le informazioni non sempre, o niente affatto, o solo parzialmente (e faziosamente). Le notizie sanno essere una semplice distrazione: un torrenziale flusso di notizie diventa un'enorme distrazione. Ingovernabile. L'eccesso di informazione che caratterizza il web 2.0 (e il web 3.0, quello della fortuna abnorme e inquinante dei social network che tutto hanno depredato e saccheggiato) sta dando piuttosto vita a un caos allucinante nel mondo dell'informazione. Vale per i giornalisti come per i lettori, bombardati da aggiornamenti frenetici e spesso, inevitabilmente, contraddittori. E non di rado illeggibili. “La trasmissione della conoscenza” - rileva Siegel - “non ha niente a che vedere con la rapida diffusione di informazioni sempre disponibili on line” [p. 22], e tendenzialmente cangianti: freneticamente cangianti. È come se certi quotidiani avessero confuso la loro prima pagina web con la vecchia, sintetica e isterica “ultim'ora” del TelevideoRai. Colpa della smania competitiva di arrivare per primi sulla notizia. Vera o veridica o verosimile che sia, a volte. Basta che sia.
Quando Bill Gates magnificava “l'accesso all'informazione e alla comunicazione istantanea con chiunque nel mondo”, dimenticava che quella comunicazione istantanea avrebbe presto saturato lo spazio e il tempo a disposizione di chi doveva ricevere un numero eccessivo di messaggi; come se non bastasse, dimenticava che la comunicazione “in tempo reale”, e cioè non più differita come ai tempi delle lettere cartacee, poteva finire per diventare una costrizione strangolante; infine, dimenticava che accedere all'informazione, sic et simpliciter, non significa istantaneamente comprendere la realtà, o una dinamica sociale o un'idea politica: un'informazione non è un concetto. Accedere all'informazione significa, semplicemente, accedere a una notizia – una tra le migliaia che oggi giorno vengono prodotte e confezionate. Inutile, insomma, aggiornare ogni tre minuti la home del quotidiano di De Benedetti, della famiglia B. o del “Fatto” per studiare l'evoluzione di certe notizie: è un esercizio alienante, al limite, un comportamento compulsivo, robotico e grottesco. A meno che non siate parte della redazione di uno di quei quotidiani, si intende. In quel caso può succedere che vi stiano pagando per questo.
Fatevi pagare per bene.
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Cos'è, oggi, il web? Siegel giudica la Rete il primo “ambiente sociale” della storia capace di soddisfare un numero incredibile di esigenze di individui “isolati, separati e asociali” [p. 24]: per la prima volta nella storia, osserva, una persona, senza neanche uscire di casa, può trovare e ordinare abiti, cibo, divertimento; può innamorarsi, fare sesso [“o almeno una specie di sesso”, specifica: meno male], ricevere consigli medici o legali, raccogliere e provare ad assimilare una pletora di informazioni diverse, di ogni genere di rilevanza, dalla più stravagante e improbabile provenienza.
Ma in ogni caso: “siete tutti soli – nel vostro mondo, nella vostra immaginazione – con altre persone che vivono nei loro mondi indipendenti. Punti isolati collegati tra loro” [p. 184]. Monadi: chiusi in voi stessi, virtualmente aperti all'alterità. Chiusi in noi stessi, virtualmente aperti all'alterità. Ma comunque prigionieri della nostra interiorità. Secondo Siegel, il pericolo è quello di percepire l'esperienza dell'attività e delle interazioni nel web come una messinscena identitaria in cui uno può trasformare ciò che di più importante esiste al mondo, vale a dire le altre persone, “in piccole presenze apparentemente influenzabili, totalmente a disposizione delle nostre fantasie” in un mondo controllato dal nostro polso, dalle nostre dita.
Un risultato può essere quello di diventare intolleranti quando la realtà cessa di somigliare alla nostra volontà: “troviamo sempre più difficile accettare gli insormontabili limiti imposti dall'identità, dal talento, dalla personalità; iniziamo a comportarci in pubblico come se fossimo in privato, e a riempire il nostro mondo privato di gargantueschi desideri pubblici” [p. 33]. E così non va.
Siegel descrive il narcisismo del navigatore medio, quello da social network: uno “la cui percezione di sé dipende dall'approvazione di altre persone, di cui tuttavia non gli importa nulla”, ripete sulla stregua degli studi d'antan di Christopher Lasch [cfr. pp. 63-64 sulla “Cultura del narcisismo”]: e ha ragione. È un meccanismo che finisce per dare vita a comportamenti paradossali e contraddittori, bizzarri e liminari. Quando Siegel scriveva “Homo Interneticus” non aveva ancora attecchito il grottesco gioco dell'approvazione di tutto: del singolo messaggio come dell'articolo come della provocazione politica, previo click sul pulsantino “mi piace”. Eppure era già nell'aria, e in questo libro è come se si fosse già perfettamente, mostruosamente incarnato. Oggi infiltra ogni pagina, con tanto di numeretto al fianco: se il numeretto è basso uno pensa male. Stiamo proprio vaneggiando. Liberiamoci di queste cazzate. È ora.
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Ci sono stati diversi momenti, durante la lettura di questo brillante e intelligente saggio (efficace davvero la traduzione di Alessandra Goti, completa di un buon apparato di note per il pubblico italiano), in cui ho avuto nostalgia degli anni Novanta: diciamo di quegli anni in cui, come ben si ricorda Lee Siegel, “arrivava un momento in cui spengevi la tv o lo stereo, chiudevi il libro o la rivista, o tornavi a casa da teatro, o dal cinema. C'era un momento in cui abbandonavi la cultura e ti ritiravi, o avanzavi, verso uno spazio sociale privato, o verso la solitudine. Telefonavi. Facevi delle passeggiate. Andavi a fare una bevuta al bar all'angolo. Facevi l'amore con tua moglie, o la tua ragazza o ragazzo. Scrivevi delle lettere”. E ora? “Ora, nella maggior parte dei casi, accendi il computer: vai su qualche social network, scrivi sul tuo blog, compri qualcosa, provi a trovare un compagno […]. Potresti mandare una mail, ma nessuno si limita solo a mandare una mail […]. Ogni attività che svolgi in Rete porta sempre a un'altra attività […]. Con Internet, la cultura non finisce mai” [p. 90] - e per cultura intende “espressione pubblica condivisa”. Una cosa di cui tutti possono avere fame, non soltanto gli intellettuali.
Siegel ha ragione. Stiamo rischiando, negli uffici come nelle redazioni, nelle case come nei parchi [già...], di imprigionare il nostro immaginario e i nostri pensieri nella Rete, vivendo una vita altra sempre più preponderante rispetto alla nostra. È come se ci fossimo abituati alla connessione: all'eterna reperibilità, alla costrizione all'aggiornamento su ogni novità, al dogma della visibilità e della necessità della pubblicità. Su tutto. Senza accorgercene, abbiamo fatto della nostra attività in Rete un'arma al servizio del marketing delle aziende, e della propaganda dei partiti [vecchi e nuovi...]: condividendo notizie sulle nostre abitudini, sulle nostre preferenze, addirittura sui nostri circuiti di conoscenze e di amicizie, sentimentali o professionali, abbiamo stabilito che fosse pubblico ciò che strategicamente doveva restare privato, e molto spesso a oltranza. Come – per dire – la capacità di influire sulla circolazione delle notizie: a quale livello: in quali circuiti: con quanta facilità e quanta profondità. Che errore.
Non è tutto. Siegel ha ragione perché concentrandoci sulla cultura in Rete dimentichiamo quanta importanza e quanto peso abbia farla nelle nostre città, cittadine, quartieri e paesi: dimentichiamo quanto senso abbia prendere e condividere pensieri, parole e progetti, idee e impressioni, fisicamente: guardandosi negli occhi, bevendo qualcosa assieme – può andar bene anche un po' d'acqua, grazie.
Siegel ci ricorda che l'enorme fascino della Rete costituisce anche un enorme pericolo. Enorme e non abbastanza denunciato. E così, proprio come per l'altra grande innovazione tecnologica del secolo scorso, l'automobile, è assurdo negare quanti guasti e quanti pericoli ci siano, soprattutto se ci si finisce per trincerare dietro caotici e buffi e vaghi principi di “democraticità” e di “pari accesso per tutti: a tutto”.
Che Internet stia ammazzando, per esempio, i grandi quotidiani e la cultura del quotidiano, in generale, è un fatto. Che serva un antidoto a questa smania dell'aggiornamento a qualsiasi ora e su qualsiasi notizia è altrettanto chiaro. Io vedo possibile che si arrivi a due edizioni al giorno, accessibili a determinate ore del giorno, in Rete: nel frattempo, gli aggiornamenti chiassosi e ingovernabili rimangano patrimonio delle agenzie di stampa e dei cronisti. E che il lavoro del giornalista sia quello di mettere ordine nel delirio: ma non in pubblico, e non di fronte a tutti, ogni cinque dieci quindici minuti. Le due edizioni del giorno potrebbero essere sia virtuali che cartacee. A distribuirle si va nelle piazze e nelle edicole – in quelle superstiti, si intende.
Ancora: che Internet abbia spogliato nudi certi giornalisti culturali, principi e principesse della marchetta, idealmente entro le 1500-2000 battute, è un fatto. Larga parte dei vecchi navigatori del web ricordano bene perché ci piaceva cercare recensioni di libri, film o dischi in Rete, negli anni Zero, in certi sitarelli mezzi amatoriali mezzi professionali, comunque più o meno clandestini. Perché c'era il contatto diretto con l'articolista, perché c'erano poche possibilità che scrivesse per avere qualcosa in cambio, lavoro o favore o denaro o quel che era. Perché sapevamo che non stava trascrivendo la cartella-stampa. Bei tempi: tempi praticamente agli sgoccioli, da un po'. Ne riparleremo. Ma insomma: adesso certi periodici e certi gloriosi quotidiani dovrebbero averla ben capita, la lezione. Per tenersi buoni certi lettori serve non prenderli scopertamente per il culo. Non è difficile. La gloria della testata fa il resto.
Infine: che Internet abbia dato spazio a una quantità straordinaria di dilettanti pretenziosi e presuntuosi è un fatto. Vale per tutte le arti, per la letteratura in primis: vale per tanti mestieri, per il giornalismo in particolare. Ma col passare del tempo la Rete sta sviluppando gli anticorpi adatti. O quantomeno, si stanno costruendo, nella Rete, gli stessi muri che esistevano nella realtà. Pensavo fosse un male, in realtà credo sia un bene. Un bene profondo.
Per quanto riguarda la solitudine, Siegel dimentica che quella ha sempre ammazzato troppe persone. Soprattutto nella civiltà industriale e postindustriale. Non è male se qualcuno finisce per curarsela in Rete: che nessuno lo giudichi.
Bel libro.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Lee Siegel (Bronx, NY, 1957), critico culturale e saggista. Scrive sul NYT, e sul New Yorker, tra gli altri.
Lee Siegel, “Homo Interneticus. Restare umani nell'era dell'ossessione digitale”, Piano B, Prato, 2001. Traduzione di Alessandra Goti. Prefazione di Luca De Biase. Grafica di copertina: Maurizio Ceccato. ISBN: 978-88-96665-31-2
Prima edizione: “Against the Machine. Being Human in the Age of Electronic Mob”, New York, Spiegel & Grau, 2008.
Approfondimento in rete: WIKI en / Gilioli /
Gianfranco Franchi, agosto 2011.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Per quanto riguarda la solitudine, Siegel dimentica che quella ha sempre ammazzato troppe persone. Soprattutto nella civiltà industriale e postindustriale.