Marsilio
2003
9788831780995
“Ho viaggiato molto, nonostante i miei pochi anni: ho collezionato settantuno città, e i miei occhi, in questo continuo viaggiare, in questo disfare e rifare le valigie, in questa vasta serie di fotogrammi hanno scelto di fermarsi su di un’immagine sola, un’immagine piccolissima: hanno scelto Dmitrij K. Nell’eleganza a buon mercato di questo bambino russo si nasconde tutto il disagio dell’Europa che non avevo mai conosciuto, preso com’ero da Venezia e da Parigi, dalla loro eleganza formale. E ho scoperto quanta bellezza ci può essere anche nella tristezza e nella disarmonia, quando Dmitrij K. mi ha accompagnato nelle stanze perfette della disciplina: l’improvvisa violenza sui tasti del pianoforte, il suo collo rigido, come sorretto da un busto, l’irrimediabile assenza dello sguardo poco umano, rapito dalla perfezione e ingrato verso la miseria umana: tutto questo mi ha stravolto. Inevitabilmente prevale su ogni altro ricordo” (Lecca, “Mosca”, pp. 56-57).
Per quanti non siano estranei alla produzione del giovanissimo (classe 1976) scrittore sardo Nicola Lecca, questo frammento assume rilevanti significati: in prima battuta, mostra che l’idolatria nei confronti della musica classica è rimasta immutata; in secondo luogo, annuncia finalmente una almeno embrionale sensibilità nei confronti dell’altro da sé – pure filtrata dal riconoscimento d’un’analogia (dedizione alla musica “alta”); infine, promette non dico partecipazione e testimonianza empatica, ma almeno deviazione dalla prospettiva borghese ed esclusiva d’osservazione della realtà precedentemente riconosciuta. Sono segni di un progressivo miglioramento, ma sintomi d’una narrativa ancora piuttosto acerba: ben distante dal rappresentare appieno le potenzialità che la scrittura (attualmente) equilibrata e ben calibrata dell’autore lascia intravedere.
Terzo libro di Nicola Lecca, “Ho visto tutto” è una raccolta di racconti strutturata in due parti, “Il silenzio” e “Il dolore”, suddivise rispettivamente in quattro + quattro racconti. La scrittura è certamente più asciutta rispetto al discutibile esordio, “Concerti senza orchestra”; meno facile reperire quelle ossessive ripetizioni lessicali e stilistiche che altrove avevo segnalato.
La struttura è sostanzialmente immutata: Lecca s’affida alla prosa breve, alla narrazione d’un momento: bozzettistico, non di rado apodittico, ma interessante nella neo-vocazione alla sobrietà, a una lingua più scarna (o: più levigata) e meno artificiosa. Narrazione regolarmente in prima persona. Dialogo, di norma (eccezione: secondo racconto “Vienna”), assente – ciò non stupisce, considerando l’esordio.
Questo libro dimostra che Lecca sa scrivere con equilibrio e misura – quindi, attendiamo un romanzo, e non l’ennesima raccolta di racconti, per capire cosa intende comunicare con la sua narrativa. Ad oggi, Lecca è uno scrittore borghese – scrivo questo da borghese: per quanto mi riguarda, la parola “borghese” non ha nessuna accezione offensiva: triste doverlo chiarire, ma opportuno – che si rivolge a un pubblico maturo e borghese: non c’è traccia di sperimentalismo, d’evoluzione della lingua letteraria, di coscienza “sociale”: il narratore, tendenzialmente, appare sballottato dall’epifania d’una miseria e d’una povertà e d’una serie di difficoltà esistenziali che stentava a credere fossero reali: tragico, ma vero. Spesso ho avuto l’impressione di leggere poco più che appunti di viaggio d’un individuo slegato e indipendente rispetto a qualsiasi ideologia, e tuttavia miracolosamente “nuovo” alla coscienza (e: alla visione) della realtà; in grado quindi di stupirsi di eventi e rovesci della sorte piuttosto comuni, al di là di certi gruppi sociali. È come se l’autore avesse fatto capolino – o talvolta fosse riuscito a sprigionarsi – da un guscio di decoro, buon gusto e buona educazione; inevitabile che accada, per evitare l’intossicazione dall’artificio d’una visione alto borghese dell’esistenza; ma incredibile che venga pubblicato, questo sì, come esempio di letteratura nuova.
Manca qualsiasi intenzione di evoluzione e progresso: Lecca s’uncina a una scrittura compassata, trattenuta e – per quanto possibile, nella sua pretesa asetticità – moraleggiante. È il compitino di un bravo ragazzo dotato di sensibilità: non Letteratura. È una forma di letteratura – e non fa male come antidoto a quanti si sono nutriti delle volgarità e della scrittura di genere dei cannibali. Soltanto – come dire – non è ancora panacea; è una sorsata d’acqua. Calda.
Io non voglio leggere esercizi o frammenti. Almeno, non in due libri su tre, di un autore classe 1976. Da lettore, pretendo qualcosa di immortale e di grande. Voglio un romanzo. Se vivere è tempo rubato al dovere di leggere, non posso non dedicarmi ad opere destinate a restare nel tempo.
Non dubito dell’equilibrio e della misura della scrittura di Lecca, né della sua (oggi) diversa sensibilità o della sua autentica vena, ed estrazione, borghese: adesso auspico che scriva di vita, di morte, di sogni, di difficoltà, di varia umanità, di amore; di sacrifici, incomprensione, silenzi e rovesci della sorte. Non una foto: voglio un film. Non un’immagine: ma immagini montate con criterio e senso e “visione” di base. Le impressioni sono queste: ho incontrato sprazzi e momenti di buona letteratura, e nessuna credibile coesione o coerenza tra una e un’altra prosa. Questo è un libro “assemblato”: e ben confezionato. Si veda la copertina, o si pensi al titolo, per capire al volo. Sbaglio? Spero di sì. Ossia: vorrei sapere se esisteva un disegno originario, e non un tenace taglia-e-cuci di pagine scritte, a volte con la mano sinistra, tra una e un’altra città.
Prendiamo la prima parte – tenendo presente che il libro si intitola “Ho visto tutto”, e che quindi ci si potrebbe attendere, a ragione, qualcosa di discretamente universale. Al di là della vicenda del povero moscovita Dmitrij, che suona dimentico della miseria, bambino povero ma elegante nella sua dedizione alla ricerca della perfezione, le altre storie sono ambientate in Vienna, Malbork (ex Marienburg) e alle isole Faer Øer. I nomi non ingannino: a parte la storia isolana, le altre potrebbero essere ambientate altrove (un castello, nel caso di Malbork, non giustifica l’esotismo). Simbolicamente interessante la tragica vicenda della povera musicista (…) isolana, costretta a trasferirsi in un’isoletta sperduta, unica consolazione le lezioni d’arpa. Suonano sempre gli stessi brani: mancano gli spartiti: lei s’addestra alla perfezione immaginando un concerto che forse non terrà mai. La sua parabola si conclude nell’estraniamento totale dall’alterità, in un villaggio già dimenticato da dio: del suo espressionismo non sapremo nulla, purtroppo: dobbiamo immaginarcelo. Peccato.
È un’artista, ed è povera: il neo-leit motiv di questo libro è la scoperta della povertà. Nel racconto “Malbork”, il piccolo Jaceck si mangia una bella bistecca (“bistecca popolare”: che significa?) per il suo undicesimo compleanno. È magro, povero, destinato a diventare “una comune persona infelice: un uomo con la pelle troppo sottile tra le unghie degli altri uomini” (p. 26). L’incontro con le banconote verdi del turista anglofono sarà scioccante – ancor più quello con la grassezza dell’uomo raffigurato su quei denari.
In “Vienna”, lo scrittore incompreso Friedrich, autore di parole “belle, lisce e bianche” (p. 26), in grado di leggere proprio quei dettagli che sfuggono al prossimo, scampa ad un’orrenda presentazione per rifugiarsi nella contemplazione occasionale dell’infanzia perduta: votarsi al silenzio per rinunciare all’incomprensione sarà la sua scelta.
Il silenzio è un flebile filo rosso, che regge – forzando parecchio – questi quattro frammentini. Forse è scelta meno xenofila, ma il sardo Lecca può trovare altrettanta povertà nella sua isola (retroterra, forse: no?), e in centinaia di paesi italiani. Capisce meglio la lingua, e può farsi raccontare storie assai interessanti. Senza bisogno di trasfigurarle.
È un suggerimento, questo. Personalmente, preferirei, se l’intenzione dell’artista fosse quella di rifugiarsi nel neo-realismo, che abbracciasse la letteratura figlia della fastidiosa ideologia che l’ha adottato come arma: la povertà spiegata da Levi o da Silone è un po’ più credibile, a voler essere onesti. Nessuna scorciatoia e nessun esotismo di maniera: “verità” (per loro aveva senso, questa parola), e “rappresentazione” (del dolore e del male: del popolo).
La seconda parte, “Il dolore”, è ambientata in Kiruna, ancora Vienna, Dresda e Berlino. Il primo racconto torna scrupolosamente all’invenzione dell’acqua calda: “Che strano – mi sono detto il giorno in cui mio padre è morto – crediamo di conoscere a fondo le persone con le quali viviamo e, invece, all’improvviso, ci accorgiamo che non le conoscevamo per niente” (pp. 66-67). Eh, già. Già. E non manca una citazione a Bergman (Stromberg, invece, giocava nell’Atalanta: Corneliusson nel Como: Dahlin nella Roma, ma per poco). Ambientazione sempre popolana, ma raccontata da filtro e sensibilità borghese. Quindi, finta. Il secondo racconto è la storia di un incesto: raccontata per “la durata della cartuccia della mia penna stilografica” (p. 87). Ambientata a Vienna: c’è il Prater. “Dresda” è un tuffo nel passato del Lecca: musicista suona l’Appassionata di Beethoven, dieci summa cum laude, distacco paranoide dall’alterità. Siamo precipitati al mediocre livello di “Concerti senza orchestra”, e dispiace accorgersene. Interessante l’egolatrico ed egoarchico ultimo racconto, “Berlino”: non mancano Mahler, Bach e Mozart infilati qua e là ad insaporire l’insalatina, sebbene si registri l’epifania della “musica strana” dei Sisters of Mercy (ma va?); tuttavia l’adesione fanatica alle ossessioni (congetturo) autoriali mi sembra sia l’unica strada da battere. Quando non si nasconde la propria essenza, e si esasperano vezzi, manie, ossessioni, idolatrie, attitudini e amori – allora, ecco, nasce letteratura.
Preferibile lasciare la poetica de “i poverelli” o de “i miserabili” a chi sa di cosa deve parlare (e quanto guadagnerà, perché no?): e ne parla con amore, giustizia e umiltà (e: tessera di partito). Non per fare letteratura – almeno, non solo: ma per denunciare e contribuire a correggere il dolore. Non effetti, ma: cause. Quelle servono. Il resto è retorica, e assai popolana. Non popolare, attenzione. Popolana: demagogica.
Tre libri in una manciata d’anni: ancora attendiamo un libro che sia estraneo al tempo, e alle logiche del mercato editoriale. Non importa essere o meno presuntuosi o fortunati: importa avere talento. Lecca non ha dimostrato ancora niente, se non garbo e – adesso – velleitaria misura. Da lettore, pretendo grandezza. Sono stanco degli esercizi di stile – di tutti. Consigliato come lettura d’occasione, tra un cocktail (ma: nella terrazza giusta) e una grattatina alla nuca. Copertina simil-Leroy. Ma Lecca non è Leroy. Razze diverse. Simile vocazione alla “vacuità complessa”. Qui: di maniera. Là: di marketing.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Nicola Lecca (Cagliari, 1976), scrittore italiano.
Nicola Lecca, “Ho visto tutto”, Marsilio, Venezia, 2003.
Gianfranco Franchi, aprile 2005.
Prima pubblicazione: Lankelot.