Adelphi
2007
9788845921445
Ci sono due modi per presentare un libro doloroso e documentato come questo. Primo modo. “Guerre politiche” è l'ultimo frammento di Parise ragazzo, reporter adulto che prende e va a raccontare le guerre, in prima linea. Tornato, smette di sentirsi giovane. Era partito per amore del rischio, per inquietudine, per curiosità. Per informare i lettori della sorte di ragazzini di quindici, sedici anni, mandati al macello in guerra. Ma quando queste volume vede la luce, nel 1976, Parise non ha più voglia di viaggiare. Perché giovinezza è anche resistenza della mente e del cuore di fronte ai grandi dolori dell'umanità (p. 15). E non è una resistenza infinita.
Secondo modo. “Guerre politiche”, già apparso in volume nel 1976, è composto da quattro reportage: “Due, tre cose sul Vietnam” (Feltrinelli, 1967), “Biafra” (Feltrinelli, 1968), “Laos” (Corriere della Sera, 1970), “Cile” (Corriere della Sera, 1973). Si tratta di scritti “politici” sulle guerre “giuste” dell'epoca.
Si parte dal Vietnam. Parise parte su commissione di Eugenio Scalfari, allora direttore dell'“Espresso”. È il 30 marzo 1967. Parise entra nelle povere case dei viet. Sono baracche di legno e paglia intrecciata, pavimento in terra battuta, al centro l'altare per il culto degli antenati, ai lati il letto di tek, la tavola gli sgabelli. Gli uomini non si vedono, sono divisi tra i due fronti. Incontra solo donne e bambini. I marines distruggono ogni oggetto per evitare che cada in mano ai vietcong. Parise non ha nulla con sé, mendica – scrive proprio il verbo “mendicare” - cibo, sigarette, acqua. “Non possedere nulla – aggiunge – non soltanto è essenziale ma dà immediatamente diritto a tutto” (p. 24).
Le trincee americane sono piene di comfort: birra gelata di varie marche (“ne bevono cinque o sei un una volta”), televisore satellitare, film proiettati all'aperto. In ogni tenda e in ogni trincea, campeggia “Playboy”. I soldati, scrive, combattono in un'atmosfera di dissociazione molto simile al sogno. Tutti contano i giorni che li separano dal ritorno a casa. Tra di loro c'è un paisà, l'italoamericano Cipollone, meridionale molto devoto alla Madonna, da undici anni yankee. Non appena s'accorge che Parise è italiano è subito festa.
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L'artista veneto racconta la prostituzione a Saigon. 14mila bordelli, quasi mai aperti agli stranieri. I vietnamiti brillano per xenofobia. “Ngu voi tai”, “Vai a letto con uno straniero”, è sostanzialmente una delle peggiori offese. Gli stranieri sono tutti “americani”, per loro; “vogliono tutti rubare e fare del male”, dirà una giovanissima prostituta. I cinesi non sono del tutto stranieri. Sono, in ogni caso, i primi clienti di questi bordelli. Famosi perché comprano le vergini per poche lire. Altrove, una prostituta racconta di aver avuto tre figli meticci. “Uno francese, uno algerino, uno negro. L'algerino è morto. Gli altri due sono dalle suore” (p. 80). Come a dire: di stranieri ne sono passati tanti davvero. Non finiscono mai, cambiano soltanto.
Parise racconta cosa significhi sentire arrivare i colpi di mortaio a pochi metri da dove si riposa. Racconta la distruzione del napalm (“si cammina su un tappeto di cenere, scavalcando tronchi che fumano ancora, in un diffuso odore di kerosene”, pp. 44-45). Racconta quanto pericolose fossero le frecce di bambù, semplici, dirette, avvelenate e umane. Racconta delle più primitive tribù viet, di quanto siano estranee a tutto quel che sta succedendo. Racconta le armi cinesi, russe, cecoslovacche adottate dall'esercito comunista viet. Racconta che non voleva più partire, perché sentiva di amare quella terra e voleva capirla. Infine, ricorda che quella che gli americani chiamavano “invito”, un invito ricevuto dal governo vietnamita, era semplicemente la guerra “più sanguinosa e feroce degli ultimi anni”: in cui gli invitati avevano sganciato sul Paese ospite più bombe di quante ne avevano sganciate nella Seconda Guerra Mondiale. Serviva per combattere il comunismo: non doveva servire per essere più spietati e disumani d'un regime comunista. Per questo rimane una macchia imperdonabile.
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Biafra. Agosto 1968. Incipit della vicenda. “Il Biafra era un piccolissimo Stato, apparso e scomparso nel giro di un anno. Un negro di nome Ojukwu, di ottima famiglia, ufficiale di carriera dell'esercito nigeriano, con studi a Eton e a Cambridge, decise un giorno di diventare il capo d'un grossa tribù cattolica, nel cuore della Nigeria, in una zona ricchissima di petrolio. Formò uno Stato secessionista, combattuto dal governo centrale della Nigeria. Ci fu una guerra, fatta come poteva essere fatta” (p. 101). E per richiamare l'attenzione, con cinismo inaudito, lasciò morire di fama centinaia di migliaia di bambini, e il mondo cadde in trappola. La Croce Rossa non portava viveri per via di statuti e convenzioni internazionali (Stato non riconosciuto); soltanto la Caritas riusciva a dare sostegno alla popolazione. Ma la situazione stava precipitando. A quanto Parise raccoglie, i viveri della Croce Rossa, transitando per la capitale nigeriana Lagos, venivano avvelenati. Risposta di Lagos: “propaganda”.
Parise racconta i campi profughi di Umuahia: “Solo un poco alla volta e aguzzando lo sguardo si riesce a distinguere in questa massa, che ha perduto le caratteristiche individuali dell'umanità e ha assunto quelle collettivi e indecifrabili della morte, ciò che un tempo doveva essere un uomo, una donna, un bambino. Si è costretti a guardarli dall'alto perché quasi nessuno si regge in piedi” (p. 111). Il resto delle descrizioni non fa che aumentare lo sgomento e la disperazione per quanto accaduto.
In un anno soltanto, il nuovo Stato ha perso moltissimi territori; milioni di profughi si sono concentrati in un'area già densamente popolata. Non hanno nessuna coscienza di unità diversa da quella razziale. Sono nemici dei maomettani del Nord: non vogliono tornare nigeriani per paura d'essere uccisi. Chiedono l'aiuto del Vaticano: i cittadini del Biafra sono l'unica isola cattolica in un piccolo mare islamico. È il dramma dello scontro tra gli Ibo cristiani e gli Hausa islamici: democratici e industriosi i primi, aristocratici e statici gli altri. Alle spalle, chi ci sia davvero, non è dato sapere. Sembra URSS per gli Hausa, si direbbe l'occidente per gli Ibo. Intanto muoiono migliaia e migliaia di innocenti. Di fame. Nell'incomprensione del mondo.
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Laos. Maggio 1970. Parise è invitato dall'Unione Scrittori Sovietici e Nguein Than Khe, primo segretario dell'Ambasciata Nord-Vietnamita di Roma. La sensazione dello scrittore è che la “questione Laos” fosse, in quel frangente, totalmente nelle mani di Hanoi. Post intervento americano in Cambogia, il Laos aveva assunto importanza strategica, come unica via di rifornimento dei vietcong. La guerra del Vietnam era diventata guerra d'Indocina. Il rischio era che Laos e Cambogia diventassero stati comunisti. Parise finisce tra i partigiani, sostenuti, e senza vergogna né scrupoli, da URSS e Cina: formalmente non si dichiarano comunisti, eppure strategia, Weltanschauung e condotte sono inequivocabilmente rosse. Parise sospetta che si tratti d'una renitenza inconscia dovuta al loro furibondo nazionalismo (p. 195).
Ecco che arriva, a conferma delle sue sensazioni, un “giornalista” sovietico: Ivan Tscedrov, molto conosciuto da quelle parti, “ispettore generale sovietico nelle zone di guerriglia dell'Asia meridionale, che conosce come nessun altro” (p. 196). Viene a controllare che tutto vada per il verso giusto. I cinesi hanno una strategia ben diversa. L'invisibilità dei loro dirigenti. Preferiscono “una marea di oggetti e oggettini di uso quotidiano”. Preferiscono la propaganda culturale, assieme ai sovietici. Naturalmente, senza concorrenza di idee o ideologie altre. Preferiscono mandare derrate alimentari, per stabilire meccanismi di riconoscenza e amicizia.
Parise s'appassiona ai sentimenti degli individui del popolo del Laos: felice di accorgersi che “ancora” non sono diventati massa, prega che mai succeda. Simpatizza per la loro causa, per le loro drammatiche condizioni di vita, ma non per l'atroce futuro totalitario che può aprirsi di fronte ai loro occhi, privo di libertà, di dialettica, di diversità.
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Cile. Settembre 1973. Parise parte per passione umana, non politica né militare. Il Cile è sconvolto dalla dittatura: “Santiago del Cile è una città in cui si può udire un grande silenzio interno. Esso emana dagli animi di un popolo che, oggi, non ha più alcun sogno di libertà” (p. 246). Come fosse il silenzio d'una persona amata, e morta. Quella persona amata e morta è Allende, idolo del popolo, d'un sottoproletariato, in particolare, che lui tentò di rendere “politicamente cosciente”, ma poi illuse e deluse “per troppo cuore”.
Parise racconta del suo mese passato in Cile. Parla dei prigionieri politici, massacrati nelle carceri. Parla della borghesia, riferendo di aver incontrato persone colte, democratiche e civili che ripudiano quella dittatura. Parla delle contrapposizioni tra borghesia e povera gente, del nodo invincibile dell'avversione dei commercianti e di tanti professionisti al comunismo e al marxismo, del disastro della caduta del sogno del “socialismo umano” nell'incubo del regime militare.
Parla – come sempre – da democratico, e non da tesserato. Sembra elementare, ma per l'epoca è un approccio rivoluzionario.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Goffredo Parise (Vicenza, 1929 – Treviso, 1986), scrittore, sceneggiatore e giornalista italiano.
Goffredo Parise, “Guerre politiche. Vietnam, Biafra, Laos, Cile”, Adelphi, Milano 2007. Collana Piccola Biblioteca Adelphi, 551.
Prima edizione: 1976. Include quattro reportage, due già editi in volume (“Due, tre cose sul Vietnam” e “Biafra”) e due apparsi sul “Corriere della Sera” rispettivamente nel 1970 e nel 1973.
Approfondimento in rete: WIKI it / Casa di Cultura Goffredo Parise
Gianfranco Franchi, marzo 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Prima edizione: 1976. Include quattro reportage, due già editi in volume (“Due, tre cose sul Vietnam” e “Biafra”) e due apparsi sul “Corriere della Sera” rispettivamente nel 1970 e nel 1973.