Mondadori
2000
9788804485803
Ultimo, incompiuto romanzo di Francis Scott Fitzgerald, “Gli ultimi fuochi” (“The Last Tycoon”, 1941), scritto mentre viveva – spiega la Pivano nella prefazione – in un “oblio quasi totale”, creduto morto da parecchi, vittima dell'alcol e di disastrose condizioni economiche, della tubercolosi che andava e veniva e delle delusioni hollywoodiane, è, nelle parole della sua critica italiana per eccellenza, “la denuncia più spietata, esatta e umana del sistema hollywoodiano. Una denuncia stranamente oggettiva, distaccata: in questi produttori che stritolano vite intellettuali e spirituali, Fitzgerald con generosità da poeta e slancio d'artista riconosce valori umani appoggiati soprattutto al desiderio di riuscita (…) di un'impresa più o meno collettiva” (p. 21).
Probabilmente, “L'ultimo magnate” - questa la traduzione letterale del titolo – poteva essere tutto questo se fosse stato portato a termine dall'autore nel pieno delle sue volontà e della coscienza; ciò che ce ne rimane, sei capitoli, si direbbero piuttosto una nuova storia d'amore (sfortunata), con momenti di grande intensità e descrizioni dello stato d'animo dei due protagonisti davvero memorabili, ambientata a Hollywood: nel desiderio di raccontare una sorta di “dietro le quinte” di Hollywood, aspetti oscuri e detestabili come lo sfruttamento dei lavoratori inclusi.
A questo proposito, sarebbe saggio che ogni lettore italiano perdesse un po' del suo tempo per interiorizzare l'introduzione della Pivano, completa di notizie su tutti – e sono tanti – i progetti cinematografici accantonati o falliti da Fitz, in quei suoi ultimi anni; spesso veniva ingaggiato e poi estromesso, quando per il suo alcolismo, quando per l'inadeguatezza della sceneggiatura, quando per la terrificante e animalesca competizione tra scrittori nel mondo cinematografico. È chiaro che l'artista voleva raccontare ciò che aveva segnato in negativo i suoi ultimi anni – pazzia di Zelda a parte – e voleva cercare di risorgere dalle sue ceneri rivelando al pubblico cosa animava davvero il variopinto e contrastato mondo del cinema; si direbbe, e questo è curioso, che man mano si sia sovrapposto al protagonista del romanzo, un produttore, self made man, deus ex machina dei film statunitensi. Forse si trattava di un disperato tentativo di comprendere la natura di un ruolo, quello del produttore, che certamente non gli era famigliare, né amico: appunto, come scrive la Pivano, con “generosità da poeta e slancio d'artista”.
Narrato in prima persona da una ragazza (stando alla Pivano, si tratta della figlia di Fitz, l'amata Scottie), nel primo capitolo, quindi – man mano – narrato in una più consona e famigliare terza, “The Last Tycoon” è la storia del produttore Stahr; vedovo, incontra un'attrice che somiglia incredibilmente all'amore perduto, Kathleen. Riesce a sedurla, ma non sa che lei è promessa a un altro; gli annuncerà il suo matrimonio con un telegramma, il giorno dopo. È uno che potrebbe avere tante donne – una di queste, curiosamente, è la narratrice; giovanissima, storicamente vittima del suo fascino (è un collega del padre), cerca di farsi notare, invano – ma sembra essere rimasto fedele allo spettro della moglie perduta: lei cerca in tutte e trova (somiglianza vaga, ma bastevole) in un'altra. Non basta, e non può bastare.
Siamo dalle parti del drammone esistenziale: la struttura del romanzo doveva essere ciclica, simbolicamente; si apriva in aereoplano e in aereoplano si concludeva, con un attentato che trascinava Stahr, il produttore che diceva “L'unità artistica sono io” (p. 116), all'altro mondo.
Forse è più saggio che un romanzo come questo rimanga patrimonio della sempre viva comunità dei lettori innamorati della scrittura di Fitzgerald, artista capace di dar vita a romanzi fondamentali come “Belli e dannati” o “Il grande Gatsby”; non si può consigliare un romanzo incompiuto e chiaramente irrisolto come questo a un lettore “normale”. Nemmeno lo storico fascino delle opere incompiute potrebbe bastare, stavolta, a sedurlo o a convincerlo a fantasticare; al limite, potrebbe apprezzare i dialoghi – mai così scintillanti nella narrativa di Fitz, così credibili e così vivaci – e un paio di scene, quella madre con l'attrice sedotta e quella con gli sceneggiatori ai quali insegna come fare cinema, e come riscrivere le loro pagine. Poco per parlare sia di “denuncia spietata” che di “capolavoro”, a mio avviso – abbastanza per aver voglia di salutare e omaggiare uno scrittore che aveva già dato prova di grandezza, e grandi opere avrebbe potuto creare ancora.
Gli amici cinefili potrebbero restituirci memoria del film di Kazan (1976), fondato sui sei capitoli e sugli appunti tramandati da Fitz, per aiutarci a sognare un romanzo che non c'è, per insegnarci come poteva essere scritto e quante cose avrebbe – forse – potuto cambiare, nel tempo.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Francis Scott Key Fitzgerald (St.Paul, 1896 – Hollywood, 1940), scrittore americano, vissuto tra New York e Parigi.
Francis Scott Fitzgerald, “Gli ultimi fuochi”, Mondadori, Milano 1959. Traduzione di Bruno Oddera, Prefazione di Fernanda Pivano. Nota di Edmund Wilson.
Prima edizione: “The Last Tycoon”, 1941.
Al cinema: “Gli ultimi fuochi” di Elia Kazan, 1976.
Gianfranco Franchi, agosto 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.