Ginnastica d’epoca fredda

Ginnastica d'epoca fredda Book Cover Ginnastica d'epoca fredda
Sergio Sozi
Historica
2009
9788890357251

Trieste e l’Istria, abbandonate e tradite nel settembre 1943, sono ancora degne della Patria. La storia risponderà se la Patria è stata degna di loro” (E. Miani, “La Resistenza nella Venezia Giulia”)

1952. Poliorcete Visentini da Buie, dalle parti di Umago, Istria, è in fuga, nelle campagne di Gorizia. È in fuga, disperato per non avere patria diversa da quella “catasta di serpenti” che è l'Italia. Quell'Italia che ha tradito i giuliani, che ha abbandonato i fiumani, i polesani e gli zaratini, che ha mercanteggiato sulla pelle di trecentomila persone, consegnandole a un regime socialista, privandole della loro terra, delle loro case, delle loro tradizioni; infine, negandone l'esistenza, dimenticandone la storia, rubandone e alterandone l'identità, le ha sepolte. Vive. Poliorcete, come tanti giuliani, non era un fascista. Era stato un partigiano bianco: socialdemocratico, né anticomunista né anticattolico. Soltanto, nemico del regime italiano. Ma italiano rimaneva. E come italiano era nemico dell'imperialismo jugoslavo. Questa era l'antica lezione della Brigata Osoppo, massacrata da mano comunista, partigiana, italiana, perché voleva difendere l'italianità della Giulia. Un'antica lezione che in Italia non conosce nessuno. Curioso.

Poliorcete sognava di rovesciare il fascismo e di vedere un governo e uno Stato nuovo. Non sapeva che avrebbe perduto ogni cosa, non sapeva che i nuovi equilibri politici avrebbero scatenato un genocidio culturale: l'assassinio della storia d'una terra, e d'un popolo. Non sapeva che l'Italia sarebbe sopravvissuta mutilandosi, volontariamente, pubblicamente, e nell'indifferenza di tutti. La storia è finita nelle foibe. La verità è finita nelle foibe.

Non può passare per Trieste, e allora s'è diretto a Nord. Ha dimenticato che giorno sia. Ha dimenticato, forse, addirittura da chi sta fuggendo: sappiamo che la colpa è “morale e politica”. Ma tutto sembra molto confuso. La verità è che il regime ha confiscato i suoi terreni. E che lui vuole recuperare il maltolto, fidandosi di una certa promessa. Perché sua moglie e i bambini possano mantenerne la proprietà, lui deve optare per l'Italia, deve finire esule, oltreconfine. “I vostri figli, se restate qui, saranno iugoslavi; se andrete in Italia saranno italiani” - questo vengono a dirgli ufficiali di due nazioni diverse. Una è la Jugoslavia, l'altra l'Italia. Tutti d'accordo a speculare sulla pelle dei cittadini giuliani, istriani e dalmati. Gli italiani devono sparire dalla nazione di Tito. D'altra parte, a dar retta a certi storici croati, non siamo mai esistiti.

Poliorcete viene invitato a tagliare la corda: con tono unto, affettato. “Noi vi graziamo e dunque ci permettiamo di darvi qualche regoletta di vita. Obbligatoria, se no c'è solo per voi il carcere, una lunghissima detenzione sul campo di lavoro di Isola Calva”.

Poliorcete si trova dalle parti di Medana, oggi Slovenia, madrepatria di Alojz Gradnik, scrittore sanguemisto sloveno-friulano, poliglotta, internato a Gonars, scampato a Gonars. La fuga sembra destinata al fallimento. Scrive Sozi: “Avrebbe finito per ridurre, 'sta sua fuga di vero compagno dai falsi compagni, in una semplice evasione dell'egoista esule-piccoloborghese italiano dai giusti obblighi della spartizione delle miserie comuni… croate ch'esse siano o bosniache, serbe… cosí, 'fanculo!, se fosse andata così, Poliorcete sapeva che sarebbe tornato a casina, zitto zitto con le scarpe – e l'anima – rotte”. Da quelle parti nascerà un muro, un giorno, e soltanto l'altroieri verrà distrutto. Nel solito esecrabile silenzio italiano. Nel solito vigliacco silenzio italiano. “I politici hanno fatto una guerra e una rivoluzione sulla pelle dei nostri sentimenti di appartenenza nazionale!”, insegna Sozi. È vero. E Sozi ribadisce un aspetto fondante dell'epoca, così scrivendo: ossia, la differenza tra patriottismo e nazionalismo. Gli intellettuali e i cittadini giuliani (cfr. studi di Spadaro e Karlsen) gridavano “Italia” ma non volevano avallare guerre o invasioni: volevano tolleranza, rispetto, giustizia, libertà; sognavano una nuova, pacifica coesistenza con i popoli slavi, almeno fin quando non rivendicavano terre italiane. In quel caso, si andava a fronteggiare il dramma del termine di una dialettica. Dramma insoluto. Rifiutavano la bandiera con la stella rossa e con altri colori, si ritrovavano ad avere spazio solo per la nostalgia e la memoria e la rabbia, questo sì. Era il martirio o la fuga dei cittadini. Di fronte a questo non so quale dialettica rimanga. Forse solo l’elegia. Il personaggio di Sozi sceglie il suicidio. Simbolicamente, è un atto che rappresenta quel che è avvenuto. Noi istriani, come i fiumani e i dalmati, siamo stati suicidati. Dall'Italia, e dalla Jugoslavia. Questa vostra Repubblica è sporca del nostro sangue. E voi (noi? Io non sono più cosa sono) italiani non avete patria, perché non avete più una storia condivisa dal 1943.

Cos'è la Patria, a Trieste e nella Giulia? Spiega correttamente Patrick Karlsen, scrivendo de “Il Mio Carso” di Scipio Slataper: “La patria invece emerge dal Mio Carso, in più luoghi, come la propria terra-casa; la propria Heimat, dicono i tedeschi (cfr. l’inglese –home, il norvegese –hjem, ecc.): un luogo dell’anima, fatto di presenze umane, tipi umani, colori della natura e sapori della cucina, usanze comuni, lo scorcio di un pendio o di un golfo, una volgarità in dialetto; in questo senso, può comprendere e implicare fusioni di nazionalità e incroci di sangue – come accade appunto nell’alto Adriatico, da sempre; essere il risultato sentimentale di un impasto di tradizioni di disparata provenienza – ciò che accadrà all’Europa quando vorrà diventare una patria, un giorno. Di qui l’attualità del discorso slataperiano”.

Scriveva Giani Stuparich: “Ma noi allora non facevamo distinzione tra Trieste e l’Istria, per noi era la stessa terra. Solo più tardi apprendemmo a scuola che la storia dell’Istria era stata in certi tempi del passato diversa da quella di Trieste. Ma, nella sostanza, avevamo ragione noi fanciulli di sentire che Trieste era l’Istria e l’Istria era Trieste: una realtà geografica, naturale, unica, una sola regione”. Peccato non averne sentito parlare a Palermo o a Genova o a Napoli, negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta, nei libri di scuola.

Peccato sentir parlare di turismo in Croazia, e non di ritorno in Istria o a Fiume o in Dalmazia. Peccato sentir tornare dalle vacanze croate, invece, certi concittadini romani scossi dalle cattiverie anti-italiane che ancora adesso si sentono aleggiare, nel buio di quella che chiamano “Zadar”. Sembra il nome di un farmaco, adesso, quella città. Ma quella, croato, si chiama Zara. E Zara rimarrà per sempre. Come Fiume non è Rijeka. Rijeka è una tua triste socialista invenzione. Fiume è stata rubata. Pola è stata rubata.

L'Italia ti ha fatto da palo. Da buona democristiana. Qualcuno se la beve, 'sta storia di Zadar. Magari, tutto innocente, viene a parlarmene, mi dice che gli esuli sono stati scacciati dalle loro case perché erano cattivi e fascisti. Questo gli hanno insegnato gli albergatori croati. Gente che costa poco, mi si dice. Io gli rispondo, pacioso, “sono nipote di esuli: guarda, ho la coda”. Sì, ho la coda. Ho la coda nera. E non scordo. “Calore freddo privo di amore”, è quel tricolore che disconosco. Roma, Trieste, Fiume, Zara, Lesina, Ragusa, Spalato, Buie, Pola. Questi sono nomi che conosco, e bandiere che ogni giorno vorrei abbracciare e salutare. Ogni giorno, mando un pensiero ai miei antenati e ai nostri fratelli, alla nostra terribile sorte suicidata dall'Italia. Ogni giorno, soffro quando m'accorgo di nipoti di esuli che non parlano dei nonni, o nascondono il loro cognome. Succede spesso. Qualcuno si vergogna della miseria e della sofferenza patita, nel silenzio. Ogni giorno, aspetto giustizia. Sognando un ritorno a casa, in una terra libera, senza bandiere diverse da quelle dei comuni, e senza creativa neo-storia jugoslava. Non voglio le scuse. Non me ne faccio più niente. I nonni sono morti senza poter tornare a casa. L'Istria la guardavano dalle finestre di Barcola, ogni mattina. Dal vetro.

Questa storia non la lavate via coi soldi, né con le chiacchiere. Voglio giustizia. Rivoglio casa. Rivoglio il mio popolo. La mia terra, il mio mare. La mia lingua. Tutto. Rivoglio la verità. La verità deve tornare a casa. Sergio Sozi, italiano di Lubiana, ha scritto un racconto scomodo, intelligente, incisivo e freddo. Da antologia scolastica. Che si stampi e si consegni a tutte le scuole. Per una, in particolare: scuola media “Leonardo da Vinci”, Buie d'Istria. Istria, non Croazia. Istria. Fratelli, con voi siamo.

BREVI NOTE

Sergio Sozi (Roma, 1965), scrittore, critico e poeta italiano.

Sergio Sozi, “Ginnastica d'epoca fredda”, Historica, 2009. Collana “I Saggi”. Contiene una nota dell'autore, una postfazione di Gianfranco Franchi, una (ricca) nota storica a cura di Gianclaudio de Angelini e il saggio “La Letteratura degli italiani d'Istria, Quarnaro e Dalmazia. Un breve sguardo” di Sergio Sozi.

Gianfranco Franchi, giugno 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.