ISBN Edizioni
2010
9788876381669
Raccolta di dodici racconti, originariamente apparsi per Mondadori nel 1950, ambientati tendenzialmente tra la Nofi (Nocera Inferiore) e i vicoli di Napoli tanto cari all'artista, “Gesù fate luce” è un quaderno di prose caratterizzato da una scrittura carica, spumeggiante e ludica, innervata da uno spirito popolano e popolare irriducibile, facile preda di adattamenti teatrali per sketch o piccoli sceneggiati fondati sulla segreta (manco troppo, non sempre) essenza di Napoli, e sull'incredibile capacità campana di sopportare e rovesciare la miseria, le sofferenze e le sfortune. A distanza di sessant'anni, lo stile di Rea è decisamente e incredibilmente fresco, vivace e solare. Non c'è neanche l'ombra del malanimo e della disperazione, nonostante tutte le cose che succedono; c'è una voglia di vivere assurda e incontenibile, e una altrettanto grande voglia di raccontare la vita degli altri – dei poveri, per prima cosa. Senza uno straccio di retorica (miracolo) e senza artifici di nessun genere. La narrativa di Rea è semplicità briosa, è come acqua di una sorgente antica. Se il suo cognome nascondesse un etimo greco e non latino, potrei dire che Rea fluisce, fedele al suo cognome: scorre. Come niente fosse, quasi fosse sempre esistito.
Scrive Domenico Scarpa, nella postfazione “I portoni delle percezione”, che il grande errore della critica italiana del secolo scorso è stato considerarlo “neorealista”: proprio non era neorealista “uno scrittore che mostrava una tale strafottenza nei confronti della realtà ordinaria, uno che qualsiasi cosa dicesse era fuori proporzione, maneggiatore affettuoso di oggetti taglienti, nervoso sulla linea tra un dentro e un fuori” (p. 211).
Entriamo, allora nel vivo dei racconti. “Piededifico” racconta la storia delle generose monache del convento d'un paese “molto vicino al nostro”, votate a un prossimo spesso coperto di stracci e di pidocchi. In mezzo a questo prossimo c'è qualcuno che s'è ingrassato per bene di prosciutti e salsicce, giù in cantina. Piededifico. È magro, poverissimo, padre ricco solo di prole, accattone. E ladro. Ha scoperto che ogni settimana il vaticano manda un autotreno di rifornimenti, in convento. E quand'è venuto il momento, s'è spacciato per facchino per infilarsi tutto tranquillo nelle cantine. Ne deriva una vicenda di gabbo boccaccesco, completa tuttavia di punizione finale. L'argomentazione perdente del ladro accattone è “Non ho rubato. Caso mai, ho mangiato”. Molto democristiano.
“Lutto figlia lutto” è la storia d'una zia sarta, vedova, e d'una nipote, orfana, sempre vestite di nero. Sono calabresi, e sono tetre. La zia ritrova un po' di voglia di vivere innamorandosi d'un giovane maresciallo. Ma la nipotina, aria da monaca viziosa, si infila nella liason. Non finisce bene.
“Una scenata napolitana” è ambientata sulle prime in una camera soltanto, capace d'essere da letto e da pranzo, e salotto, pure. Siamo nei vicoli, e c'è una coppia che ha un gran bisogno di darsele di santa ragione. Spunta fuori un coltello, ma è tutta una coreografia, a ben guardare. I cittadini osservano e lasciano che sia, ché tanto poi la porta si chiude e quei due sanno come fare pace.
“Estro furioso” ci accompagna sulle rive del Sarno. Gli abitanti di quelle parti sono “antichi contadini, come i loro alberi, son tozzi, con le caratteristiche dei denti bianchi e degli occhi neri, anche verdi, talmente son pieni d'anima” (p. 48). Parlano una lingua viva “per chi l'ha succhiata col latte”, per gli altri è marocchino. Turla e Mìnico, vicini di casa, sembrano essere sposi promessi; lei si concede qualcosa di più del dovuto con un monaco, e ha inizio uno psicodramma terrificante.
“Breve storia del contrabbando”. Nofi, un giorno prima dell'arrivo degli americani. Comincia la festa: i tedeschi sono in fuga. “È venuta l'America!”, s'esulta. E tuttavia sono giorni difficili, serve tutto, vestiti, scarpe, cibo, tutto. Ci sono le vecchie auto, mezze rotte, ma mancano i meccanici. Quando c'è qualcosa non c'è il denaro per comprarlo. Cominciano i giorni del gran contrabbando. Lentamente, la Campania torna alla vita. “Americani e napoletani erano diventati cittadini della stessa nazione. Quelli tentavano di parlare il dialetto e i nostri l'inglese. E nacque una terza lingua” (p. 90). Per sconfiggere la povertà ci vorranno decenni, e potrebbero non essere bastati.
“Cappuccia” è ambientata post 8 settembre 1943. I carcerieri abbandonano San Pantaleone e fanno uscire i galeotti. Scappano tutti quanti, euforici, eccetto il Cappuccia, settant'anni. È un carcerato diventato carceriere-servente, uomo di fiducia dei secondini, che non ha nessuna intenzione di ritrovare una civiltà diversa da quella che aveva lasciato, piena di tram, moto, auto, biciclette e via dicendo. Finisce per morire in difesa del penitenziario, massacrato dai marocchini che non capiscono la sua lingua. Come Orlando contro i Saraceni.
“Il confinato” è la storia di Gionetti, esiliato a Nofi. La gente lo considera un nemico, perché è un nemico dello Stato: il fascismo, sin qua, ha dato ricchezza e benessere a un popolo poverissimo. Un popolo incapace di riconoscere e di decifrare cosa stia capitando, complice l'eliminazione dei partiti, la censura e la drammatica scelta d'entrare in guerra con l'alleato più nefasto. Rea racconta le tristi giornate di Gionetti e di sua moglie, sino al momento in cui sbarcano gli alleati in città; e il confinato si getta verso le case, tra i proiettili, e non capisce più niente.
“Capodimorte” è ambientato nei giorni della cacciata delle truppe italiane dall'Africa. Le cose si mettono molto male, per il regime; qualcuno cerca di tirarsi indietro. Uno che non può farlo è il fascistissimo Pirone, detto “Capodimorte”. Povero diavolo, analfabeta ma ambizioso, sposato, tre figli, senza mestiere, mutilato e dirigente d'una associazione di mutilati, è fedele alla rivoluzione e non vuole sentire parlare di dissenso. Ma quando cade il fascismo, ecco che rivela di non esser mai stato mutilato, e d'aver barato pur di avere la pensione. Subito diventa idolo del popolo: lui sì che ha fregato Mussolini.
“La rapina di Cava” è la storia di due giovanotti di Scafati, avventurieri poverissimi, e del loro desiderio di festeggiare come Dio comanda la settimana santa. L'impresa finisce con una morte d'una vecchia rapinata e con l'arresto d'uno che forse non c'entrava fino in fondo; la morale della favola è molto triste.
“Il mortorio” è una nuova vicenda di miseria e di morte; guerra tra poveri per rubare qualche soldo e magari rifarsi la vita per qualche mese. Una vecchia mendicante viene uccisa, l'assassino si tranquillizza pensando che andrà a poggiarle bei fiori sulla tomba. Impunito, e tutto tranquillo.
“La cocchiereria” è una memoria dei giorni in cui, automobili ben distanti, Napoli vantava cinquemila cocchieri, sette o ottomila carrettieri, centinaia di maniscalchi. Nascere figlio di cocchiere era una ragione di vanto. Le cose cambiano, ma una sorta di antico codice e di antico, invincibile orgoglio rimane vivo anche quando la società è cambiata.
“Il bocciuolo” è la dodicesima e ultima novella. Almeno questa rimanga misteriosa, a beneficio dei neofiti. Adesso ho una gran voglia di rileggermi “Ninfa plebea”, e credo che ci ritroverò qualcosa di diverso. Saprò capirlo meglio. Ne riparliamo, promesso.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Domenico Rea (Napoli, 1921 – Napoli, 1994), operaio, stenografo, correttore di bozze e scrittore partenopeo.
Domenico Rea, “Gesù, fate luce”, ISBN, Milano 2010. Postfazione e Nota al testo di Domenico Scarpa. Collana “Novecento Italiano”, 7. ISBN: 9788876381669
Prima edizione: Mondadori, 1950. Con prefazione di Flora. Sei edizioni in sei anni; per la storia completa delle dodici edizioni precedenti a questa, cfr. “Nota al Testo” di Scarpa.
Gianfranco Franchi, febbraio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.