Naturalmente elegante come un giovane Nesta, virtuoso come l’eterno Bruno Giordano, l’artista romano Filippo Tuena, sanguemisto svizzero-triestino, milanese d’adozione, idolatrato dalla critica per romanzi fondamentali come “Ultimo parallelo” [Rizzoli, 2007] e “Le variazioni Reinach” [Rizzoli, 2005], gran biografo michelangiolesco [sua l’imprescindibile “La grande ombra”, Fazi, 2001], è incredibilmente tifoso della Lazio. Qui nel “Caffè Sport” potrà confessare tutta la sua fede, a partire dal suo esordio sugli spalti.
Magister, ricordi il tuo esordio? Che stagione era, che Lazio era? Chi ti accompagnava? Che settore?
Non so se fosse il mio esordio, ma credo che la prima partita della Lazio di cui abbia memoria sia stata un Lazio – Pro Patria di cui ricordo un particolare: l’infortunio al portiere avversario. Sono andato a vedere su wikipedia notizie di quell’incontro che risultò essere stato giocato il 16 giugno 1963. Avevo 10 anni. Quella fu una partita importante perché la vittoria avrebbe dato alla Lazio il visto per la serie A. Finì 2 a 0 e la formazione di quell’incontro è una di quelle che ricordo a memoria: Cei, Zanetti, Garbuglia, Carosi, Pagni, Gasperi, Maraschi, Landoni, Bernasconi, Morrone, Moschino. Allenava il duo Lorenzo-Lovati. La vidi in Monte Mario, Tribuna d’Onore sinistra, dove mio padre aveva l’abbonamento.
Cosa significava essere tifoso della Lazio, al Liceo? È proprio vero che ti trovavi in minoranza assoluta? Con quali fastidi, con quanto orgoglio?
Abitando ai Parioli quel senso di marginalità connaturato nell’essere laziale era abbastanza mitigato. In più, nella palazzina dove abitavo (che ho descritto in un mio libro, ‘Tutti i sognatori’) eravamo tutti parenti e tutti laziali. No, questo senso d’inferiorità non l’ho provato, se non per i risultati quasi sempre deludenti che incasellava la Lazio degli anni ’60. E per buona parte degli anni a venire, salvo forse l’ultimo ventennio.
Come hai vissuto lo scudetto di Maestrelli? Raccontami quella Lazio.
Avevo l’abbonamento quell’anno e dunque vidi tutte le partite. Era l’anno dell’austerity e si andava all’Olimpico a piedi. Qualche volta persino in taxi. Riuscii anche a convincere mio padre a fare nuovamente l’abbonamento (l’anno precedente era stato un campionato splendido – veramente meritevole di scudetto – con l’ultima giornata in bilico e la sconfitta a Napoli e la vittoria della Juventus). Insieme a noi c’è un amico romanista, Fabio, che fece sempre il tifo per noi, salvo al derby, ovviamente. A ogni gol di quel campionato il primo abbraccio era per mio padre, il secondo per l’amico romanista. Nel corso del tempo sono venuti a mancare tutti e due. Dunque ricordo con affetto quella stramba formazione: un laziale anziano, suo figlio e l’amico romanista.
Quali sono i tre giocatori della Lazio con cui ti sei più identificato, nel corso del tempo? E perché?
Identificato non so, io giocavo in porta, ma ho sempre ammirato quelli che calcavano il campo in tutta la sua estensione. Uno dei miei idoli è stato un giocatore irrisolto, svogliato, imprevedibile: Arrigo Dolso, un mancino alla Corso, coi calzettoni abbassati. Giocò alla Lazio dal 1966 al 1971, con una breve parentesi al Monza. Mi piacevano le sue assenze durante la partita, dormiva proprio in piedi, e poi i guizzi improvvisi, i gol di rapina, l’andatura dinoccolata e lentissima. Però i dribbling e i tunnel…
Chinaglia, i primi tempi, mi entusiasmò. Era una bestia, un bisonte privo di grazia ma quando partiva verso la porta diventava irresistibile. Peccato che la sua ignoranza lo abbia alla fine reso una caricatura. Non posso perdonargli d’aver disilluso tanta gente che credeva in lui. Dei tempi recenti ho ammirato la brevissima stagione di Jugović, centrocampista sublime, che rimase solo un anno perché credo lo spogliatoio non digeriva le sue inclinazioni sessuali. M’è capitato nel corso degli anni di giocare in tornei contro ex laziali: con Carosi, Pagni, Governato, Morrone. Ricordo che parai una punizione maligna di Carosi in una partita del torneo ‘Caravella’ e di riceverne i complimenti. Un piccolo successo personale. Con Governato, il ‘professore’ ho invece diviso un premio letterario, anni fa, elargito dal CONI. Eravamo seduti accanto e gli dissi: ‘Da ragazzo ho visto tante sue partite, complimenti”. Il premio lo vinse Gianni Mura e noi due arrivammo ex aequo.
Roma-Liverpool, Roma-Lecce, Roma-Sampdoria: scegli il momento più bello.
Nel veder soffrire la Roma non c’è bellezza, ma una sottile forma di malignità che so ricambiata quando è la Lazio a vedersi sfuggire i successi per un soffio. Quanto al quesito, la risposta è ovvia: Roma-Liverpool. Vidi la partita in televisione, a casa dei miei. Al rigore sbagliato di Ciccio Graziani, aprii la finestra del terrazzo e suonai la tromba.
Come hai vissuto il passaggio dal vecchio Olimpico al nuovo Olimpico, attorno a Italia ’90? Quel restyling ha cambiato qualcosa, nelle tue abitudini? Cosa s’è perso, cosa s’è guadagnato?
Per molti anni non sono andato allo stadio, tutt’ora non ci vado più se non forse, una volta l’anno. Smisi di andarci dopo la morte di Paparelli, il tifoso laziale che prese un razzo in faccia, durante un derby del 1979. Seguì, quello stesso anno, l’ignominia del primo calcio scommesse: Wilson, Cacciatori, Giordano e Manfredonia che si vendevano le partite. Gente che era stata una bandiera – forse anche per quel povero Paparelli – che prendeva per i fondelli migliaia di tifosi ogni settimana. Una vergogna senza fine, per la loro miseria di persone e per esser stati ingannati tutti noi tifosi. Una pena che non ti dico. La botta definitiva la diede, qualche anno dopo, la strage dell’Heysel. Ciliegina sulla torta: il ‘ti faccio ammazzare’ gridato nel 1990 da Schillaci a Poli. Ultimamente mi ha fatto vomitare quel poveretto giocatore semiprofessionista – non voglio neppure citare il suo nome – che a Marzabotto è andato a esultare col saluto fascista e la maglietta con l’aquila della R.S.I. davanti ai tifosi della squadra locale. Ho letto oggi che ha avuto 8 mesi di squalifica. Io lo avrei radiato. Anche questa: che pena. Tristi anche i battibecchi tra allenatori: Sarri: “Mancini frocio”. Mancini: “frocio a chi?”. E ancora Sarri adesso che se la prende con la giornalista ‘carina’. Patetico. Ma veramente è questo il livello dei protagonisti del calcio odierno? Io son cresciuto con altri modelli di sportivi.
La Lazio di Eriksson e il suo scudetto onirico: dov’eri, quel 14 maggio 2000? Stavi soffrendo da qualche parte, magari con una radiolina accesa, oppure eri allo stadio, nonostante la disillusione?
Ero a Milano, mi ero trasferito da 4 anni. Era un pomeriggio di sole, avevo accompagnato mio figlio, giocava nel campetto della parrocchia sotto casa. Francamente non mi facevo nessuna illusione. Non ricordo chi mi telefonò e mi annunciò la vittoria. Tornati a casa, avevo la bandiera della Lazio (perché i vecchi amori rimangono sempre amori) e la misi sul balcone. Suonai anche qualche squillo di tromba. Te lo immagini un signore di mezz’età, scrittore più o meno rispettato che suona la tromba e agita la bandiera della Lazio a via Solferino a Milano? Ecco, quello lì sono io. La bandiera rimase sul balcone per tutto l’anno.
Lulic, 26 maggio 2013, Roma kaputt: ci sarà mai rivincita?
C’è già stata. Infinite volte. Non riusciamo ad emanciparci da quella sudditanza. Però non mi è mai piaciuto neanche lo sfottò di Totti; il non guardare in faccia Rocchi allo scambio dei gagliardetti di un derby; la maglietta con la ‘purga’; il ‘telefonino’… e così via. Se non erro però è stato il romanista col peggior differenziale nei derby…
Passo indietro. Cosa ha significato tifare Lazio nella stagione eroica del “meno nove”? Ricordi come ti sentivi a settembre, e cosa ti aspettavi da quella squadra?
Come ti dicevo, dal 1979, per almeno una dozzina d’anni, mi sono disinteressato del calcio. Seguivo a volte la “Domenica Sportiva”. Ricordo perfettamente la mezza rovesciata di Fiorini ma, insomma, dalla morte di Paparelli qualcosa s’è rotto. Poi ci sono stati altri scandali – poco puniti, secondo me; il brutto episodio di Lazio-Inter del 2010, quando ci facemmo battere in casa. Vergognoso.
Cosa rappresenta, per te, la Lazio di Lotito? Riesci a riconoscerti come prima, nella tua Lazio, oppure è cambiato qualcosa?
È una domanda che mi trova tiepido. Vedo le partite in televisione perché mio figlio viene a vederle da me a volte con gli amici ed è un modo di condividere qualche ora. Mi piace Simone Inzaghi; Tare è molto bravo come manager, acquista bravi giocatori per poco e li rivende prima che facciano naufragio con un buon guadagno; Lotito è quello che è; lo stadio semivuoto mi mette malinconia. Troppe partite.
Cosa conservi, a casa, dei tuoi anni da tifoso, o almeno dello stadio? Hai qualche vecchia bandiera, qualche vecchia sciarpa, una rivista, un vecchio “Corriere”…?
Devo avere da qualche parte: a) la tessera del primo scudetto 1973/74; b) una sciarpa biancoazzurra che mi fece una fidanzata in quegli anni; c) una maglietta più recente che mi ha regalato mio figlio; d) la copia della Gazzetta dello Sport, comprata a New York (ero lì quei giorni) con la vittoria della Lazio in Supercoppa (gol di Salas); e) una fotografia di me sedicenne con la bandiera della Lazio sulle spalle, all’Olimpico, prima di un derby. Ma i traslochi hanno nascosto un po’ tutto. Difficile ritrovare le cose. Chiudo raccontandoti un progetto che non sono riuscito a realizzare. Anni fa volevo curare una raccolta di libri di scrittori tifosi che dedicavano racconti alla squadra del cuore. Avevamo pensato d’iniziare con 4 squadre: Inter, Milan, Juventus e Lazio. Ovviamente io mi sarei occupato della Lazio. La Lazio ha sempre avuto scrittori tifosi di primo livello. Contattai Cordelli, Trevi, Piperno, Montefoschi, Zeichen, mi c’ero messo anch’io. Mi sembrava una bella prima squadra. Sarebbe venuto un bel libro. Ma non s’è fatto. Magari tra un po’ ci riprovo…
Gianfranco Franchi, marzo 2018.
Prima pubblicazione: Mangialibri, “Caffè Sport”.
Per approfondire: TUENA in Porto Franco.