Edizioni Mediterranee
1997
9788827204566
“La giovinezza – la nostra giovinezza – si dichiara per una visione spirituale, eroica ed agonistica della vita. Essa rigetta ogni specie di materialismo, di mito economico o socialistico, in tutti i domini” (Evola, “Per una ‘Carta della gioventù’”, p. 6; De Turris, p. 64).
“Elogio e difesa di Julius Evola” è un libro che doveva essere scritto: e l’indiscutibile merito di questa coraggiosa pubblicazione va a Gianfranco De Turris e alle Edizioni Mediterranee. Doveva essere scritto perché la conoscenza del pensiero e l’introduzione allo spirito dell’opera d’un filosofo non può essere ostracizzata e manipolata da odiosi dogmi ideologici: doveva essere scritto perché l’influenza di certa ideologia ha attentato alla libertà d’espressione, e compromesso il libero pensiero, inquinandolo alla fonte, con una massiccia opera di condizionamento “di massa”. E se davvero questa Repubblica intende mostrarsi differente dagli errori del passato regime, non può oscurare o rifiutare la pubblicazione e la circolazione dei testi: di nessuno. Senza scomodare Voltaire, immagino che sia una coscienza acquisita quella dell’inaccettabilità del logos-cidio.
Evola – spiega nitidamente De Turris – è il tabù della Kultura italiana: provinciale e condizionata dalle lobby, fiduciosa nell’esistenza di “valori della modernità”, avalla e accetta autori, editori ed estetiche degradanti e intellettualmente degeneranti; e tuttavia ostracizza e nega l’opera del filosofo della Tradizione. Salvo, ovviamente, richiamare Evola alla memoria per accusarlo – lui, magister che non ha mai accettato discepoli – d’essere stato eminenza grigia delle frange della “destra eversiva” degli anni Settanta; omettendo, ricorda De Turris, di ricordare che mai Evola aveva avallato l’azione violenta, opponendosi anzi a una condotta di questo tipo: predicando un’esistenza estranea all’attività politica. La sua era dottrina, e non politica: azione interiore e individuale.
Altri e altrove furono i cattivi maestri del terrorismo: De Turris, con grande puntualità, ricorda come e quanto esultò il giornale “Lotta Continua” annunciando l’assassinio di Calabresi; ricorda (riferendosi a “Rosso e Nero” di De Felice), che Feltrinelli pubblicò, nel 1969, con intento “politico” e “pratico”, il libro di Pietro Secchia (ex vicepresidente comunista al senato) “La guerriglia in Italia (da Mazzini alla Resistenza)”: tuttavia nessuno si sognò d’accusare Secchia e Feltrinelli d’essere mandanti morali degli omicidi delle BR, dei NAP, di PL. La tendenza, negli anni Settanta, era ben differente: c’era chi definiva, sulla stampa, “sedicenti” le Brigate Rosse; Umberto Eco si impegnò, in un numero de “L’Espresso”, a dimostrare come un volantino delle BR fosse opera d’un brigadiere dei carabinieri (p. 35): De Turris ricorda che l’illustre semiologo non ha mai fatto ammenda di questa presa di posizione, e invita i lettori a tornare a leggere “Eskimo in redazione” di Brambilla (Bompiani, 1993), per chiarirsi le idee a proposito di un certo clima ideologico e di certe mistificazioni. Provvederemo.
Intanto, nel 1997, è ancora necessario pubblicare un libro come questo – a metà strada tra saggio, cronaca e pamphlet – per ribadire l’estraneità dell’opera di Evola all’opera dei NAR, quando nei suoi scritti, Evola non parlò mai di eliminazione fisica degli avversari, né incitò alla violenza e al terrore. A differenza d’altri. Quindi non solo non fu eminenza grigia della lotta armata: ma neppure, tra 1948 e 1974, scrisse qualcosa che potesse essere sorgente d’aggressione dell’alterità.
Evola era il filosofo dell’Individuo Assoluto. Perché è così avversato? Secondo De Turris, perché incarna il simbolo di tutto ciò che l’intellettualità progressista detesta ed odia, e costituisce una pericolosa sopravvivenza d’un mondo che si riteneva distrutto: è “l’alterità”, che il dogma non prevedeva. “Questa ‘alterità’, questa ‘pericolosità’ e questo suo essere divenuto malgré lui un ‘simbolo’, sono dovute soprattutto al fatto che Evola – nell’ambito di quella che si può definire latu sensu la cultura non-conformista – è un pensatore completo, il quale possiede una ‘visione del mondo’ generale, vale a dire riferentesi a tutti i piani, comprendente tutti i valori necessari all’uomo contemporaneo che vive da estraneo nella Modernità, che prova il freudiano ‘disagio della civiltà’, che si trova a ridosso del Terzo Millennio ancora completamente impreparato. Evola è più ‘pericoloso’ di Gentile, ad esempio, perché fornisce dettami esistenziali, codici di comportamento, che si rifanno ad una più complessiva Weltanschauung. Evola, ad esempio, è assai più ‘altro’ di Guenon, perché non è soltanto un metafisico come il francese, non rimane soltanto su un piano dottrinario, ma si cala nel mondo e da principi generali fa discendere principi di orientamento esistenziale. Evola, ad esempio, è più ‘pericoloso’ di un Pound, di un Céline, di un Drieu La Rochelle, perché le sue teorie non sono rimaste né ad un livello di pura estetica, di pura poesia, di pura letteratura, o anche di pura ‘ideologia’, ma di esse ha tentato un’applicazione dottrinaria man mano adeguata ai tempi: quel che scrisse a livello ideologico dopo il 1945 era alquanto diverso da quello che aveva scritto prima del 1945, ma veniva adattato alle nuove situazioni, proprio perché, come Evola ha sempre detto, il contingente non deve essere confuso con l’essenziale e ci si deve lasciare alle spalle tutto il superfluo” (p. 22)
Paradossalmente, il libro che più s’è trovato infamato da certa cultura e certa stampa, “Cavalcare la Tigre” (1961), fu accusato dalla dirigenza della Destra politica d’allontanare gli iscritti dall’attivismo politico: “evoliano” era lemma equivalente a “impolitico”. Fu soltanto negli anni Settanta che venne interpretato (e dunque: frainteso), da certe frange, come strumento d’opposizione al sistema; ripudiando lo spirito dell’opera, e forzandolo. Non fu il solo autore fatto oggetto d’odio e di veleni: in compagnia di Nietzsche, von Salomon, Jünger, Mishima, Evola veniva tuttavia propagandato come il principale “responsabile oggettivo”. In quegli anni, è bene non dimenticarlo, Lotta Continua pubblicava “Pagherete tutto” (1975): lista di proscrizione contenente nomi, indirizzi, fotografie e schede di uomini noti e meno noti di destra. Tra loro, Sergio Segio, consigliere missino di Milano, assassinato da Galmozzi di Prima Linea; e numerosi altri cittadini, oggetto di vigliacchi pestaggi a sangue. Si veda, a questo proposito, quanto scritto a p. 36 e seguenti. Nessuno ha mai perseguito gli autori di questo “dossier”: che pure era un evidente invito alla violenza, e all’omicidio; purtroppo, “ideologicamente accettato”, è bene prenderne atto.
Il giudizio delle prossime generazioni sarà drastico: chi ha ucciso nel nome d’una ideologia, negli anni Settanta, verrà chiamato per nome; e non sarà possibile giustificarlo. Chi ha impedito alle opere d’un pensatore di circolare, e le ha infamate e oltraggiate e ostracizzate, dovrà rispondere della sua censura. De Turris sostiene che buona parte dell’odio riversato nei confronti di Evola derivi da quel meccanismo pavloviano per cui è accettabile e apprezzato il campo semantico delle parole “guerriglia”, “rivoluzione” e “lotta partigiana”, mentre “legionario”, “eroe”, “individuo assoluto” creano i presupposti per una reazione scomposta.
Evola dunque è stato regolarmente decontestualizzato; ha patito il capzioso espianto di piccoli blocchi di frasi di un’opera intera; non è stato valutato come l’autore di testi dedicati alla sapienza orientale, all’esoterismo occidentale, al neo-spiritualismo, all’eros, alla riflessione sull’esistenza; né come traduttore del povero Weininger.
È rimasto l’autore, per certa cultura, dei saggi sulla razza e del saggio contro il cristianesimo, pubblicati in epoca fascista e mai più ristampati: sempre l’autore si batté perché non ne circolassero neppure versioni clandestine, ritenendoli figli di quel tempo, e pretendendo fossero assolutamente contestualizzati. De Turris giudica ogni libro evoliano assolutamente legato al resto della sua produzione: che andrebbe analizzata e studiata nella sua interezza, e non previa mistificante introduzione ideologico-giornalistica (campione sembra esserne Giorgio Bocca – si veda, a questo proposito, l’accurato smascheramento delle sue falsità anti-evoliane effettuato dal De Turris: ad esempio, alle pp. 44-45), e neppure per episodica e casuale selezione. La produzione di Evola è costituita da scritti assolutamente intrecciati tra loro: va interiorizzata l’opera omnia.
Alla fine degli anni Quaranta, Evola tornò in Italia, ridotto in sedia a rotelle dall’esplosione di una bomba. Riprese a pubblicare firmandosi, inizialmente, “Arthos”. Scriveva, tra le altre riviste, su “Imperium”, espressione dell’ala spiritualista del MSI: assieme a Scaligero, era una delle guide dei giovani utopisti di Destra. Venne arrestato nel 1951, accusato d’essere ideologo del FAR (colpevoli dell’esplosione di “varie bombe carta”) e di apologia del fascismo. Mai furono rilevati termini di apologia del fascismo, negli articoli che aveva pubblicato: il pensatore venne prosciolto. Il suo fu il primo arresto per “reato d’opinione”, dopo la Legge Scelba del 1947. Enzo Erra ricorda (p. 55) che Evola invitava a lottare sul piano delle idee e dello spirito, tenendosi lontani da ogni forma di violenza. Evola suggeriva la ricerca di una “via iniziatica”: la sua era un’azione volta a creare un “uomo nuovo”, collegato ai principi trascendenti – in ambito dunque metafisico. La formazione interiore derivava dalla nuova coscienza di sé che ognuno doveva avere nell’Europa post 1945, combattuta tra due modelli degradanti, branche d’una stessa tenaglia: il capitalismo americano e il “socialismo reale”.
In queste condizioni, era necessario il distacco da tutto quel che fosse politico: Evola predicò la “apolitia”. Disimpegno, rifiuto a servire, a negare quel che la politica era divenuta: economia e socialità. Solo una parte dei giovani militanti del MSI seguirono questa rotta, confluendo nel Centro Studi Ordine Nuovo nel 1956, discostandosi dal partito: erano del gruppo di Julius, e di Scaligero. Evola – che mai fu iscritto a un partito, è opportuno ricordarlo – non accettava l’idea che esistesse un partito retto da una struttura burocratica: agognava un ordine cavalleresco, che fosse èlite dello Spirito.
Il suo “anarchico di destra” aveva delle basi: “Una certa capacità di entusiasmo e di slancio, di dedizione incondizionata, di un distacco dall’esistenza borghese e dagli interessi materiali ed egoistici (…), un gusto per l’autodisciplina in forme libere, staccate da ogni istanza sociale (…)” quindi, una serie di valori che “si propongono (…) come basi per assicurare ad un essere una vera forma ed una saldezza. Il coraggio, la lealtà, la non tortuosità, la ripugnanza per la menzogna, l’incapacità di tradire, la superiorità ad ogni meschino egoismo e ad ogni basso interesse possono essere annoverati fra tali valori che, in un certo modo, sovrastano sia il ‘bene’ che il ‘male’ e vertono su un piano non ‘morale’ ma ontologico: appunto perché danno un ‘essere’ e lo rafforzano, di contro alla condizione presentata da una natura labile, sfuggente, amorfa” (Evola, “La gioventù”, pp. 220-221; richiamato nel volume di De Turris, pp. 98-99).
L’emarginazione era ragione di vanto. La differenziazione, ragione di orgoglio: “Data una società ed una civiltà come le attuali e, specialmente, come quella americana, nel ribelle, in colui che non si adatta, nell’asociale, è in via di principio da vedersi l’uomo sano” (Evola, “La gioventù”, p. 221; in De Turris, p. 99).
Evola contestava una civiltà. Mai ha scritto nulla, a partire dal 1945, a proposito d’una azione armata. Liberatevi dal pregiudizio, e tornate a leggere i suoi libri. Era uno “straniero in patria”, estraneo ai compromessi e alla disonestà intellettuale. Era un uomo libero. Predicava una rivoluzione spirituale: il suo pensiero deve tornare a circolare e ad essere analizzato, studiato e interiorizzato come quello d’ogni altro filosofo del Novecento.
ULTIME ANNOTAZIONI. Io non cerco rivalutazioni reazionarie - cerco da un lato di testimoniare altre verità che altrove vengono proposte e testimoniate, dall’altro cerco di capire le ragioni dell’ostracismo nei confronti di un autore. De Turris, esaminando gli articoli scritti da Bocca in chiave anti-evoliana, dimostra che Bocca aveva letto poco e male le opere di Evola (o non aveva letto una riga?), e che mistificava, colpendo con argomentazioni non corrispondenti a nessun testo: questo è grave. Stesso discorso, vale per altri studiosi: pure, a detta del prefatore, Galli, perfettamente in buona fede. De Turris scrive che Evola non ha mai parlato, dopo il 1945, di aggressioni o di violenze contro nessuno, invitando piuttosto a rinunciare all’impegno politico: e questo è un fatto, che non va trascurato. E aggiunge: se può essere giudicato responsabile di violenze, allora lo sono i libri di chiunque abbia ispirato azioni violente, da qualunque parte e in qualunque momento, senza aver invitato concretamente alla violenza. E anche questo è un pensiero legittimo e pacifico.
A proposito dei fatti legati a Calabresi, l’autore riconosce che qualcuno stia pagando per l’avvenuto: ma tende a mostrare come le pubblicazioni di “Lotta Continua” fossero latrici di violenza, a differenza di altre, che non predicavano violenza, ma ricerca interiore.
De Turris – semplifico – fa capire che ci sono stati due Evola: uno, trascurabile per diretta ammissione del barone stesso (pur con confuse e grottesche argomentazioni), colpevole di antisemitismo; l’altro, filosofo della Tradizione e autore legato allo spirito. È bene studiare l’altro Evola, senza negare quel che Evola è stato prima: il pensiero va sempre salvato e tutelato, e non può essere criticato a priori, senza aver mai letto nulla d’un autore. Che è quello che poteva capitare se non fosse stato ristampato: la damnatiomemoriae. Mancava poco. È inaccettabile che un uomo di cultura abbia avallato la politica del regime nazionalsocialista: e che abbia dimostrato, con la sua condotta, di detestare la libertà dei popoli e l’umanità intera. Ma questo incancellabile stimma – se vogliamo essere più grandi dei nostri predecessori – non può impedirci di studiare i suoi scritti, per salvare quanto di buono in essi è contenuto, e interiorizzare e tramandare quanto può andare a beneficio del progresso e dell’evoluzione dell’umanità.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Gianfranco De Turris (Roma, 1944), giornalista, critico letterario e narratore italiano. Ha curato “Omaggio a Evola” (Volpe, 1973) e “Testimonianze su Evola” (Mediterranee, 1973; seconda edizione ampliata, 1985). Dal 1993 è presidente della Fondazione “Julius Evola”, coordinandone i “Quaderni”, e dirige la nuova ristampa commentata delle opere del pensatore, edite dalle Edizioni Mediterranee. Ha scritto romanzi di narrativa fantastica. Ha curato, negli anni Sessanta, la sezione narrativa della rivista romana “Oltre il cielo”. Negli anni Settanta ha curato con Fusco le collane di fantascienza di Fanucci. Infine, negli anni Ottanta ha diretto la rivista “L’Altro Regno”, dedicata alla critica fantascientifica, è stato presidente del Premio Tolkien ed ha curato le collane di fantascienza dell’editore Solfanelli.
Gianfranco De Turris, “Elogio e difesa di Julius Evola”, Edizioni Mediterranee, Roma, 1997. Prefazione di Giorgio Galli. Lo studioso riconosce la radicale ostilità di Evola alla democrazia rappresentativa, e non sente possibile non riconoscerlo come rilevante pensatore politico. Esprime due, condivisibili riserve: a proposito dell’antisemitismo e del collaborazionismo (p. 13). Giudica correttamente interpretata la narrazione dell’abisso che separava la lotta armata dalle posizioni del filosofo.
Gianfranco Franchi, ottobre del 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.