Joker Edizioni
2004
9788875360078
“Un pittore, o un poeta, non può staccarsi dalla realtà per isolarsi in un mondo che ha solo del fantastico e dell’invenzione. Parlo del fantastico e dell’invenzione che distraggono dalla riflessione sulla vera condizione umana e della natura, che è aspirazione, tensione, sofferenza, dolore, spesso disperazione e annullamento, modificazione sostanziale, come risultato di ambizioni violente” (Santamaria, “Spunti di riflessione”, p. 67).
L’artista lucano Franco Santamaria è un poeta malinconico, gentile e acquatico; il suo canto è tenue e leggero, tutto rivolto al riconoscimento di quel che d’umano è rimasto nell’umanità, e orgogliosamente e dignitosamente resiste, per “barricate di carta” (“Come nelle veglie d’Oriente”); la morte che s’invoca o si chiama, “nell’attesa lunga / di un nuovo diluvio” (“Legame”), deve essere catarsi e rigenerazione; Santamaria s’appella a una rinascenza dell’uomo, e non, sic et simpliciter, a una apocalissi.
La condizione del poeta è puntualmente dipinta da quest’immagine: solitudine di pietra lunare. È uno status che impedisce d’assistere a una fedele rappresentazione di sé; le parole non sanno plasmarsi, non si lasciano scolpire e cesellare; stentano a riflettere quel che è, e quel che nella vita del pensiero avviene. L’artista allora scava “nei rumori della pioggia” (“La mia voce”): e se non basta questa seconda attestazione della sua acquaticità, oltre alla precedente epifania d’un diluvio, sappia il lettore che l’artista “sale alla radice dei fiumi” (ancora “Legame”), che sente la pioggia (particolare, del meridione) come quel che comprime l’umanità (foglio bianco) e così la legge: “Pioggia impura, / avvolgente nelle sue vene / di filo spinato, / di alluvioni e di frane, / di corpi galleggianti con le orchidee” (“La nostra pioggia”) – non vuole dimenticare la terra e il sole, ma sente che questo tempo è estraneo all’energia e all’origine; è tempo d’acqua, che s’infiltra e scroscia e cancella e nega; non è una cascata splendida da contemplare, non è stupore e non è meraviglia; è dissoluzione, e distruzione.
È una distruzione che non è ostacolata da nulla: Santamaria non nomina, in questa sua acquatica produzione lirica, né diga che non sia triste, né argini che non siano tagliati: e allora, in qualche modo, possiamo aspettarci che questa atipica percezione del sistema e dell’umanità, bianca e grigia e blu notte, s’evolva fino ad assumere (è una congettura: il libro è stato stampato nel 2004) connotato o valenza profetica, e non più e non soltanto elegiaca o sociale; perché dubitiamo che l’opposizione “solarità-acquaticità”, intravista in questo volume, sintetizzi la visione di quel che è, e di quel che potrebbe divenire. Intanto, “Andiamo lungo un fiume / in piena / di argini tagliati, / di case sommerse, / di cadaveri naviganti su tronchi di mimose / alla deriva” (“Lungo il fiume”): la parola ha l’inspiegabile dono di confinare e negare (“Profughi”), non è acqua che il confine annulla e l’esistente muta e contamina o rigenera o altera.
Nella raccolta “Echi ad incastro”, composta da trenta poesie e uno “spunto di riflessione”, s’intravedono ossi di seppia: questi ossi di seppia sono “quel che rimane” al poeta, estenuato dall’esperienza e ferito dall’esistenza. Vediamo: “A me rimane / niente più / che il colore del sangue e il gemito delle ali / spezzate, / l’affanno soffocante della fuga dopo l’esplosione” (“Legame”); “A noi un attimo solo / resta del nido / dove / goccia a goccia / stillava la nostra vita” (“Solo per un attimo”), “rimane / un senso stupefatto d’inspiegabile / assenza / e l’acquatica penetrazione / del grido della sirena violata” (“Fragilità”), e infine – splendido congedo, indubitabilmente – “Rimane ancora / il suono di due sassi tra le mani, / sulla cima degli alberi / il cantastorie è muto” (“Lento oblio”).
Mi sembra di poter evidenziare delle analogie, in questo topos della rimanenza: il relitto dell’esperienza è un istante, la memoria di qualcosa di perduto, madre d’una nostalgia implacabile, consapevolezza e coscienza d’una assenza lacerante e dilaniante: tanto da condurre, inevitabilmente, all’afasia; alla lucidità della pietra, che ogni cosa ha osservato e testimoniato, e nulla può se non pretendere la lenta erosione dell’acqua; per dimenticare d’essere esistita, o per vedere sublimata la propria esistenza. S’intravede, infine, l’ombra d’un’ideologia che il tempo ha sconfitto, madre e sorgente d’una certa sensibilità nei confronti dell’alterità e delle rivendicazioni sociali: “Alla falce e martello è unito il pianto, / gonfio del grido dei giorni / calpestati ed esplosi / sulle linee delle pietre, nostre antiche armi”: a partire da versi come questi, la critica potrà dilettarsi a individuare la matrice dell’impegno a una poesia “etica”, e la tensione alla ricerca d’una “ipotesi di felicità ampia e duratura” dell’autore; onestamente, non intendo avallare letture ideologiche del testo – e non solo perché non condivido quell’ideologia, e non ne sarei buon “martire”. Preferisco pensare a questi versi come a un’onda di disperazione, gentilezza e malinconia che s’è distesa sulle spiagge della mia anima, consolando e sostenendo la mia ricerca d’arte e di purezza nella parola e nel pensiero. Auspico che questo avvenga per ogni nuovo lettore dell’opera dell’artista lucano.
PAROLE D’AUTORE (di Franco Santamaria)
«Voglio precisare che la mia poesia vuole essere non tanto espressione della mia personale realtà, quanto grido / eco della condizione di sofferenza degli uomini (tra i quali ci sono anch’io) e di tutto ciò che con tanta facilità (dovuta ad ignoranza / qualunquismo / egoismo) oggi viene deriso, calpestato e distrutto manomettendo un certo ordine evolutivo naturale, che è anzitutto rispetto. Quindi, vuole farsi voce di tutti coloro che soffrono senza sapere perché, ma anche di quelli che sanno e non sono capaci di trovare la forza di opporsi e riscattarsi. E per questo, la voce / grido / eco degli uni si incrocia e si “incastra” con la voce / grido / eco degli altri, con una speranza che non è azione propria e cosciente, quindi destinata ad affievolirsi fino a scomparire o, al più, a diventare illusione e inganno rivolto a se stessi, per sopravvivere alla forza di un “ingordo” rapace, che ha al suo servizio la “pioggia” (“che non è quella invocata dagli uccelli”) e il “vento” che tutto travolge. Questo non può essere espresso in modo piatto nella poesia, altrimenti non è più tale, ma a termini e situazioni faccio assumere connotati simbolici perché diventino universali e atemporali: la pioggia, il vento, il fiume, l’albero, le radici, la pietra, la falce, il martello, etc. e poi il rapace con i suoi attributi, le mani, gli atteggiamenti, l’azione / non azione, il vecchio, il bambino, etc. diventano simboli della vita e delle condizioni che la determinano, severe perché troppo forte si è fatta la violenza del “rapace” e dei suoi servitori e troppo debole la capacità / volontà di chi vi si deve opporre. È ideologia tutto ciò? No, è semplicemente un profondo desiderio di pace e di giustizia per l’umanità, quella più vicina o quella più lontana non fa differenza, che possiamo realizzare solo muovendoci e spingendo gli altri a muoversi secondo principi di rispetto della dignità umana e dell’ordine della natura. Spero di aver chiarito, per quel che è possibile qui, il movente primario e la qualità del mio fare poetico. Molto probabilmente non sarà consono alle aspettative di chi mi dovesse leggere, ma trovo molto giusto quello che hanno scritto recensendo “Echi ad incastro” Monica Borettini (“l’io del poeta è l’io dell’umanità”) e Adam Vaccaro (“se viene a mancare il noi di una comunità, l’io è poco più di niente”)» (Franco Santamaria, ottobre 2004)
ANTOLOGIA CRITICA
“L’opera di Franco Santamaria – in poesia come in pittura, disciplina nella quale l’autore concretizza con accesa espressione le proprie angosce – è eminentemente politica, sociale: si fa coraggiosamente e caparbiamente carico delle sofferenze altrui non immaginando di sottrarli al prossimo (così fa chi si ritiene un dio, o il personaggio di un racconto – penso a The wish house di Kipling), ma condividendole ed approfittando con generosità della propria facoltà, essendo egli un artista, di levare il proprio canto sopra la palude di conformismo ed oppressione che smorza il grido di chi artista non è. Non c’è, tuttavia, nell’opera di Santamaria la componente dell’illusione: egli sa bene che l’artista proprio in quanto tale è costituzionalmente ostacolato, messo a tacere, eliminato, e proprio per questo egli sfrutta al massimo ciò che il comune nemico (la mediocrità, l’egoismo, lo strapotere…) gli permette di esprimere, organizzandolo in forme verbali o pittoriche le quali si nutrono sempre di un sanguinoso agon, di una lotta incessante, corpo a corpo, violenta e senza esclusione di colpi (…) Santamaria sa farsi corda vibrante per simpatia, sconfiggendo quel soggettivismo soffocante che l’uomo coltiva da sempre (e che nell’artista, guarda caso, è gioco-forza imperante anche qualora restasse ad di qua dell’egotismo), un’interpretazione della propria sofferenza come riflesso del patire umano, sofferenza esistenziale più che condizione di dolore personale”. (dalla Prefazione di Sandro Montalto)
“(...) se è vero che il poeta dipinge un panorama di solitudine, talora di nichilismo che è solo suo e gli appartiene tutto, rimane anche vero che il lettore è profondamente coinvolto (a fresco di lettura, ho avvertito una sensazione di avvolgimento, quasi di assedio, ad opera della densità della sua lirica) nella ricerca di consonanze, affratellato nell’inchiesta e nell’indagine (appunto, un incastrare echi). La poesia di Santamaria, infatti, ha il dono non usuale di farsi voce comune, di parlare anche per la sete di verità altrui, anche in conflitto con i limiti imposti dallo spazio e dal tempo (...)” (dalla recensione di Gian Domenico Mazzocato)
“Le figure retoriche, di senso e di suono, rimandano di volta in volta alla carnalità e alla metafisica, in un’alternanza di slancio passionale, “ho lasciato il cuore alle tue forme”, e meditazione contemplativa, “dalle nostre case se ne andarono presto i sogni”, che riposano su arcane, sedimentate certezze, frutto di un lungo, laborioso percorso esistenziale, che si fa cifra di un vissuto universalmente ed univocamente partecipato. Monologhi sussultano inquieti, sconfinando su parole e concetti-chiave, Tempo e Solitudine, che segnano il vissuto inquieto di un’anima sulle tracce di una sfuggente eternità che irride i nostri sogni” (dalla recensione di Maria Teresa Manganiello)
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Franco Santamaria è nato a Tursi (Matera), risiede ad Afragola (Napoli), dopo lunga permanenza prima a Taranto, poi a Napoli. Ha pubblicato i volumi di poesia “Primo lievito” (Gastaldi), “Storie di echi” (Ferraro) ed “Echi ad incastro”.
Franco Santamaria, “Echi ad incastro”, Joker Edizioni, Novi Ligure 2004.
Gianfranco Franchi, settembre 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.