Armando Editore
2006
9788883588914
Questo strano libro di narrativa – diciamo un memoir molto compassato e beneducato, piccolo borghese e capace di qualche polemicuccia strisciante ma mai feroce e mai netta – non sarà di conforto allo studioso di una delle più gravi fonti di stupidità, di deconcentrazione e di egoismo della società occidentale: ossia, il telefono. Tuttavia, sappiate che “E al telefono tu. Apologia del cellulare. Divagazioni notturne” serve, forse involontariamente, per ricordare quei meravigliosi anni in cui l'alieno strumento di invasione della vita privata dei cittadini, dei marmocchi catodici e dei professionisti era ancora guardato col sospetto e col rispetto che si dedica allo sciacquone, nei bagni: era uno strumento funzionale, opportuno in certe, fortuite e quotidiane circostanze, quindi semplicemente non doveva rompersi. Doveva servire per una manciata di secondi, massimo un paio di minuti, e per il resto del tempo restarsene là, immobile. Muto.
Naturalmente non sto dicendo che questo libro servirà ad armarvi di consapevolezza e di odio, dell'odio necessario per distruggere per sempre la centralità dei telefoni nelle vostre esistenze; purtroppo, si direbbe che la Lucchiari sia tra quei cittadini che hanno, pure a malincuore, accettato l'integrazione del ciocco di silicio parlante nelle proprie vite. Ha una certa nostalgia del passato, ma vede nell'accrocchio gracchiante uno strumento di comunicazione – l'unico – con certe persone amate, e si consola così. Animo, signora Anna: non è finita. Siamo al principio di una grande battaglia di civiltà. L'abolizione completa e definitiva del telefono moderno, della telefonia e dell'inciviltà che governa l'invasione di compagnie telefoniche, gadget imbecilli (schermi, suonerie, servizi inutili, web per comunicazioni sgorbie e spionaggio d'accatto, etc), campagne di marketing e telefonate del cazzo, inutili e prepotenti prevaricazioni periodiche nella vita dei nostri compatrioti. Quando il mostro smetterà di gracchiare, e tornerà a essere utile come una scopa, allora la nostra società sarà tornata a essere una civiltà. Almeno: si sarà avviata su quel sentiero che alla presenza fisica e alla realtà, alla materia e alla verità restituisce i rapporti umani, ripristinandone l'essenza. Tutt'altro che verbale. Il verbale è quello del vigile urbano quando passi col rosso. Tutto qui.
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Nelle prime battute, la Lucchiari ricorda gli anni belli in cui il telefono era considerato un lusso: nero, inchiodato al muro, in un posto scomodo e maledettamente favorevole all'eco dello squillo, costringeva a parlare in piedi e a perdere tempo ripetendo, “mi senti?”. Ovviamente non aveva appeal, e non aveva particolare senso: faceva scena. Serviva per darsi comunicazioni indifferibili e urgenti senza perdere troppo tempo. L'autrice, bambina, a ogni squillo avvertiva “brividi di eccitazione e una enorme curiosità” (p. 8). Chi poteva mai telefonare a casa? Certo non qualche azienda di vini, acqua, olio, sostegno ai cittadini che hanno perso una falange in vacanza-studio e via dicendo: né qualche infame compagnia telefonica che ti sveglia dopo una notte di lavoro per proporti un favoloso abbonamento al nuovo servizio televisivo, o un cialtrone conoscente di quinto grado che vuole avere un favore e ha letto il numero sull'elenco. All'epoca, chiamavano solo le persone famigliari e care. Gli altri non osavano. Bei tempi.
In quella civile società, campeggiava, in certe case borghesi, una macchina da cucire: simbolo e segno di lentezza, di cura artigianale, di propensione al personalismo, pure piegato alle esigenze del nucleo famigliare. Allora si preferiva investire in poltrone piuttosto che in palmari; parlare al telefono serviva poco, stare seduti come cristo comanda era un piacere. Se raccontassimo a quei nostri ormai lontani compatrioti che c'è chi spende un milione e mezzo per uno smartphone, e non per un divanetto, credo che quel nostro antenato impazzirebbe a forza di ridere. E invece no, nonno: c'è chi ha magari tre cellulari e quattro telefoni fissi, ma in compenso ha due sedie di plastica e gli scaffali delle librerie vuoti; pochi libri, pochi film. Molti filmati o foto sul suo telefonino. L'immagine del niente è un istinto compulsivo.
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Per incontrarsi, racconta la Lucchiari, allora bastava darsi appuntamento in strada. Lo so, sembra incredibile, ma potrebbe funzionare anche oggi. Pensateci su. Chi abita distante può sempre scriversi. La scrittura è uno strumento di comunicazione molto più civile, lento e meditato: sentito. Non s'impone, non ruba tempo, non pretende immediatezza né interazione istantanea. Non è un maledetto cazzo di telefono. L'email è geniale, da questo punto di vista: placa gli ansiosi (“devo parlargli! Devo dirglielo!”), assicurando loro che il messaggio è andato a destinazione, ma non costringe i destinatari, loro interlocutori, a dare loro bado o ragione in tempi irragionevoli e imposti. No. È intelligente, l'e-mail. È rispettosa. Come un sms. Come ogni forma di comunicazione scritta.
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La Lucchiari riferisce della successiva metamorfosi dell'alieno: il nero mostro era diventato grigio, sempre magnificamente scomodo e ingombrante, magari piazzato su un mobiletto. In casa, c'era giusta e opportuna scarsa tolleranza per le ciacolade telefoniche: “Telefonate brevi! Per le lunghe ci si scrive”, le diceva il padre, un umanista in cui mi riconosco (p. 11). Un grand'uomo che oggi dovrebbe parlare alla nazione a reti unificate. Io sono un suo ultras.
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Passano gli anni. La Lucchiari si sposa e l'alieno, poco a poco, si fa bianco. Lo definisce “una cosina graziosa, tipo mouse, che mi divertiva”. Ocio alla trappola e alla consapevolezza di noi vittime: “La trasformazione cromatica prometteva una maggiore familiarità” (p. 12). Con un telefono? Famigliarità con un telefono? Ma allora anche un palo della luce può essere famigliare. Anche un cartello stradale del 1982 può diventarlo. Scherziamo? Non è finita. “Ora è colorato, di fogge diverse, poco più grande di un cellulare e mi segue per tutta casa, senza fili, senz'altro in comune con l'avo che i buchini artisticamente disposti” (p. 12): un incubo spacciato per meraviglia. Non posso crederci. Quanto ai buchi, evito di analizzare il concetto, sto pensando a una cosa sbagliata.
L'atroce è avvenuto: “Il telefono non era più un marchingegno che serviva per le comunicazioni indispensabili e improrogabili, era un confessionale (…) un palcoscenico senza spettatori” (p. 13). La Lucchiari evidenzia che il grottesco ruolo di status symbol di quel cancro ambulante che è il cellulare ha aspetti orribili: “Un uomo è veramente importante quando il suo telefonino squilla in continuazione, quando disturba tutti e il proprietario si guarda intorno tronfio e con contenuto orgoglio” (p. 17). Secondo l'autrice, il mostro portatile corrisponde a “una aspirazione di recitazione a soggetto: per il pubblico” (p. 19). E' consapevole della sua potenza: “non si spegne completamente, sta in stand-by, registra le chiamate che possiamo riprendere l'indomani, ci avverte con piccoli bip che abbiamo appena ricevuto un messaggio” (p. 27); leggete bene queste parole e meditate. Non abbiamo via di scampo. Quel robo non muore. Quel robo dorme, come noi. Soltanto, registra tutto, a differenza nostra, che dormendo ci cancelliamo dal mondo per qualche ora. Il bastardo vigila e tutto memorizza.
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Gli SMS (“videotelegrammi”: buona definizione. Significa “video-scrittura-a distanza”) sono guardati con sospetto: la Lucchiari non valuta la loro ottima natura di comunicazione rispettosa dell'umanità e della privacy, destinata alla risposta in differita, preferendo considerarli strumenti ludici o emi-ludici.
Spieghiamo le ragioni del fraintendimento: l'autrice ritiene che la voce esprima la persona: che sia anzi “tutta la persona” (p. 31). Addirittura? Non basta. Per via dell'eccessiva comunicazione scritta, via mail, la voce ha assunto diversa centralità. “Benedetto cellulare” - scrive - “che consenti collegamenti plurimi nel tempo, che porti voci e memorie da lontano e lontanissimo che si rincorrono in un labirinto di strade (...)” (p. 40; segue confuso discorso sugli emisferi cerebrali). Ma attenzione: la Lucchiari sa che “si parla con un altro ma anche con se stessi, come fosse un lungo monologo a voce alta” (p. 46).
E su questa allarmante e angosciante consapevolezza, s'interrompe la mia analisi. Perché sto pensando a quanti maledetti monologhi mi sono sorbito da quando ero bambino, quante inutili rotture di coglioni mi sono state riversate addosso, e vorrei prendere a sganassoni chi mi ha monologato nelle orecchie rubandomi ore di vita, senza pietà della mia pazienza e della mia comprensione. La gentilezza viene sempre scambiata per disponibilità. È un boomerang, la gentilezza, se uno ha la disgrazia di avere parenti o amici logorroici, o tendenti al monologo. Un giorno, mi vendicherò distruggendo la vostra imbecille cultura della comunicazione telefonica. Voglio sradicarla. Ho appena cominciato. Spargeremo sale sulle cartacce delle ultime pubblicità delle compagnie multinazionali. Sarà un gran momento.
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Pensate: nel 1930, l'American Telephone and Telegraph company poteva orgogliosamente comunicare alla stampa che ciascun telefono degli States poteva essere collegato a 32.2000.200 dei 35.300.000 telefoni del mondo. Impressionante, no? 1930. Ma come diceva Guzzanti, qualche anno fa, pensando dello stesso falso fenomeno di “globalizzazione” del web, del miracolo della comunicazione tra un italiano e un abitante dei poli: “a eschime', ma io e te, che cazzo c'avemo da dicce?”. In effetti. A volte, manco col vicino di casa c'è troppo da dire. Figuriamoci al telefono. Si può condividere il silenzio. La cornetta è come la conchiglia, no? Quando dall'altra parte c'è il vuoto, o semplicemente vuoi smettere di sentire quei fonemi disarticolati, è come se ascoltassi il mare. Le onde. Le onde. Le onde. La spiaggia.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Anna Lucchiari, scrittrice e traduttrice veneziana.
Anna Lucchiari, “E al telefono tu. Apologia del cellulare. Divagazioni notturne”, Armando Editore, Roma 2006.
Gianfranco Franchi, aprile 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.