Voland
2003
9788888700106
“Ma forse non dovrei rimproverare troppo Lily per la sua voglia d’avventura, ognuno ha la sua droga. Antiquariato, arte, cibo, sesso, malinconia, melodramma, Dio, musica, denaro, monete, francobolli, feste, cinema, famiglia – droghe – chi più ne ha più ne metta. Qual è la vostra droga? La vita è fatta di avidità e desiderio. La vita è alimentarsi della propria droga” (Vanessa Jones, “Dodici”, sette).
“Dodici” è un romanzo scritto al limite di una linea d’ombra che non si può, o forse semplicemente non si sa, varcare. È una promettente opera prima, narrata adottando differenti prospettive e mantenendo tuttavia fede all’ormai ineludibile prima persona. Vanessa Jones traduce e trasfigura la sua esperienza esistenziale tratteggiando uno spaccato d’un contorto e asettico momento storico e d’una generazione che soffre eccessivamente per un’identità frantumata e per ruoli che si giudicano estranei alle proprie attitudini e alle proprie caratteristiche. Non è difficile identificarsi nella nitida percezione d’essere “fuori tempo” propria di Lily, protagonista della storia, e nell’inequivocabile disorientamento che pare emblematicamente sintetizzare i pensieri e le esistenze di tutti gli attanti.
La buona notizia è che Vanessa Jones s’è inserita nel sentiero tracciato, nell’ultimo decennio, dall’ispirata e leggerissima penna di Jonathan Coe: non sprofonda in digressioni soporifere quando veleggia nell’esistenzialismo, non s’impaluda nella retorica quando s’affida alla sintesi. Cattura: ma non rapisce. I personaggi sono ritratti con gusto impressionista: rapidissime pennellate, luminose e irregolari, accecanti trionfi di colori vividissimi alternati a curiose trasandatezze: vuoti nella narrazione, cortocircuiti temporali, improvvisa ed estraniante stasi bozzettistica. Si avverte una tendenza a soffermarsi su dialoghi che, per la verità, non sempre risultano brillanti o risolutivi o particolarmente connotativi: all’insegna della funzionalità e nell’ambizione di un’incisività che non sempre viene conseguita.
Lily e il suo microcosmo sono protagonisti di un’opera che, non volendo forse essere paradigmatica, riesce invece a fotografare un malessere generazionale diffuso: i personaggi soffrono per un senso di inadeguatezza e di estraneità alla società e al sistema, sono inerti ma non indifferenti, fragili ma non depressi. Cercano “originalità”: conquistano, al massimo, un precario equilibrio. Incontriamone qualcuno.
C’è il compagno d’appartamento, il malinconico pittore e arredatore Josh, che sembra non potersi esimere dal nutrire sentimenti tutti camerateschi per Lily. Sembra. È silenzioso e introverso; è un personaggio che non trova più le parole, e allora pensa e sogna. Ha una sua singolare visione del mondo. Ne parteciperemo nelle ultime battute del libro.
C’è l’amico “ludico”, Edward, grande giocatore di dama, scacchi, bridge e Risiko, compagno di interminabili confidenze, cultore dell’arte della conversazione, persuaso che “il segreto della vita è godersi il mondo senza volerlo possedere”. Ha una ragazza, vivono un amore che Edward non riesce a definire. Forse lo inventa. È personaggio dalla superficie profonda: scivola.
C’è una vicina d’appartamento, Shirley, che incarna quell’artefatto ordine borghese che tanto atterrisce Lily e Josh: sposata, un figlio ancora troppo piccolo, assorbita dall’economia domestica, ha sviluppato una mentalità “integralista massaia”. Lily non trova poesia nella semplicità della sua vita; Shirley giudica infelice l’esistenza della sua vicina. Allora, in un certo senso, coesistono senza “convivere” o “condividere”. Si studiano. Senza trovarsi.
C’è un bambino piccolo, Oliver, figlio di Shirley. È l’unico bambino che piaccia a Lily. Rivive il mistero dell’infanzia attraverso i suoi occhi. Oliver sa contare fino a dodici, dunque tutto il suo mondo è tutto in base dodici. Più avanti, Lily penserà che tutto il mondo dovrebbe contare in base dodici. Cambierebbero le cose, forse. Intanto, il romanzo viene strutturato in dodici capitoli: tanto per non equivocare. C’è infine una storia d’amore con un ragazzo che, per le cicatrici degli abbandoni e per l’eccessiva solitudine, non conosce amore: Colin. È una nuvola che si materializza nella vita di Lily, e dimentica di diventare pioggia. Il colpo di fulmine, in fondo, is only real in retrospect.
Poco a poco, ascolteremo le voci di ciascun personaggio nei panni del narratore, come si accennava in apertura: polifonico ed eterogeneo, “Dodici” mantiene un’apprezzabile compostezza e si distende con una non comune varietà. Il romanzo conquisterà più facilmente le sensibilità delle lettrici per la scostante grazia dell’autrice, e per una irresistibile vocazione all’identificazione con la protagonista: ma troverei azzardato e fuori luogo ghettizzare nella narrativa uterina contemporanea, alla Bridget Jones per intenderci, un libro come questo. Promettente e appassionante.
“Le nostre esistenze individuali sono repliche dettagliate dell’evoluzione dell’intera specie. Quando un bambino comincia a reggersi sulle gambe, diventa homo erectus, e quindi homo sapiens. Un uomo che pensa. Alla fine di ogni anno scolastico, mi sembrava che la scuola fosse un magnete che momentaneamente cambiasse segno per respingerci, come limatura di ferro. È di nuovo così che mi sento il venerdì sera quando abbandoniamo la nostra città, per non tornarci più, un giorno o l’altro. Ma quando? Viviamo in quest’attesa. A scuola c’è la sensazione di un’altra vita che sarà tua, ed è questa la sensazione che provo adesso. Casa: una casa non irraggiungibile, e tuttavia intoccabile” (Vanessa Jones, “Dodici”, uno).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Vanessa Jones (1970), laureata in Lingua e Letteratura inglese presso l’Università di Oxford, ex decoratrice di interni. Narratrice britannica.
Vanessa Jones, “Dodici”, Voland, Roma, 2003. Traduzione e postfazione a cura di Giuliana Giobbi.
Prima edizione: “Twelve” HarperCollinsPublishers, 2000.
L’ideazione e le prime stesure del romanzo risalgono al 1995.
Gianfranco Franchi, novembre 2003.
Prima pubblicazione: Lankelot.