Dizionario dei nomi propri

Dizionario dei nomi propri Book Cover Dizionario dei nomi propri
Amélie Nothomb
Voland
2004
9788888700168

Quello che Plectrude viveva alla scuola dell’Opéra si chiamava ebbrezza: un’estasi nutrita da un’enorme dose di oblio. Oblio delle privazioni, della sofferenza fisica, del pericolo, della paura. Procurandosi queste amnesie volontarie, poteva buttarsi nella danza e scoprirvi la folle illusione, la trance di librarsi in volo” (p. 112)

Un romanzo non dovrebbe essere semplicemente una storia: un romanzo dovrebbe essere la storia, per antonomasia, d’un’anima, dalla sua nascita al compimento della sua sorte; e solo un grande romanzo può negare la morte del suo protagonista, preferendo che a morire sia il creatore. Perché – in questo frangente – si vuole forse suggerire che il protagonista ha deciso di cavalcare le onde del tempo, pretendendo di impadronirsi della realtà. Può un golem ribellarsi al suo maestro? Soltanto se s’innamora del senso della sua esistenza; e allora va a infrangere e cancellare i confini che separano la realtà dall’immaginazione, cortocircuitandoli; divenendo un nome, che niente potrà corrodere o contaminare.

Questo romanzo è la storia di un’anima. L’anima di Plectrude, che nasce da un amore d’adolescenti, disperato ed estremo (letterario, senza dubbio: ma fedele alla stravagante logica dell’amore, che può vivere nel rifiuto della Legge, delle norme, addirittura dell’etica), e cresce nell’amore “altro” dei genitori adottivi; nell’amore d’una madre che non sa semplicemente amarla, ma va adorandola e idolatrandola; perché in Plectrude vede e riconosce bellezza, talento, segni d’una predestinazione a una splendida sorte. La nostra eroina è deliziosamente capricciosa, è una fanatica della bellezza e vive la sua arte – la danza – come una religione. È abituata a essere assecondata in ogni desiderio, sembra miracolosamente cosciente della sua grandezza, e della sua eccezionalità.

Dizionario dei nomi propri” è un libro capace di parlare alle anime dei lettori del sentimento della maternità, della natura e dell’epifania della bellezza, dell’appartenenza e della dedizione – diremmo: della consacrazione – all’arte, dei rovesci della sorte e dell’amore; è un meraviglioso tributo alla femminilità, perché delle donne narra l’essenza, i più segreti sogni, l’amicizia e la natura; è la trascinante narrazione della vita d’una donna che vive la suprema coscienza d’esser superiore, per bellezza e talenti, senza poter immaginare d’essere all’oscuro della sua stessa origine; e come luce danza e scintilla, sin quando il freddo assassino dell’invidia, della frustrazione e della meschinità non va a intervallare di tenebra e d’ombra il suo sentiero esistenziale.

Accompagniamo Plectrude alla vita e nella vita: si narra di sua madre, Lucette, diciannovenne insonne da otto ore e incinta di otto mesi. Non è convinta che il padre di sua figlia possa diventare un buon padre – ed è bene credere che sia solo per via dei nomi che vorrebbe attribuire a chi nascerà, negando la sua assenza, l’inadempienza e l’inattitudine al suo ruolo, la sua superficialità. Lucette, allora, lo uccide: preferendo essere incarcerata piuttosto che moglie d’un uomo che sarà padre insensibile. Fabien, pure, era apparso come un principe azzurro; si sono sposati come bambini che indossavano abiti nuziali, incarnando quella che appariva come una favola. Ma Fabien non aveva mai cominciato a lavorare, si limitava ad andare a sparare al poligono. E quei nomi che avrebbe dato a chi stava per nascere significavano quanto misere fossero le sue ambizioni e le sue aspettative; è un piccolo borghese che non ha fascino, e non ha spessore. Lucette oltraggia ogni limite: si libera del suo errore, sradicandolo – letteralmente – dalla vita.

Quando nasce Plectrude, Lucette – madre incantata dalla sua bellezza – è in galera. Sceglie questo nome perché ha un finale che suona come uno scudo, e un inizio che fa pensare a un pettorale (p. 19): vuole che sia un “nome talismano”. Dopo averla fatta battezzare, si impicca.

La piccola ha occhi d’una bellezza inverosimile. La zia, nuova madre, non potrà che venerarla. Sarà la sua terza figlia; quella che non potrà soltanto amare, perché tanta è la sua grazia e la sua intelligenza che solo l’adorazione potrà apparire adatta. Vivremo l’infanzia e l’adolescenza di questa bambina, dagli anni dell’asilo – nei quali già incuteva soggezione per la profondità e l’insistenza del suo sguardo –, al suo primo ingresso nella scuola di danza e alle scuole dell’obbligo; è una bambina che scardina e sconvolge gli equilibri d’ogni ambiente in cui vive, perché pretende: “Pretendeva oro, incenso e mirra, porpora e gigli, velluto blu notte tempestato di stelle, incisioni di Gustav Doré, fanciulle dai begli occhi gravi e dalla bocca senza sorriso, lupi dolorosamente seducenti, foreste malefiche; pretendeva tutto, tranne la merenda del piccolo Thierry e della sorella maggiore Micheline” (p. 49). Chi vive nel segno e nel sogno della bellezza, non può che gioire viziando chi bellezza incarna; e ogni capriccio è un dono, e una richiesta che non può non essere esaudita. Quale piacere maggiore d’essere destinati ad appagare i capricci d’una bellezza tanto pura e innegabile? Quale gioia più grande del sorriso e della soddisfazione d’una creatura tanto gentile e perfetta?

Plectrude non ha fortuna, invece, negli anni della scuola. Mentre viene ammirata e divinizzata dalle sue compagne di danza, in classe soffre per l’assenza d’uno studio che costituisca e sia religione e causa di vita al contempo; e solo la presenza d’una sua amica ballerina, a partire dal secondo anno, mitigherà la sua insofferenza nei confronti dell’ambiente.

È in questa parte del romanzo che la Nothomb regalerà, al lettore, descrizioni bellissime del senso dell’amicizia e del tempo nella prospettiva dei bambini: campioniamo, ad esempio: “L’amico, per il bambino, è colui che ti sceglie. L’amico è colui che ti offre quello che non ti è dovuto. L’amicizia è dunque per il bambino il lusso supremo, e il lusso è ciò di cui le anime nobili hanno il bisogno più ardente. L’amicizia dà al bambino il senso del fasto dell’esistenza” (p. 52). Più avanti: “I bambini e i piccoli adolescenti osservano minuziosamente chi di loro è in anticipo o in ritardo, con un’ammirazione paradossale quanto il loro disprezzo. Quelli che esagerano sia negli anticipi che nei ritardi attirano su di sé l’obbrobrio, la disapprovazione, il ridicolo o, più raramente, una reputazione eroica” (p. 75).

Plectrude decide d’essere la regina di tutto ciò che si vede nel buio. Plectrude non ha paura del suo destino grande; vivrà della danza, e della danza vivrà religiosamente. Fin quando la sua dedizione all’arte non pretenderà un tributo; e quel tributo sarà doloroso e scarnificante, ma restituirà coscienza e memoria della sua origine… E avanti ancora, attraverso un amore che solca il tempo, e libera dal male; e narrando di madri che vogliono eternare il passato, e rispettare il destino, e di madri che negano la bellezza e la grazia delle loro creature quando la sorte nega loro affermazione e fortuna; cantando gioie tanto profonde da giustificare i sacrifici più crudeli (p. 68), e la tragedia dell’anoressia – male niente affatto oscuro delle donne occidentali del nostro tempo.

Dizionario dei nomi propri” è un libro fedele allo spirito del nostro tempo, e alla divina e adorabile essenza della femminilità; come ogni libro di Amélie Nothomb, scintilla d’intelligenza, d’atipicità e di vivacità. Memorabile elegia d’un’anima eletta, limpido canto della bellezza.

Da leggere, interiorizzare e amare.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Amélie Nothomb (Kobe, Giappone, 1967), scrittrice belga di lingua francese. Ha esordito nel 1992 pubblicando il romanzo “Igiene dell’assassino”.

Amélie Nothomb, “Dizionario dei nomi propri”, Voland, Roma 2003. Traduzione di Monica Capuani.

Prima edizione: “Robert des noms propres”, 2002.

Gianfranco Franchi, ottobre del 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.