Adelphi
2012
9788845927157
La triste parabola dell’atipico Guido Morselli, scrittore di estrazione borghese e granitica vocazione letteraria, si è conclusa nel 1973; rimasto pressoché inedito sino alla fine dei suoi giorni, ha conosciuto da spettro una progressiva affermazione italiana ed europea. Era uno scrittore scomodo. Era un talento distante dall’accademia, distante dai circoli culturali, dal gotha delle avanguardie. Aveva uno stile estraneo alla contemporaneità: era un estroso autodidatta, dalle disordinate e controverse letture. Un raro sincretismo culturale, dunque, che fondeva conoscenza, passione, stile, controllo perfetto del codice espressivo giornalistico e letterario. Morselli scriveva romanzi sconvolgenti e inconsueti. Pare che la sua vocazione fosse sconosciuta addirittura ai familiari più stretti; si era ritirato, giovanissimo, in un piccolo appezzamento terriero, nei pressi di Varese, dove, grazie alla modesta rendita garantita dalla sua attività di agricoltore, si era dedicato integralmente alla sua passione: la letteratura. Nonostante la laurea in Legge, mai approdò ad alcuna professione in ambito giuridico.
Impegno politico, ricerca spirituale, analisi sociale: accurata caratterizzazione dei personaggi, micidiale padronanza della lingua, impressionante scavo interiore: questi i tratti distintivi della sua opera. Quando propose, in una delle tante lettere spedite da comune cittadino, da “dilettante”, come amava definirsi, un’impostazione rivoluzionaria per i quotidiani e per le riviste, perché finalmente fossero espressione democratica del popolo, toccò tra gli altri a un personaggio del calibro di Umberto Eco, odierno monumento letterario nazionale, stroncarne l’innovativa energia e le oniriche velleità di trasformazione della cultura del nostro paese. Tuttavia, almeno in ambito giornalistico, qualche sporadica collaborazione il nostro riuscì a strapparla. Invano. Della sua vocazione ecologista e animalista ante litteram, dell’incredibile prosa visionaria del romanzo “Dissipatio Humani Generis”, del suo sofferto e dongiovannesco rapporto con il sesso femminile, derivato dalla perdita della madre in giovanissima età, conosceremo essenza ed esiti solo dopo il suo suicidio, per mano di quella “ragazza dall’occhio nero”, la Browning 7 e 65, preannunciata nel suo ultimo romanzo completo.
Rimangono, tra i testi ancora inediti, romanzi abbozzati come “Uonna”, di prossima pubblicazione per i tipi di Adelphi; nell’archivio Corti di Pavia, è possibile esaminarne il manoscritto. Pur di non consumare la carta, Morselli aveva scritto i capitoli di “Uonna” sul fronte e sul retro di un vecchio calendario. Impressionano, nell’archivio pavese, le condizioni dei testi del Morselli; trascurati e abbandonati dai famigliari, sono stati a tratti irrimediabilmente usurati dal tempo. L’edizione critica delle sue opere, in due volumi, è proprio in questo periodo in libreria; difficile privarsene, considerando e l’arte del nostro, e la faticosa cura filologica di Elena Borsa e Sara D’Arienzo, davvero impagabili per questa dedizione allo scrittore bolognese. Un plauso alla casa editrice regina del nostro altrimenti ripetitivo panorama letterario, la Adelphi di Milano, che sta permettendo al grande pubblico di accostarsi a questo talento unico. Qui racconto un romanzo che ritengo l’acme dell’arte di Guido Morselli: “Dissipatio Humani Generis”, terminato pochi mesi prima della prematura morte dell’autore.
“Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di ‘loro’”. Questo il folgorante incipit. Il romanzo è breve, intenso, disperato; una desolante contemplazione dell’umanità, della caducità dell’esistenza, un ininterrotto dialogo con l’idea del suicidio.
Il protagonista del testo, l’unico scopertamente autobiografico del Morselli, viaggia al termine della sua notte: sin dalle prime battute, si ha la sensazione di assistere ad un naufragio spirituale che lacera, dilania, paralizza; il nostro non sembra avere memoria di quanto gli è avvenuto. Progressivamente, quasi sotto l’effetto di una cupa e devastante ipnosi, ricorda di aver deciso di uccidersi poche ore prima di compiere quaranta anni (il pensiero torna al “Racconto segreto” di Drieu La Rochelle); di avere improvvisamente cambiato idea, e – al suo ritorno a casa – di non aver trovato più neppure l’ombra di vita umana. L’umanità si è dissolta. Svanita. Tutto è deserto; gli uomini, come in un vecchio testo di Giambico, sono evaporati, si sono come nebulizzati. (Congetturo: influenza de “La nube purpurea” di Shiel?)
Vane sono le ricerche: l’alter ego del Morselli vaga tra redazioni e abitazioni e caserme e aeroporti, scoprendo con malcelato piacere che la natura sta riconquistando il suo primato. E allora analizza, spietato e visionario, la sua condizione di essere umano, di potenziale nuovo Deucalione, di individuo forzato a quell’estraneità dalla comunità che prima sempre aveva lottato per conquistare; estraneità che si è resa misteriosamente unicità. L’alterità è svanita, l’unico soggetto possibile è l’Io. Via libera dunque allo sgretolarsi dei superbi palazzi, e all’oblio dei sentimenti e delle sensazioni: la natura trionfa, l’uomo scompare.
E questo unico derelitto osservatore dell’esito del millenario conflitto tra uomo e natura si gode la decadenza del sistema. Sistema che chiaramente è rappresentazione dell’Io: quell’Io che ha cessato di esistere in realtà, perché il nostro ricorda di essersi effettivamente suicidato. La “ragazza dall’occhio nero”, la Browning, appare per la prima volta nella memoria del protagonista dopo aver appurato che gli orologi, nel suo mondo, sono fermi alle due in punto: l’ora del suo incidente. “La soluzione finale, liscia e pulita, facile, l’avevo a portata di mano. Sono andato a prenderla, la mia ragazza dall’occhio nero, mi sono ridisteso sul letto con lei. Ho premuto la bocca sulla sua, a lungo. L’ho sollecitata col dito, una prima volta. Non abbastanza a fondo. E una seconda volta, sempre con la bocca sulla sua. Non la terza, perché d’un tratto l’ombra mi ha avvolto. E la quiete”.
Più avanti: “Quella notte (mi dico), tornando dalla grotta del Sifone; la ragazza dall’occhio nero, la browning 7 e 65, l’avevo vicina, quando mi sono coricato. E so che poi ho premuto il grilletto. È un’arma che non s’incanta. - L’ho puntata bene? - Me la sono puntata alla bocca. E la mattina c’era una chiazza di sangue, sul cuscino. - Ma i morti non vedono se stessi, il loro stesso sangue che hanno versato. - Chi lo garantisce, che i morti non si vedano? […] Pretesti. Per fingermi sopravvissuto. Pretendevo di essere un’eccezione. E invece, la notte del due giugno è stata l’ultima anche per me. Il resto, il ‘dopo’, niente altro che una frode della superbia solipsistica”.
E allora crediamo di assistere alle sue avventure in un irreale eterno crepuscolo; il tempo rallenta sino a dissolversi, tutto cambia senso e misura; e quegli intellettualismi che attraversavano le riflessioni del nostro, quel suo appellarsi e quel suo dialogare virtualmente con Durkheim o con Dostoevskij, si sciolgono, poco a poco. Appare l’ombra di una creatura umana. Il suo vecchio analista; un giovane dottore dall’anima gentile e dall’esistenza breve e sfortunata, che – novello Caronte – sembra accompagnarlo, come “relitto fonico”, nella nuova dimensione di quiete e pace e isolamento che avvolge il nostro. Mai vedremo descritto un altro essere umano; la stessa figura dell’analista sembra rivelarsi come l’ultima costruzione mentale del protagonista, desideroso di stemperare la sua disarmante solitudine. Un miraggio di umanità e fratellanza, altrimenti utopia. Una proiezione delle proprie speranze, espressione del proprio baratro. Dell’analista, dottor Karpinsky, sappiamo che era morto otto anni prima nel tentativo di sedare una lite tra due infermieri; l’allucinazione della sua voce appare in questo frangente: “In quell’istante, dalla cabina ancora aperta qualcuno mi chiama. Il timbro (maschile) della nuova voce, non è quello di chi si esprime attraverso un microfono. D’altronde il microfono l’ho riappeso, non può funzionare. ‘Sì,’dice l’uomo ‘mi riconosca, sono io’. Riconosco la voce. ‘Sono io e glielo dimostro, ricorda quella poesia che m’insegnò? Le recito i primi versi’. Li recita. ‘Ora mi ascolti. So che lei ha bisogno, io le verrò in aiuto. Spero che c’incontreremo presto, dove lei non ha potuto seguirmi’. L’allucinazione (ma è allucinazione?) è lucida e precisa, non ha nulla di capzioso, come non ha nulla di pauroso. È buona. È rasserenante”.
“Relitti inconsistenti, e ormai reliquie”: questo è quanto rimane della fantasia e della ricchezza dell’umanità nebulizzata: una reliquia. E tuttavia rimane all’uomo un istante di speranza: una sigaretta da offrire ad un’altra anima perduta, l’anima di Karpinsky, in un silenzio perfetto, in una dimensione nuova, annunciata nelle ultime righe del romanzo. “Soffro, dunque sono”, scrisse Morselli nel suo Diario. Nella coscienza d’essersi ucciso, e di esser per questo costretto a vivere in una sorta di desertico limbo, termina l’opera.
Opera dunque che affronta il tema della veridicità della memoria: se la percezione della realtà si fa confusa o incredibile, l’unica possibilità sembra essere quella di aggrapparsi alla memoria. La scrittura si fa medium di interpretazione, riflessione e comprensione della realtà. Scrivendo, il narratore ricostruisce la sua vicenda esistenziale; e pur permanendo incerto se quanto gli stia avvenendo sia reale o sia una visione, al termine sembra prender coscienza che quanto avvenuto, e la prossima annunciata apparizione dell’amico morto anni prima, convergano nel decretare che egli è morto, e tuttavia l’intera umanità s’è dissolta assieme a lui. Gli orologi interrompono il loro corso: la natura si riappropria della terra, una volta scomparso l’uomo. La menzogna, sembra suggerire l’opera, può essere affermare che “l’altro” esista (la memoria va al “Minotauro” di Dürrenmatt) se l’io scompare, in un certo senso scompare tutta l’umanità, non potendo più essere percepita dall’io. Altrove, quando la realtà avrà riflesso la letteratura, tutto sarà nuovo e puro.
“Soffro, dunque sono” (Quaderno XIII, 24 novembre 1950).
APPUNTI
Difficile inquadrare Guido Morselli nella tradizione italiana; rifugge ad ogni categoria, sembra non aderire ai canoni. Qualcosa, nel suo stile, mi ha ricordato Goffredo Parise; l’ultimo Parise, quello de “L’odore del sangue”, romanzo destinato al segreto e all’incompiutezza, crudo e vivido e scabro. Nella fluidità narrativa e nella profondità psicanalitica, si può ricondurre al primo Giuseppe Berto. Non vado oltre. Mi congedo da questa difficile pagina ricordando l’epitaffio che lo stesso Morselli dettò, ancora giovanissimo, nel 1939, auspicando di potere, almeno in questo modo, rendergli un tributo autentico, scevro da fraintendimenti e letture oblique. Guido “amò quanto poté, non odiò mai”.
Morselli si uccise il 31 luglio del 1973. “Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. Ho pregato, non ho ottenuto nulla; ho bestemmiato, non ho ottenuto nulla. Sono stato egoista sino a dimenticarmi dell’esistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né intorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. Tutto è egualmente inutile” (Quaderno XIII, 6 novembre 1959).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Guido Morselli (Bologna, 1912-Sasso di Gavirate, 1973), narratore e saggista italiano.
Guido Morselli, “Dissipatio Humani Generis”, Adelphi, Milano, 1977. Il libro è stato composto tra il 1972 e il 1973.
Gianfranco Franchi, febbraio 2002.
Prima pubblicazione: parte del pezzo proviene dalla mia tesi di laurea, “La menzogna nella Letteratura del Novecento”. Il resto, è apparso su Lankelot.
Sul massimo risultato di Guido Morselli, il fondamentale “Dissipatio H.G.”